Quel ramo del lago di Como d'onde esce l'Adda e che giace fra due catene
non interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver formati varj
seni e per così dire piccioli golfi d'ineguale grandezza, si viene tutto ad un
tratto a ristringere; ivi il fluttuamento delle onde si cangia in un corso
diretto e continuato di modo che dalla riva si può per dir così segnare il
punto dove il lago divien fiume. Il ponte che in quel luogo congiunge le due
rive, rende ancor più sensibile all'occhio ed all'orecchio questa trasformazione:
poiché gli argini perpendicolari che lo fiancheggiano non lasciano venir le
onde a battere sulla riva ma le avviano rapide sotto gli archi; e presso quegli
argini uno può quasi sentire il doppio e diverso romore dell'acqua, la quale
qui viene a rompersi in piccioli cavalloni sull'arena, e a pochi passi tagliata
dalle pile di macigno scorre sotto gli archi con uno strepito per così dire
fluviale. Dalla parte che guarda a settentrione e che a quel punto si può
chiamare la riva destra dell'Adda, il ponte posa sopra un argine addossato alla
estrema falda del Monte di San Michele, il quale si bagnerebbe nel fiume se
l'argine non vi fosse frapposto. Ma dall'opposto lato il ponte è appoggiato al
lembo di una riviera che scende verso il lago con un molle pendio, sul quale
per lungo tratto il passaggero può quasi credere di scorrere una perfetta
pianura. Questa riviera è manifestamente formata da tre grossi torrenti i quali
spingendo la ghiaja, i ciottoli, e i massi rotolanti dal monte, hanno a poco a
poco spinte le rive avanti nel lago, ed erano abbastanza vicini perché le
ghiaje gettate da essi a destra e a sinistra abbiano potuto col tempo toccarsi
e formare un terreno sodo. Allora hanno cominciato a correre in un letto
alquanto più regolare, poiché questi stessi depositi hanno loro servito
d'argine, e il successivo loro impicciolimento cagionato dall'abbassamento dei
monti, dal diboscamento, e dalla dispersione delle acque gli ha rinchiusi in un
letto più angusto. Così il terreno che li divide ha potuto essere abitato e
coltivato dagli uomini. Il lembo della riviera che viene a morire nel lago è di
nuda e grossa arena presso ai torrenti, e uliginoso negli intervalli, ma appena
appena dove il terreno s'alza al disopra delle escrescenze del lago e del
traripamento della foce dei torrenti, ivi tutto è prati campagne e vigneti, e
questo tratto d'ineguale lunghezza è in alcuni luoghi forse d'un miglio. Dove
il pendio diventa più ripido son più frequenti, e assai più lo erano per lo
passato, gli ulivi; al disopra di questi e sulle falde antiche dei monti
cominciano le selve di castagni, e al di sopra di queste sorgono le ultime
creste dei monti in parte nudo e bruno macigno in parte rivestite di pascoli
verdissimi, in parte coperte di carpini, di faggi, e di qualche abete. Fra
questi alberi crescono pure varie specie di sorbi, e di dafani, il cameceraso,
il rododendro ferrugigno, ed altre piante montane le quali rallegrano e
sorprendono il cittadino dilettante di giardini che per la prima volta le vede
in quei boschi, e che non avendole incontrate che negli orti e nei giardini è
avvezzo a considerarle colla fantasia come quasi un prodotto della coltura
artificiale piuttosto che una spontanea creazione della natura. Dove però la
mano dell'uomo ha potuto portare una più fruttifera coltivazione fino presso
alle vette, non ha lasciato di farlo, e si vedono di tratto in tratto dei
piccioli vigneti posti su un rapido pendio, e che terminano col nudo sasso del
comignolo. La riviera è tutta sparsa di case e di villaggi: altri alla riva del
lago, anzi nel lago stesso quando le sue acque s'innalzano per le piogge, altri
sui varj punti del pendio, fino al punto dove la montagna è nuda,
perpendicolare, ed inabitabile.
