Pubblicando un’opera d’immaginazione che non si uniforma ai canoni di gusto
ricevuti comunemente in Italia, e sanzionati dalla consuetudine dei più, io non
credo però di dover annoiare il lettore con una lunga esposizione de’ princìpi
che ho seguiti in questo lavoro. Alcuni scritti recenti contengono sulla poesia
drammatica idee così nuove e vere e di così vasta applicazione, che in essi si
può trovare facilmente la ragione d’un dramma il quale, dipartendosi dalle
norme prescritte dagli antichi trattatisti, sia ciò non ostante condotto con
una qualche intenzione. Oltrediché, ogni componimento presenta a chi voglia
esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono
questi: quale sia l’intento dell’autore; se questo intento sia ragionevole; se
l’autore l’abbia conseguito. Prescindere da un tale esame, e volere a tutta
forza giudicare ogni lavoro secondo regole, delle quali è controversa appunto
l’universalità e la certezza, è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente
un lavoro: il che per altro è uno de’ più piccoli mali che possano accadere in
questo mondo.
Tra i vari espedienti che gli uomini hanno trovati per imbrogliarsi
reciprocamente, uno de’ più ingegnosi è quello d’avere, quasi per ogni
argomento, due massime opposte, tenute egualmente come infallibili. Applicando
quest’uso anche ai piccoli interessi della poesia, essi dicono a chi la
esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi
abbiano lasciato l’esempio. Questi comandi che rendono difficile l’arte più di
quello che è già, levano anche a uno scrittore la speranza di poter rendere
ragione d’un lavoro poetico; quand’anche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui
s’espone sempre l’apologista de’ suoi propri versi.
Ma poiché la quistione delle due unità di tempo e di luogo può esser
trattata tutta in astratto, e senza far parola della presente qualsisia
tragedia: e poiché queste unità, malgrado gli argomenti a mio credere
inespugnabili che furono addotti contro di esse, sono ancora da moltissimi
tenute per condizioni indispensabili del dramma; mi giova di riprenderne
brevemente l’esame. Mi studierò per altro di fare piuttosto una picciola
appendice, che una ripetizione degli scritti che le hanno già combattute.
I. L’unità di luogo, e la così detta unità di tempo, non sono regole fondate
nella ragione dell’arte, né connaturali all’indole del poema drammatico; ma
sono venute da una autorità non bene intesa, e da princìpi arbitrari: ciò
risulta evidente a chi osservi la genesi di esse. L’unità di luogo è nata dal
fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si
compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare
perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica. L’unità di tempo ebbe origine
da un passo di Aristotele,1 il quale, come benissimo osserva il signor
Schlegel,2 non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un
fatto; cioè della pratica più generale del teatro greco. Che se Aristotele
avesse realmente inteso di stabilire un canone dell’arte, questa sua frase
avrebbe il doppio inconveniente di non esprimere un’idea precisa, e di non
essere accompagnata da alcun ragionamento.
Quando poi vennero quelli che, non badando all’autorità, domandarono la
ragione di queste regole, i fautori di esse non seppero trovarne che una, ed è:
che, assistendo lo spettatore realmente alla rappresentazione d’un’azione,
diventa per lui inverisimile che le diverse parti di questa avvengano in
diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo, mentre lui sa di non
essersi mosso di luogo, e d’avere impiegate solo poche ore ad osservarla.
Questa ragione è evidentemente fondata su un falso supposto, cioè che lo
spettatore sia lì come parte dell’azione; quando è, per così dire, una mente
estrinseca che la contempla. La verosimiglianza non deve nascere in lui dalle
relazioni dell’azione col suo modo attuale di essere, ma da quelle che le varie
parti dell’azione hanno tra di loro. Quando si considera che lo spettatore è
fuori dell’azione, l’argomento in favore delle unità svanisce.
