6 - I
MISTERI DI THAN-KIÙ
Quella casupola sepolta in mezzo
alla foresta che serviva di rifugio agli insorti provenienti dai campi delle
provincie meridionali, recanti notizie dei congiurati di Manilla, era una vera
catapecchia, colle pareti di tronchi d'albero sconnesse, col tetto crollante,
ma circondata da quattro o cinque felci colossali che la celavano
completamente.
Anche passando vicino al
macchione, nessuno di certo avrebbe potuto supporne l'esistenza; poteva quindi
sfuggire anche alle indagini degli spagnuoli, i quali d'altronde non si
occupavano delle bande e degli insorti.
Udendo avvicinarsi i cavalli, un
uomo era uscito tenendo in mano un vecchio moschettone. Non era né un tagalo,
né un chinese, un malese, ma uno di quei brutti abitanti dell'interno delle
isole chiamati igoroti o negritos eta, veri pigmei, poiché di rado superano
l'altezza di un metro e quaranta centimetri, coi capelli lanosi come quelli dei
negri, il viso corto, le pinne del naso allargate, le labbra grosse, gli occhi
piccoli, il corpo esile, le spalle curve e la pelle nerastra, fuligginosa.
Questi strani esseri, che per la
loro tinta e pei loro lineamenti si staccano completamente dai tagali, sono veri
selvaggi che errano sui monti e fra i boschi dell'interno senza fabbricarsi
ricoveri, nutrendosi di radici, di miele, di frutta, o di selvaggina quando
riescono ad abbatterne qualche capo.
Vedendo
Than-Kiù ed i due malesi che doveva aver riconosciuti
quantunque l'oscurità fosse intensa sotto le grandi felci, abbassò il moschetto
e si tirò da un lato per lasciar entrare la giovane chinese ed il meticcio.
L'interno della casupola non
valeva meglio dell'esterno. Era uno stanzone ingombro di armi da fuoco e da
taglio e di alcuni mucchi di foglie secche che dovevano servire da letti, ed
ammobiliato con una rozza tavola ed alcune scranne di bambù, forse costruite
dal negrito. Un ramo resinoso, che spandeva più fumo che luce, cacciato in un crepaccio
del suolo, lo illuminava, ma così scarsamente che gli angoli rimanevano immersi
nell'oscurità.
Il meticcio, stanco delle vicende
della notte e dalle fatiche, si era lasciato cadere su di una scranna, mentre
la giovane chinese si era appoggiata alla tavola senza sbarazzarsi né del
cappello né del mantello. Aveva voltato le spalle alla luce della torcia, ma
spiava ogni minimo movimento di Romero e sembrava che si tenesse pronta ad ogni
suo cenno.
Pareva però che il meticcio si
fosse completamente dimenticato della sua compagna di viaggio e che la lunga
veglia lo avesse vinto poiché non si era più mosso.
Il ramo resinoso si era spento e
l'oscurità aveva invaso bruscamente l'interno della capanna, ma né l'uno, né l'altro
avevano pronunciato una sola sillaba.
Due volte i malesi che si erano
messi di guardia dinanzi alla porta della capanna, erano entrati per chiedere
forse degli ordini o per accendere una nuova torcia, ma
Than-Kiù, con un gesto silenzioso, li aveva rimandati, poi
aveva ripresa la sua immobilità. Si sarebbe detto che temeva di turbare il
riposo del meticcio o di distrarlo dai suoi pensieri, ignorando ella se
dormisse o se meditasse.
Ad un tratto
Than-Kiù si scosse, lasciando cadere bruscamente il
mantello di seta che l'avvolgeva. Romero aveva pronunciato un nome:
— Teresita!...
Gli era sfuggito quel nome mentre
dormiva e sognava della bruna fanciulla?... È probabile.
Than-Kiù
aveva alzato lentamente il capo che fino allora aveva tenuto chino sul seno, ed
un sospiro le era uscito dalle labbra, ma era così lieve che nessuno avrebbe
potuto udirlo. Le sue braccia però, che teneva strette al petto, provarono un
tremito tradito da un leggero tintinnio metallico, prodotto forse da alcuni
braccialetti o da alcuni gioielli che portava ai polsi.
Tornò però ad irrigidirsi, ma
tenendo gli sguardi sempre fissi sul meticcio, il quale a poco a poco si era
appoggiato alla parete, come se ormai il sonno lo avesse completamente vinto.