Lecco è la principale di queste terre e dà il nome alla riviera: un grosso
borgo a questi tempi, e che altre volte aveva l'onore di essere un
discretamente forte castello, onore al quale andava unito il piacere di avervi
una stabile guarnigione, ed un comandante, che all'epoca in cui accade la
storia che siamo per narrare era spagnuolo. Dall'una all'altra di queste terre,
dalle montagne al lago, da una montagna all'altra corrono molte stradicciuole
ora erte, ora dolcemente pendenti, ora piane, chiuse per lo più da muri fatti
di grossi ciottoloni, e coperti qua e là di antiche edere le quali, dopo aver
colle barbe divorato il cemento, ficcano le barbe stesse fra un sasso e
l'altro, e servono esse di cemento al muro che tutto nascondono. Di tempo in
tempo invece di muri passano le anguste strade fra siepi nelle quali al pruno e
al biancospino s'intreccia di tratto in tratto il melagrano, il gelsomino, il
lilac e il filadelfo. Una di queste strade percorre tutta la riviera ora
abbassandosi, ora tirando più verso il monte, ora in mezzo alle vigne, ed ora
sulla linea che divide i colti dalle selve. Questa strada è talvolta seppellita
fra due muri che superano la testa del passaggero, dimodoché egli non vede
altro che il cielo e le vette dei monti: ma spesso lascia un libero campo alla
vista la quale quasi ad ogni passo scopre nuovi ampi e bellissimi prospetti.
Poiché guardando verso settentrione tu vedi il lago chiuso nei monti, che
sporgono innanzi e rientrano, e formano ad ogni tratto seni, o ameni o tetri,
finché la vista si perde in uno sfondo azzurro di acque e di montagne; verso
mezzogiorno vedi l'Adda che appena uscita dagli archi del ponte torna a pigliar
figura di lago, e poi si ristringe ancora e scorre come fiume dove il letto è
occupato da banchi di sabbia portati da torrenti, che formano come tanti istmi:
dimodoché l'acqua si vede prolungarsi fino all'orizzonte come una larga e
lucida spira. Sul capo hai i massi nudi e giganteschi, e le foreste, e
guardando sotto di te, e in faccia, vedi il lungo pendio distinto dalle varie
colture, che sembrano strisce di varj verdi, il ponte ed un breve tratto di
fiume fra due larghi e limpidi stagni, e poscia risalendo collo sguardo lo
arresti sul Monte Barro che ti sorge in faccia, e chiude il lago dall'altra
parte. Ma non termina quel monte la vista da ogni parte, poiché di promontorio
in promontorio declina fino ad una valle che lo separa dal monte vicino; e come
in alcune parti la stradetta si eleva al disopra del livello di questa valle,
da quei punti il tuo occhio segue fra i due monti che hai in prospetto
un'apertura che dalla valle ti lascia travedere qualche parte dell'amenissimo
piano che è posto al mezzogiorno del Monte Barro. La giacitura della riviera, i
contorni, e le viste lontane, tutto concorre a renderlo un paese che chiamerei
uno dei più belli del mondo, se avendovi passata una gran parte della infanzia
e della puerizia, e le vacanze autunnali della prima giovinezza, non
riflettessi che è impossibile dare un giudizio spassionato dei paesi a cui sono
associate le memorie di quegli anni.
Su questa stradetta veniva lentamente dicendo l'ufizio, ed avviandosi
verso casa, una bella sera d'autunno dell'anno 1628, il Curato di una di quelle
terre che abbiamo accennate di sopra. (Questa è la prima reticenza del nostro
storico). Talvolta tra un salmo e l'altro metteva l'indice nel breviario al
luogo dov'era rimasto, e tenendo così socchiuso il libro nella destra mano, e
la destra nella sinistra dietro le spalle, continuava il suo passeggio
guardando in qua e in là, e ripigliando i pensieri oziosi che erano stati
sospesi così così nel tempo che aveva recitata l'ultima parte di ufizio.
Uscendo poi da questa meditazione egli girava gli occhi intorno, e arrestava lo
sguardo sulle cime del monte, osservando come aveva fatto tante altre volte sul
monte i riflessi del sole già nascosto, ma che mandava ancora la sua luce sulle
alture, distendendo sulle rupi e sui massi sporgenti come larghi strati di
porpora.
Ripigliato poscia il breviario e recitato un altro pezzo di vespro giunse
ad una rivolta della strada dov'era solito di alzar gli occhi dal libro e di
guardare quasi macchinalmente dinnanzi a sè, e così fece anche quel giorno.
