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Alessandro Manzoni Adelchi IntraText CT - Lettura del testo |
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Scena Quinta. Carlo, Desiderio.
A che vieni, infelice? E che parola Correr puote tra noi? Decisa il cielo Ha la nostra contesa; e più non resta Di che garrir. Tristi querele e pianto Sparger dinanzi al vincitor, disdice A chi fu re; né a me con detti acerbi L'odio antico appagar lice, né questo Gaudio superbo che in mio cor s'eleva, Ostentarti sul volto; onde sdegnato Dio non si penta, e alla vittoria in mezzo Non m'abbandoni ancor. Né, certo, un vano Da me conforto di parole attendi. Che ti direi? ciò che t'accora, è gioia Per me; né lamentar posso un destino, Ch'io non voglio mutar. Tal del mortale È la sorte quaggiù: quando alle prese Son due di lor, forza è che l'un piangendo Esca dal campo. Tu vivrai; null'altro
Persecutor del sangue mio, qual dono Ai re caduti sia la vita, il sai? E pensi tu, ch'io vinto, io nella polve, Di gioia anco una volta inebbriarmi Non potrei? del velen che il cor m'affoga, Il tuo trionfo amareggiar? parole Dirti di cui ti sovverresti, e in parte Vendicato morir? Ma in te del cielo Io la vendetta adoro, e innanzi a cui Dio m'inchinò, m'inchino: a supplicarti Vengo; e m'udrai; ché degli afflitti il prego È giudizio di sangue a chi lo sdegna.
In difesa d'Adrian, tu il brando Contro di me traesti?
A che domandi Quello che sai?
Sappi tu ancor che solo Io nemico gli fui, che Adelchi - e m'ode Quel Dio che è presso ai travagliati - Adelchi Al mio furor preghi, consigli, ed anche, Quanto è concesso a pio figliuol, rampogne
Ebben?
È la tua impresa: non ha più nemici Il tuo Romano: intera, e tal che basti Al cor più fiacco ed iracondo, ei gode La sicurezza e la vendetta. A questo Tu scendevi, e l'hai detto: allor tu stesso Segnasti il termin dell'offesa. Ell'era Causa di Dio, dicevi. È vinta; e nulla
Al vincitor?
Non ti fingere orgoglio, onde sdegnarli. O Carlo, il ciel molto ti die': ti vedi Il nemico ai ginocchi, e dal suo labbro Odi il prego sommesso e la lusinga; Nel suolo ov'ei ti combattea, tu regni. Ah! non voler di più: pensa che abborre Gli smisurati desideri il cielo.
Ah! m'ascolta: un dì tu ancor potresti Assaggiar la sventura, e d'un amico Pensier che ti conforti, aver bisogno; E allor gioconda ti verrebbe in mente Di questo giorno la pietà. Rammenta Che innanzi al trono dell'Eterno un giorno aspetterai tremando una risposta, O di mercede o di rigor, com'io Dal tuo labbro or l'aspetto. Ahi! già venduto Il mio figlio t'è forse! Oh! se quell'alto Spirto indomito, ardente, consumarsi Deve in catene!... Ah no! pensa che reo Di nulla egli è; difese il padre: or questo Gli è tolto ancor. Che puoi temer? Per noi Non c'è brando che fera: a te vassalli Son quei che il furo a noi: da lor tradito Tu non sarai: tutto è leale al forte. Italia è tua; reggila in pace; un rege Prigion ti basti; a stranio suol consenti Che il figliuol mio...
Non più; cosa mi chiedi Tu! che da me non otterria Bertrada.
- Io ti pregava! io, che per certo a prova Conoscerti dovea! Nega; sul tuo Capo il tesor della vendetta addensa. Ti fe' l'inganno vincitor; superbo La vittoria ti faccia e dispietato. Calca i prostrati, e sali; a Dio rincresci...
Taci, tu che sei vinto. E che? pur ieri La mia morte sognavi, e grazie or chiedi, Qual converria, se, nella facil ora Di colloquio ospital, lieto io sorgessi Dalla tua mensa! E perché amica e pari Non sonò la risposta al tuo desio, Anco mi vieni a imperversar d'intorno, Come il mendico che un rifiuto ascolta! Ma quel che a me tu preparavi - Adelchi Era allor teco - non ne parli: or io Ne parlerò. Da me fuggia Gerberga, Da me cognato, e seco i figli, i figli Del mio fratel traea, di strida empiendo Il suo passaggio, come augel che i nati Trafuga all'ugna di sparvier. Mentito Era il terror: vero soltanto il cruccio Di non regnar; ma obbrobriosa intanto Me una fama pingea quasi un immane Vorator di fanciulli, un parricida. Io soffriva, e tacea. Voi premurosi La sconsigliata raccettaste, ed eco Feste a quel suo garrito. Ospiti voi De' nipoti di Carlo! Difensori Voi, del mio sangue, contro me! Tornata Or finalmente è, se nol sai, Gerberga A cui fuggir mai non doveva; a questo Tutor tremendo i figli adduce, e fida Le care vite a questa man. Ma voi, Altro che vita, un più superbo dono Destinavate a' miei nipoti. Al santo Pastor chiedeste, e non fu inerme il prego, Che sulle chiome de' fanciulli, al peso Non pur dell'elmo avvezze, ei, da spergiuro, L'olio versasse del Signor. Sceglieste Un pugnal, l'affilaste, e al più diletto Amico mio por lo voleste in pugno, Perch'egli in cor me lo piantasse. E quando Io, tra 'l Vèsero infido o la selvaggia Elba, i nemici a debellar del cielo Mi sarei travagliato, in Francia voi Correre, insegna contro insegna, e crisma Contro crisma levar, perfidi! e pormi In un letto di spine, il più giocondo De' vostri sogni era codesto. Al cielo Parve altrimenti. Voi tempraste al mio Labbro un calice amaro; ei v'è rimasto: Votatelo. Di Dio tu mi favelli; S'io nol temessi, il rio che tanto ardia Pensi che in Francia il condurrei captivo? Cogli ora il fior che hai coltivato, e taci. Inesausta di ciance è la sventura; Ma del par sofferente e infaticato Non è d'offeso vincitor l'orecchio.
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