Intanto le tenebre lentamente si
diradavano. Spuntava l'alba e dalla porta rimasta aperta cominciava ad entrare
un po' di luce pallida, che rapidamente si tingeva di riflessi color di rosa
d'una infinita dolcezza. Anche attraverso ai tronchi sconnessi delle pareti,
altri sprazzi di luce entravano, mentre l'aria s'infiltrava più fresca e
profumata dall'olezzo degli aranci che crescevano in mezzo alla macchia.
Al di fuori, fra i rami degli
alberi, una coppia di cyrtostomus, piccoli uccelli dai colori brillanti a
riflessi metallici, simili a trochilidi americani, cinguettavano allegramente,
salutando la imminente comparsa del sole.
D'improvviso Romero alzò il capo,
come se si fosse bruscamente svegliato, rialzando con una mano i bruni riccioli
che gli scendevano sulla fronte. Rimase un momento immobile come trasognato,
poi si alzò di scatto, col più vivo stupore dipinto sul viso.
Than-Kiù gli
stava dinanzi, ancora appoggiata alla tavola, ma aveva lasciato cadere anche il
cappello e mostrava il suo viso, che durante tutta la notte aveva tenuto
costantemente coperto.
Il Fiore delle Perle, pur
appartenendo ad un'altra razza, poteva ben gareggiare per bellezza colla Perla
di Manilla e produrre una viva impressione anche sul cuore di Romero.
Quella giovanetta, nata all'ombra
delle pagode del Celeste Impero e trasportata, chissà in seguito a quali
vicende, sotto il dolce clima delle isole ispaniche, era forse una delle più
belle e delle più perfette creature nate dall'incrocio della razza mongola con
quella mantsciura. Era più alta di Teresita, mirabilmente sviluppata, dalla
pelle candida, senza quei riflessi leggermente giallastri che si scorgono sui
volti delle donne chinesi delle provincie meridionali, anzi d'una tinta quasi alabastrina,
ma con certe sfumature indefinite che solo si scorgono sull'avorio.
I suoi occhi, lievemente
inclinati, d'un nero intenso e che avevano una espressione dolce e malinconica,
quasi triste, erano velati da superbe ciglia brune e fitte; il suo naso non era
depresso come quello delle donne di razza tartara; le sue labbra rosse,
sottili, mostravano denti piccoli come granelli di riso, e d'una bianchezza
delicata.
Aveva i capelli nerissimi, con
certi riflessi metallici che facevano spiccare maggiormente la bianchezza
marmorea della pelle, raccolti intorno a tre spilli d'oro terminanti in tre
grosse perle; il corpo racchiuso entro una casacca di seta azzurra a fiori di
vivaci colori, stretta alla cintura da una larga fascia rossa ricamata in oro;
calzoncini ampi, pure di seta, ma bianca ad arabeschi gialli, ed i piedi
piccoli come una foglia di rosa, per usare una espressione chinese, nascosti
entro scarpine di broccato a punta rialzata e colla suola di feltro bianco.
Non portava gioielli né agli
orecchi, né al collo. Solamente ai polsi aveva alcuni cerchietti d'oro
sormontati tutti da una perla di notevole valore.
La giovane chinese, poiché doveva
essere molto giovane, forse al pari della Perla di Manilla, non si era mossa. I
suoi occhi però, sotto le folte ciglia che quasi li nascondevano, non si erano
staccati dal meticcio.
— Than-Kiù,
sei tu?... — chiese Romero.
— Sì, mio signore, — rispose la
chinese, con voce dolce.
— Hai vegliato, mentre io
dormivo?...
— Sì, mio signore.
— Invece di riposare?...
— Than-Kiù
non aveva sonno.
— Strana fanciulla!... — mormorò
Romero.
— Noi amiamo sognare cogli occhi
aperti.
— E sognavi del tuo paese forse,
delle cupole dorate od a scaglie dorate di ramarro della tua lontana città natia,
o delle albe del tuo Celeste Impero?
— Forse. Sognavi anche tu.
— Io?...
— Sì, mio signore.
— Ah!... È vero, sognavo
battaglie.
— E perle, — disse
Than-Kiù, socchiudendo gli occhi.
— Sì, anche questo è vero, — rispose
Romero, con un sospiro. — Sognavo della Perla di Manilla.
Udendo queste parole, un leggero
rossore si diffuse sul viso alabastrino della giovane chinese, ma si dileguò
subito.
In quel momento entravano i due
malesi portando su un vecchio vassoio alcune chicchere di thè fumante, che
deposero sulla tavola unitamente ad alcune focacce di frumento.