II. Queste regole non sono in analogia con gli altri princìpi dell’arte
ricevuti da quegli stessi che le credono necessarie. Infatti s’ammettono nella
tragedia come verisimili molte cose che non lo sarebbero se ad esse
s’applicasse il principio sul quale si stabilisce la necessità delle due unità;
il principio, cioè, che nel dramma rappresentato siano verosimili que’ fatti
soli che s’accordano con la presenza dello spettatore, dimanieraché possano
parergli fatti reali. Se uno dicesse, per esempio: que’ due personaggi che
parlano tra loro di cose segretissime, come se credessero d’esser soli,
distruggono ogni illusione, perché io sento d’esser loro visibilmente presente,
e li veggo esposti agli occhi d’una moltitudine; gli farebbe precisamente la
stessa obiezione che i critici fanno alle tragedie dove sono trascurate le due
unità. A quest’uomo non si può dare che una risposta: la platea non entra nel
dramma: e questa risposta vale anche per le due unità. Chi cercasse il motivo
per cui non si sia esteso il falso principio anche a questi casi, e non si sia
imposto all’arte anche questo giogo, io credo che non ne troverebbe altro, se
non che per questi casi non ci era un periodo d’Aristotele.
III. Se poi queste regole si confrontano con l’esperienza, la gran prova che
non sono necessarie alla illusione è, che il popolo si trova nello stato
d’illusione voluta dall’arte, assistendo ogni giorno e in tutti i paesi a
rappresentazioni dove esse non sono osservate; e il popolo in questa materia è
il miglior testimonio. Poiché non conoscendo esso la distinzione dei diversi
generi d’illusione, e non avendo alcuna idea teorica del verosimile dell’arte
definito da alcuni critici pensatori; niuna idea astratta, niun precedente
giudizio potrebbe fargli ricevere un’impressione di verosimiglianza da cose che
non fossero naturalmente atte a produrla. Se i cangiamenti di scena
distruggessero l’illusione, essa dovrebbe certamente essere più presto
distrutta nel popolo che nelle persone colte, le quali piegano più facilmente
la loro fantasia a secondar l’intenzioni dell’artista.
Se dai teatri popolari passiamo ad esaminare qual caso si sia fatto di
queste regole ne’ teatri colti delle diverse nazioni, troviamo che nel greco
non sono mai state stabilite per principio, e che s’è fatto contro ciò che esse
prescrivono, ogni volta che l’argomento lo ha richiesto; che i poeti drammatici
inglesi e spagnoli più celebri, quelli che sono riguardati come i poeti
nazionali, non le hanno conosciute, o non se ne sono curati; che i tedeschi le
rifiutano per riflessione. Nel teatro francese vennero introdotte a stento; e
l’unità di luogo in ispecie incontrò ostacoli da parte de’ comici stessi,
quando vi fu messa in pratica da Mairet con la sua Sofonisba, che si dice la
prima tragedia regolare francese: quasi fosse un destino che la regolarità deva
sempre cominciare da una Sofonisba noiosa. In Italia queste regole sono state
seguite come leggi, e senza discussione, che io sappia, e quindi probabilmente
senza esame.
IV. Per colmo poi di bizzarria, è accaduto che quegli stessi che le hanno
ricevute non le osservano esattamente in fatto. Perché, senza parlare di
qualche violazione dell’unità di luogo che si trova in alcune tragedie italiane
e francesi, di quelle chiamate esclusivamente regolari, è noto che
l’unità di tempo non è osservata né pretesa nel suo stretto senso, cioè
nell’uguaglianza del tempo fittizio attribuito all’azione col tempo reale che
essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il teatro francese si
citano tre o quattro tragedie che adempiscano questa condizione. Comme il
est très-rare (dice un critico francese) de trouver des sujets qui
puissent être resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et
on l’a étendue jusqu’à vingt-quatre heures.3 Con una tale
transazione i trattatisti non hanno fatto altro che riconoscere
l’irragionevolezza della regola, e si sono messi in un campo dove non possono
sostenersi in nessuna maniera. Giacché si potrà ben discutere con chi è di
parere che l’azione non deva oltrepassare il tempo materiale della
rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto, con qual ragione
pretenderà che uno si tenga in un limite fissato così arbitrariamente? Cosa si
può mai dire a un critico, il quale crede che si possano allargare le regole?