Dopo la rivolta la strada andava diritta forse un centinajo di passi, e poi si
divideva; a destra saliva verso il monte, e dall'altro lato scendeva nella
valle fino ad un torrente. Da questa parte il muro non giungeva che all'anche
del passaggero, e lasciava libera la vista del pendio sottoposto, fino al
torrente, e ad un pezzo di monte che lo rinchiudeva dall'altra parte. In faccia
a colui che aveva voltata la strada, e alla separazione delle due strade v'era
una cappelletta sulla quale erano dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, e
terminate in punta che nella intenzione del pittore, e agli occhi degli
abitanti del vicinato volevano dir fiamme, e fra l'una e l'altra certe altre
figure da non potersi descrivere, che volevano dire anime del purgatorio; anime
e fiamme color di mattone su un fondo bianco con qualche scrostatura in varie
parti. Al rivolgimento dunque della strada alzando gli occhi verso la
cappelletta il nostro Curato vide una cosa che non si aspettava e che non
avrebbe voluta vedere. Due uomini stavano uno rimpetto all'altro ai due capi
della strada: uno seduto a cavalcioni sul muricciuolo con l'un piede appoggiato
sul terreno della strada e l'altro penzoloni giù lungo il muro, l'altro in
piedi appoggiato al muro con una gamba sopra l'altra, e le braccia
incrocicchiate sotto le ascelle. L'abito e il portamento non lasciavano dubbio
della loro professione. Avevano entrambi una reticella verde in capo la quale
cadeva su una spalla terminata in un gran fiocco di seta: due grandi mustacchi
inanellati all'estremità, il lembo del farsetto coperto e avviluppato da una
cintura lucida di cuojo, ripiena di cartoccini di polvere, ed alla quale erano
appese due pistole con uncini: un picciol corno ripieno di polvere appeso al
collo come i vezzi delle signore: alla parte destra delle larghe e gonfie
brache una tasca donde usciva un manico di coltellaccio, due legacce rosse al
disotto del ginocchio a un dipresso come i cavalieri della giarrettiera: uno
spadone dall'altro lato con una elsa di lamette d'ottone attorcigliate come una
cifra; al primo aspetto si mostravano di quella specie d'uomini tanto comune a
quei tempi, che avevano nome di bravi, specie che ora si è del tutto perduta
come tante altre buone istituzioni.
Che quei due stessero lì aspettando qualcheduno era cosa troppo evidente;
ma quello che più spiacque al Curato fu di accorgersi per certi atti che quegli
che aspettavano era egli poiché al suo apparire si erano guardati alzando la
testa, con un moto che dava a divedere che avevan detto tutti e due a un
tratto: egli è desso: e quegli che stava a cavalcioni tirò la sua gamba sulla
strada e si alzò, l'altro si staccò dal muro; e si avvicinarono rivolti verso il
curato. Questi tenendo sempre il breviario aperto dinanzi come se leggesse,
alzava gli occhi per ispiare i loro movimenti e vedendoli inviarsi così verso
di lui, mille pensieri alla rinfusa gli corsero pel capo. Domandò subito in
fretta a se stesso, se tra i bravi e lui vi fosse qualche uscita di strada a
dritta o a sinistra, e gli sovvenne tosto di no. Pensava se avesse qualche
inimicizia, se potesse temere qualche vendetta, e in quel turbamento il
testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto; ma i bravi si
avvicinavano. Pose la mano nel collare, come per ricomporlo e intanto piegò
indietro la testa e guardò colla coda dell'occhio fin dove poteva, se
qualcheduno arrivasse, e non vide nessuno. Diede un'occhiata al disopra del
muricciolo, nei campi; nessuno: guardò sulla via che gli era dinanzi; nessuno
fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: fuggire; era lo
stesso che farsi inseguire, o peggio. Non potendo fuggire il pericolo gli corse
incontro; perché i momenti di quella incertezza erano allora così penosi per
lui che non desiderava altro che di abbreviarli: allungò il passo, recitò un
versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete ed ilarità
che potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso, e quando fu accostato dai
due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò sui due piedi.
«Signor curato»: disse uno di quei due, piantandogli gli occhi in faccia.
«Chi mi comanda?» rispose subito il curato alzando gli occhi dal libro e
tenendolo spalancato e sospeso con ambe le mani.