Than-Kiù
offrì graziosamente una tazza della profumata bevanda a Romero, scusandosi di
non potergli dare, almeno pel momento, di meglio; bagnò appena le sue vermiglie
labbra in un'altra, poi volgendosi verso i due malesi che parevano attendessero
di venire interrogati, chiese loro se l'igoroto era tornato.
Avuta una risposta negativa, la
bianca fronte della giovane chinese si corrugò, mentre i suoi begli occhi
tradivano una viva inquietudine.
— La cosa può diventare grave, —
mormorò.
— Temi che l'abbiano ucciso? —
chiese Romero.
Than-Kiù non
rispose. Si era gettata sulle spalle l'ampio mantello di seta bianca, si era
messa sul capo il suo grazioso Manilla ed aveva preso la sua piccola carabina,
una splendida arma colla canna rabescata ed il calcio intarsiato di madreperla.
— Dove vai? — chiese Romero.
— Mi attenderai qui, mio signore.
— Mentre tu vai forse ad
affrontare un pericolo?... Oh!... mai, Than-Kiù.
— Tu non sai dove si trovano gli
spagnuoli e non conosci questa foresta, — rispose la giovane chinese. — Mi
preme accertare una cosa.
— Quale?...
— Te lo dirò più tardi, mio
signore.
— Io voglio seguirti.
— No, è l'ordine del capo delle
società segrete, — disse Than-Kiù, con fermezza
incrollabile. — Tu devi obbedire, mio signore.
«D'altronde la mia assenza sarà
breve, spero».
Fece cenno ad un malese di
seguirla ed escì senza aggiungere sillaba.
Romero aveva fatto alcuni passi
come se volesse seguirla, ma l'altro malese gli aveva sbarrato il passo
dicendo:
— No, padrone. Bisogna obbedire a
Than-Kiù.
— Ma chi è quella fanciulla?...
Forse comanderà più di me, nominato capo supremo degli insorti della provincia
di Cavite? — chiese Romero, con stupore.
— Per ora devi obbedire, padrone.
— Ma chi è adunque quella
fanciulla?...
—
Than-Kiù.
— Lo so che si chiama così, ma da
dove viene, chi sono i suoi genitori?...
— Lo ignoriamo tutti, ma sappiamo
che tutti le obbediscono.
— Io non l'ho mai veduta prima
d'ora.
— Forse t'inganni, padrone,
poiché ella ti conosceva prima di ieri sera e l'ho udita io parlare sovente di
te.
— Ma dove?...
— A Manilla, e più tardi nel
campo degl'insorti.
— Conosceva me?...
— Sì, padrone.
— È strana!... Non mi ricordo
d'averla incontrata nelle vie della Ciudad. Una fanciulla chinese così
graziosa, non può sfuggire inosservata. È molto tempo che abita a Manilla?...
— Non lo so.
— Dove si trovava, prima che
scoppiasse l'insurrezione?...
— Non lo ricordo.
— O meglio non vuoi dirmelo —
— Può essere, — rispose il
malese, con un sorriso malizioso. Poi per tagliar corto quel dialogo uscì,
mettendosi di guardia alla porta della capanna.
Da una bisaccia che gli pendeva
dal fianco aveva estratto un pizzico di siri, miscuglio formato di noci
d'arecchie ridotte in polvere, di una piccola dose di succo concentrato
dell'amaro e astringente gambir e di un po' di calce viva, l'aveva avviluppato
accuratamente in un pezzetto di foglia di betel e si era messo a masticare, con
visibile soddisfazione, quella piccola pallottola, lanciando di quando in
quando getti di saliva rossastra che pareva mescolata a sangue.
Romero, conoscendo la
cocciutaggine dei malesi, si era seduto dinanzi alla casupola, aspettando
pazientemente il ritorno della giovane chinese.
Le ore però trascorrevano, ma
nessuno tornava, nemmeno il negrito che doveva aver lasciata la capanna prima
dell'alba. Il meticcio, le cui inquietudini aumentavano, temendo che qualche
disgrazia fosse toccata alla valorosa Than-Kiù, aveva più
volte proposto al malese di andarla a cercare, ma questi si era limitato a
rispondere che la chinese non era donna da lasciarsi sorprendere dagli
spagnuoli.
Erano circa le due pomeridiane,
quando gli acuti sensi del malese percepirono qualche cosa. S'alzò rapidamente
afferrando il fucile che teneva a portata delle mani, ma poco dopo tornò a
sedersi, dicendo:
— Tornano.
Romero respirò. L'eroica
fanciulla che esponeva per lui, con un sangue freddo straordinario ed
un'audacia incredibile per una donna, la vita, cominciava a destare nel suo
cuore un'ammirazione che poteva diventare pericolosa per la Perla di Manilla.