Accade qui, come in molte altre cose, che sia più ragionevole chiedere il molto
che il poco. Ci sono ragioni più che sufficienti per esimersi da queste regole;
ma non se ne può trovare una per ottenere una facilitazione a chi le voglia
seguire. Il serait donc à
souhaiter (dice un altro
critico) que la durée fictive de l’action pût se borner au temps du
spectacle; mais c’est être ennemi des arts, et du plaisir qu’ils causent, que
de leur imposer des lois qu’ils ne peuvent suivre, sans se priver de leurs
ressources les plus fécondes, et de leurs plus rares beautés. Il est des
licences heureuses, dont le Public convient tacitement avec les poètes, à
condition qu’ils les employent à lui plaire, et à le toucher; et de ce nombre
est l’extension feinte et supposée du temps réel de l’action
théâtrale.4 Ma le licenze felici sono parole senza senso in
letteratura; sono di quelle molte espressioni che rappresentano un’idea chiara
nel loro significato proprio e comune, e che usate qui metaforicamente
rinchiudono una contradizione. Si chiama ordinariamente licenza ciò
che si fa contro le regole prescritte dagli uomini; e si danno in questo senso
licenze felici, perché tali regole possono essere, e sono spesso, più generali
di quello che la natura delle cose richieda. Si è trasportata questa
espressione nella grammatica, e vi sta bene; perché le regole grammaticali
essendo di convenzione, e per conseguenza alterabili, può uno scrittore,
violando alcuna di queste, spiegarsi meglio; ma nelle regole intrinseche alle
arti del bello la cosa sta altrimenti. Esse devono essere fondate sulla natura,
necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de’ critici, trovate, non
fatte; e quindi la trasgressione di esse non può esser altro che infelice. — Ma
perché queste riflessioni su due parole? Perché nelle due parole appunto sta
l’errore. Quando s’abbraccia un’opinione storta, si usa per lo più spiegarla
con frasi metaforiche e ambigue, vere in un senso e false in un altro; perché
la frase chiara svelerebbe la contradizione. E a voler mettere in chiaro
l’erroneità della opinione, bisogna indicare dove sta l’equivoco.
V. Finalmente queste regole impediscono molte bellezze, e producono molti
inconvenienti.
Non discenderò a dimostrare con esempi la prima parte di questa
proposizione: ciò è stato fatto egregiamente più di una volta. E la cosa
resulta tanto evidentemente dalla più leggiera osservazione d’alcune tragedie
inglesi e tedesche, che i sostenitori stessi delle regole sono costretti a
riconoscerla. Confessano essi che il non astringersi ai limiti reali di tempo e
di luogo lascia il campo a una imitazione ben altrimenti varia e forte: non
negano le bellezze ottenute a scapito delle regole; ma affermano che bisogna
rinunziare a quelle bellezze, giacché per ottenerle bisogna cadere
nell’inverosimile. Ora, ammettendo l’obiezione, è chiaro che
l’inverosimiglianza tanto temuta non si farebbe sentire che alla
rappresentazione scenica; e però la tragedia da recitarsi sarebbe di sua natura
incapace di quel grado di perfezione, a cui può arrivare la tragedia, quando
non si consideri che come un poema in dialogo, fatto soltanto per la lettura,
del pari che il narrativo. In tal caso, chi vuol cavare dalla poesia ciò che
essa può dare, dovrebbe preferire sempre questo secondo genere di tragedia: e
nell’alternativa di sacrificare o la rappresentazione materiale, o ciò che
forma l’essenza del bello poetico, chi potrebbe mai stare in dubbio? Certo,
meno d’ogni altro quei critici i quali sono sempre di parere che le tragedie
greche non siano mai state superate dai moderni, e che producano il sommo
effetto poetico, quantunque non servano più che alla lettura. Non ho inteso con
ciò di concedere che i drammi senza le unità riescano inverosimili alla recita:
ma da una conseguenza ho voluto far sentire il valore del principio.
Gl’inconvenienti che nascono dall’astringersi alle due unità, e specialmente
a quella di luogo, sono ugualmente confessati dai critici. Anzi non par
credibile che le inverosimiglianze esistenti nei drammi orditi secondo queste
regole, siano così tranquillamente tollerate da coloro che vogliono le regole a
solo fine d’ottenere la verosimiglianza. Cito un solo esempio di questa loro rassegnazione: Dans Cinna il faut
que la conjuration se fasse dans le cabinet d’Emilie, et qu’Auguste vienne dans
ce mêne cabinet confondre Cinna, et lui pardonner: cela est peu naturel. La
sconvenienza è assai bene sentita, e sinceramente confessata. Ma la
giustificazione è singolare. Eccola:
Cependant il le faut.5
Forse si è qui eccessivamente ciarlato su una questione già così bene
sciolta, e che a molti può parer troppo frivola. Rammenterò a questi ciò che
disse molto sensatamente in un caso consimile un noto scrittore: Il n’y a
pas grand mal à se tromper en tout cela: mais il vaut encore mieux ne s’y point
tromper, s’il est possible.6 E del rimanente, credo che una tale
questione abbia il suo lato importante. L’errore solo è frivolo in ogni senso.