«Ella ha intenzione», proseguì l'altro, «di sposare domani Fermo Spolino,
e Lucia Zarella».
«Non lo posso negare»: rispose il curato col tuono d'un uomo convinto
d'una trista azione; e soggiunse tosto: «io non c'entro: fanno gli
aggiustamenti fra di loro, vengono da noi, noi siamo i servitori del
pubblico...»
«Bene bene», interruppe il bravo, «questo matrimonio non si deve fare, ma
né domani né mai». «Ma, Signori miei», replicò il curato colla voce d'un uomo
che vuol persuadere un impaziente, «ma signori miei, si degnino di mettersi nei
miei panni: se la cosa dipendesse da me...»
«Orsù» interruppe ancora il bravo che pareva avesse giurato di non
lasciargli compire un periodo, «se la cosa andasse a ciarle, ella ne avrebbe
più di noi: ma noi non sappiamo né vogliamo sapere altro: era nostro dovere
d'avvisarla e l'abbiamo fatto». «Ma loro signori son troppo giusti, e
ragionevoli...»
«Ma», interruppe questa volta quell'altro che non aveva parlato fino
allora, «ma il matrimonio non si farà e» (qui una buona bestemmia) «chi lo farà
non se ne pentirà perché non ne avrà tempo e...»
«Zitto, zitto», ripigliò quell'altro, «il signor Curato sa che noi siamo
galantuomini, e non vogliamo fargli del male, se egli opererà da galantuomo.
Signor Curato, ci ha intesi, l'illustrissimo Signor Don Rodrigo nostro padrone
le fa i suoi complimenti». «Se mi sapessero suggerire;...» disse il curato:
«Oh! suggerire a lei che sa il latino!», rispose il bravo con un riso tra lo
sguajato e il feroce. «Ella troverà un mezzo, Signor curato, e sopratutto non
si lasci uscire una parola di questo avviso che le abbiamo dato per suo bene,
perché altrimenti sarebbe per lei come se avesse fatto quel tal matrimonio.
Buona notte Signor Curato». Così dicendo, si svilupparono dal curato, il quale
pochi momenti prima avrebbe dato qualche gran cosa per isfuggirli, e allora
avrebbe voluto prolungare la conversazione, e avviandosi dalla parte donde egli
era venuto, presero la strada, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere.
Il povero Curato pigliò delle due strade quella che andava a casa sua, mettendo
innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che gli parevano ingranchite, e con
animo che il lettore comprenderà meglio dopo d'avere appreso qualche cosa di
più dell'indole di questo personaggio, e della condizione dei tempi in cui gli
era toccato di vivere.
.......
L'impunità era organizzata, e aveva molte altre cause di simil genere, e
la trepidazione nell'eseguire le gride nata da queste cause, e la sicurezza già
antica nei trasgressori educati a soperchiare. Ora questa impunità minacciata
ed insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva ad ogni minaccia e ad ogni
insulto fare nuovi sforzi per conservarsi, aumentare la sua forza, resistere,
atterrire, tenersi unita, e così faceva difatti. Quindi la grida al suo nascere
trovava molta gente che aveva già prese le disposizioni necessarie per
continuare a fare ciò ch'ella veniva a proibire. Nessuna libertà nelle cose
oneste perché col fine di aver sotto la mano ogni uomo per prevenire e punire
ogni delitto, le gride assoggettavano ogni mossa del privato al volere
arbitrario di mille magistrati, ed esecutori d'ogni sorta. Ma chi si era messo
in istato di guerra colle gride, e cogli ordini d'ogni specie, chi aveva già
disposti i suoi mezzi di difesa nella forza aperta, o nelle astuzie legali, o
nella protezione, o nella connivenza allora comune e scandalosa dei giudici,
chi poteva e voleva ammazzare o dar la mancia ad un birro, quegli era libero
nelle sue operazioni, al sicuro delle gride, e in caso di rivolgerle anche
contro gli altri quando i suoi mezzi privati non fossero stati bastanti.
Accadeva a taluno di costoro di morire di morte violenta, di esser sbanditi,
vivevano in continuo sospetto, che vuol dire, erano nella condizione di tutti i
loro contemporanei. Quegli stessi che non avevano un animo provocatore ed
ingiusto si trovavano come costretti di guardarsi e di stare sulle difese, il
che teneva per dir così una quantità di forze sempre in presenza e dava a tutta
la società un'aria di sospetto, di offesa. Ad ogni momento tutto era pronto,
per venire alle mani.