Poco dopo Than-Kiù
giungeva dinanzi alla capanna, seguita dal malese e dal brutto negrito. Pareva
che avesse fatto una semplice passeggiata, poiché le sue vesti non erano punto
disordinate; solamente il suo volto latteo era diventato leggermente roseo. Dai
suoi sguardi però traspariva una viva ansietà.
— Finalmente! — esclamò Romero,
senza nascondere la gioia che provava nel rivederla. — Tu mi hai fatto provare
molte angosce, fanciulla.
Than-Kiù
sorrise, mentre nei suoi occhi neri brillava un rapido lampo. Prese il meticcio
per una mano e trattolo nella capanna, disse, ma con un accento che tradiva una
profonda inquietudine:
— Hang-Tu
corre un grave pericolo.
— Lui!... — esclamò Romero. —
Come le sai tu?...
— Le truppe spagnuole accampate
nella provincia, si ripiegano precipitosamente su Manilla.
— Tanto meglio; ci lasceranno il
passo libero per giungere a Salitran.
— Non è Salitran che bisogna
salvare ora, ma Hang-Tu, mio signore.
— Non ti comprendo.
— Oggi gli insorti tentano un
colpo di mano entro le mura della capitale, per costringere il generale
Polavieja a sospendere l'investimento di Cavite, la quale non è abbastanza
fortificata per resistergli, e per lasciare a te il tempo di rendere Salitran
inespugnabile.
— E chi tenterà il colpo?
— Hang-Tu.
— Per uccidere tutti gli
spagnuoli di Manilla?... Disgraziato! Mi ucciderà Teresita!...
— Lui!... No, mio signore.
— Se non lui i suoi malesi ed i suoi
chinesi od i tagali. Quando quegli uomini sono scatenati, diventano tigri
assetate di sangue al pari dei juramentados e non risparmiano né donne, né
fanciulli.
— Hang-Tu la
proteggerà, — disse Than-Kiù, ma con voce sorda.
— Voglio tornare a Manilla.
— Volevo proportelo, quantunque
il mio cuore si ribelli.
— Perché,
Than-Kiù?...
La giovane chinese fece un gesto
negativo col capo, poi riprese con voce lenta:
— Ciò riguarda il Fiore della
Perle e non la Perla di Manilla.
— Che cosa vuoi dire, strana
fanciulla?
— Partiamo, mio signore,
Hang-Tu ignora che gli spagnuoli, avvertiti del colpo di
mano da qualche traditore, accorrono in aiuto della capitale. Se non se ne
accorgeranno, tutti quei prodi saranno schiacciati ed io non voglio che Hang
muoia.
— Lo ami forse?
— Sì... ma come un fratello.
Poi, dopo un sospiro, aggiunse
con voce triste:
— Tu non comprenderai forse mai
il Fiore delle Perle.
Uscì rapidamente dalla [A1] capanna
senza spiegarsi di più, salì sul cavallo che il negrito teneva per la briglia e
lo lanciò ventre a terra attraverso il bosco, gridando:
— Seguitemi o sarà troppo tardi!
Romero ed i malesi balzarono in
arcione e si lanciarono sulle sue tracce, spronando i corsieri.
Than-Kiù
galoppava sempre, ma non teneva una via dritta. Ora abbandonava il bosco
spingendo il cavallo in mezzo alla campagna coltivata, ora vi rientrava per poi
uscirne di nuovo. Forse sapeva ormai dove si erano accampati gli spagnuoli e
con quei giri li evitava per non venire arrestata.
Tre ore dopo i quattro cavalieri
giungevano a poche centinaia di passi dalle massicce mura della Ciudad.
Than-Kiù,
aveva con una violenta strappata, arrestato il destriero. Alcuni spari erano
echeggiati al di là dei bastioni, seguiti dalle grida furiose di:
— Viva i tagalos!... Morte agli
spagnuoli!...
La giovane era diventata
pallidissima, come se tutto il sangue le fosse ritornato al cuore.
— Troppo tardi? — chiese Romero,
che l'aveva raggiunta.
— Sì, — rispose ella con voce
soffocata, guardandolo fisso.
— Andiamo a morire coi fratelli,
— disse il meticcio, con voce risoluta. — Avanti!... Viva la libertà!...
— Sì, andiamo a morire, — mormorò
il Fiore delle Perle con un sospiro. — La mia felicità doveva avere le durata
d'un fiore reciso dalla pianta!
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