Tutto ciò che ha relazione con l’arti della parola, e coi diversi modi
d’influire sulle idee e sugli affetti degli uomini, è legato di sua natura con
oggetti gravissimi. L’arte drammatica si trova presso tutti i popoli
civilizzati: essa è considerata da alcuni come un mezzo potente di
miglioramento, da altri come un mezzo potente di corruttela, da nessuno come
una cosa indifferente. Ed è certo che tutto ciò che tende a ravvicinarla o ad
allontanarla dal suo tipo di verità e di perfezione, deve alterare, dirigere,
aumentare, o diminuire la sua influenza.
Quest’ultime riflessioni conducono a una questione più volte discussa, ora
quasi dimenticata, ma che io credo tutt’altro che sciolta; ed è: se la poesia
drammatica sia utile o dannosa. So che ai nostri giorni sembra pedanteria il
conservare alcun dubbio sopra di ciò, dacché il Pubblico di tutte le nazioni
colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi sembra però che ci
voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una sentenza contro la
quale sussistono le proteste di Nicole, di Bossuet, e di G. G. Rousseau, il di
cui nome unito a questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi hanno
unanimemente inteso di stabilire due punti: uno che i drammi da loro conosciuti
ed esaminati sono immorali: l’altro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di
riuscire freddo, e quindi vizioso secondo l’arte; e che in conseguenza la
poesia drammatica sia una di quelle cose che si devono abbandonare, quantunque
producano dei piaceri, perché essenzialmente dannose. Convenendo interamente
sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori nominati qui sopra,
oso credere illegittima la conseguenza che ne hanno dedotta contro la poesia
drammatica in generale. Mi pare che siano stati tratti in errore dal non aver
supposto possibile altro sistema che quello seguito in Francia. Se ne può dare,
e se ne dà un altro suscettibile del più alto grado d’interesse e immune
dagl’inconvenienti di quello: un sistema conducente allo scopo morale, ben
lungi dall’essergli contrario. Al presente saggio di componimento drammatico,
m’ero proposto d’unire un discorso su tale argomento. Ma costretto da alcune
circostanze a rimettere questo lavoro ad altro tempo, mi fo lecito
d’annunziarlo; perché mi pare cosa sconveniente il manifestare una opinione
contraria all’opinione ragionata d’uomini di prim’ordine, senza addurre le
proprie ragioni, o senza prometterle almeno.7
Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia,
il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un
capriccio, o un enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando
in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da
riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira,
come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E
poco sotto: Vollero i greci che in ogni dramma il Coro... fosse prima
di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi il difensore della causa
dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava
l’impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al
vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie
emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un’espressione lirica e
armonica, e lo conduceva così nel campo più tranquillo della
contemplazione.8 Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono
combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il
loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti
sull’idea di que’ Cori. Se l’essere questi indipendenti dall’azione e non
applicati a personaggi li priva d’una gran parte dell’effetto che producevano
quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili d’uno slancio più
lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio
d’essere senza inconvenienti: non essendo legati con l’orditura dell’azione,
non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare.
Hanno finalmente un altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta
un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la
tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi
propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici. Senza
indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla
recita, io propongo soltanto che siano destinati alla lettura: e prego il
lettore d’esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne
presenta; perché il progetto mi sembra potere essere atto a dare all’arte più
importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo
e più determinato d’influenza morale.
Premetto alla tragedia alcune notizie storiche sul personaggio e sui fatti
che sono l’argomento di essa, pensando che chiunque si risolve a leggere un
componimento misto d’invenzione e di verità storica, ami di potere, senza
lunghe ricerche, discernere ciò che vi è conservato di avvenimenti reali.
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