L'uomo che teme l'offesa e che vuole offendere, cerca compagni, quindi la
tendenza universale a quei tempi di arruolarsi per dir così, in classi, in
corpi, in maestranze, in confraternite. Alcune classi già anticamente
costituite avevano anche per questa circostanza una forza preponderante e
spaventosa, quindi gli altri per non trovarsi sempre individui contra una
società, dovevano esser contenti di trovare un motivo per riunirsi, di avere
deliberazioni, massime comuni, privilegi, e una bandiera, e di potere, quando
fossero toccati, rivolgere le forze solidali di molti a loro difesa. Il clero
era geloso sostenitore delle sue immunità, e come ad esso stava in gran parte
il decidere fin dove giungessero, non si deve domandare se le estendesse fin
dove potevano, e fin dove non potevano giungere. Che gli ecclesiastici vuoti di
spirito sacerdotale, ambiziosi, violenti, avari riponessero tutta la religione
in questa immunità non è da stupirsene, poiché è chiaro che è cosa molto comoda
l'avere una scomunica da opporre ad una ragione, e cessare ogni pericolo con un
privilegio d'inviolabilità indefinita. Ma quello che merita più considerazione
si è come i buoni non cedessero ai tristi in questa specie di zelo, come uomini
pii e d'una virtù molto superiore alla onestà, uomini certamente di alto
ingegno, potessero combattere acremente, lungamente, mettere tutto a
repentaglio per pretese, le quali non sembra che non possano conciliarsi col
minimo grado di riflessione, e con un grano di buona fede. Per ispiegare questo
fenomeno si dice che erano idee del tempo alle quali i migliori e più sinceri
intelletti pagavano tributo come gli altri. Ma questa spiegazione non ha senso
se non si trovano le cagioni per cui essi pure dovessero affezionarsi a queste
idee, quando il loro amore per la verità, e la loro attitudine a trovarla
dovevano condurli a scoprire il debole di queste idee. Le quali cagioni
appariscono chiare a chi dà una occhiata allo stato della società in quei
tempi. Tante erano le volontà d'impedire ogni esercizio delle facoltà le più
legittime, d'inceppare ogni diritto, e queste volontà erano così potenti, che
il clero non poteva concepire come avrebbe potuto agire a malgrado di esse,
senza avere una forza propria. Quindi tribunali civili e criminali per
assicurare ai suoi membri una giustizia imparziale o per opporre una parzialità
ad un'altra, quindi minacce spirituali e temporali ad ogni attentato contro le
persone o i beni del clero, quindi forza per eseguire le sue leggi etc.
Malgrado queste immunità, le quali con nome non affatto improprio allora si
chiamavano libertà, il Clero si trovava ad ogni istante inceppato da altre
forze organizzate, non è quindi da maravigliarsi se i meno ambiziosi le
credessero non solo necessarie, ma insufficenti, se cercassero di estenderle,
se vedessero nella diminuzione di quelle, la diminuzione della religione
stessa, e se gridassero altamente che chi le intaccava, voleva rendere
impossibile l'esercizio della religione stessa. Tutto questo non è detto per
provare che avessero ragione di pensare e di operare a quel modo, ma per
ridurre il torto alla sua giusta misura, e per ricondurlo alle sue vere
cagioni, e per riflettere che vi hanno degli inconvenienti che oltre il male
diretto che fanno, ne producono dei grandissimi forzando quasi gli uomini a
cercare dei rimedi che non sono né ragionevoli, né perfettamente onesti, e che
oltre l'effetto per cui sono posti in opera ne producono molti altri impreveduti
e pessimi.
Abbondio non nobile, non ricco, non animoso, si era presto avveduto di
essere nella società come il vaso di terra cotta in compagnia di molti vasi di
bronzo sempre in movimento. Aveva quindi secondata assai lietamente la volontà
dei suoi parenti che lo avevano avviato allo stato ecclesiastico. A dir vero il
suo fine principale non era stato quello di servire agli altri col ministero.
Egli aveva pensato a trovare un modo di vivere, e a porsi in una classe
rispettata e forte, nella quale il debole fosse difeso dalle forze riunite
degli altri. Ma non basta appartenere ad una classe per goderne tutti i
vantaggi, come ognun sa: bisogna anche che l'individuo sappia dirizzare a suo
uso il più che può delle forze che la sua società può mettere in opera, e non
v'è organizzazione comune che dispensi l'individuo dal farsi un suo sistema
particolare. Don Abbondio non poteva adottare un sistema nel quale fosse
necessaria una qualunque parte di risoluzione, di attività, di resistenza, e
altronde alla fin fine il pover'uomo non domandava altro che quiete, vivere e
lasciar vivere, come si dice. Il suo sistema era dunque di evitare tutti i
contrasti, e di cedere in quelli che non avesse potuto evitare. Se egli era
assolutamente forzato a prender parte fra due contendenti, stava dalla parte
più forte, procurando però di far vedere all'altro ch'egli non gli era
volontariamente avverso, che potendo fare a suo modo sarebbe stato neutrale:
pareva che gli dicesse: — Ma perché non avete saputo essere il più forte? io
sarei allora con voi. — Con queste arti il pover'uomo era riuscito a poter
giungere senza forti burrasche fino all'età di cinquant'anni.
Ma il povero Don Abbondio non avrebbe voluto esser conscio a se stesso di
esser mosso da principj bassi e da non confessarsi; e si era quindi fatto (come
accade sempre) una dottrina sua propria, secondo la quale la sua condotta era
ragionevole anzi la sola ragionevole e onesta. Quando poi si vide in virtù di
questa sua buona condotta, bastantemente al coperto dalle offese altrui, pensò,
come accade, ad attaccare, e divenne un rigido censore delle azioni e degli
uomini che non tenevano la sua condotta, quando però questa sua censura potesse
esercitarsi senza alcuno anche lontano pericolo.
Chi era stato percosso e non era in caso di far vendetta era almeno
almeno un imprudente, un ammazzato era certamente un torbido, e se non lasciava
parenti irritati della sua morte, era un birbante; ma chi aveva commesso un
omicidio poteva esser certo che Don Abbondio non gli avrebbe mai trovato un
difetto. Quello poi che più gli dava collera era il vedere qualcuno dei suoi
confratelli pigliare le parti di un debole, difenderlo contro una soperchieria.
Questo chiamava egli un comprarsi le brighe a contanti, un volere addirizzare
le gambe ai cani. I potenti, i ricchi, i facinorosi, i protettori, i protetti,
insomma i vittoriosi d'ogni genere erano per lui uomini d'oro, e ne parlava
sempre col mele alla bocca. E se qualche seccatore trovava da apporre ad alcuno
di questi, mettendo il discorso sopra qualche grossa bricconeria commessa da
alcuno di questi grandi galantuomini, Don Abbondio si metteva a declamare
contro quel vizio di pretendere che gli uomini sieno perfetti. E quanto a
quelli che avevano sofferto di quella bricconeria, egli sapeva trovar loro
qualche torto, il che non è mai difficile, perché tra lo scellerato e l'onesto,
la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che l'uno
stia tutto da una parte, e l'altro tutto dall'altra. E sigillava sempre il
discorso col suo assioma favorito, proferendo il quale rifletteva con
compiacenza sopra di sè: e l'assioma era: che ad un galantuomo che vuol viver
quieto, che sa stare nel fatto suo, non accadono mai brutti incontri.
S'immagini ora il lettore che colpo doveva essere stato questo per Don
Abbondio. L'impressione di spavento per quei visi e per quelle minacce, l'idea
d'un pericolo associata a ogni momento dell'avvenire, il frutto di tanti anni
di studio e di politica perduto in un giorno, l'unica teoria sulla quale era
fondata tutta la sua speranza di quieto vivere, rovinata, e un passo stretto,
pericoloso da attraversare, un passo del quale non si vedeva una uscita. Poiché
se si avesse potuto mandare in pace Fermo con un bel no, l'affare sarebbe stato
finito, essendo la coscienza di Don Abbondio bastantemente soddisfatta della
idea che a lui era stata fatta violenza. Ma Fermo vorrà delle ragioni, e non
istarà quieto, e la ragione buona non si poteva dire a tutto il mondo, troverà
strano questo ritardo, e molto più una ripulsa, mormorerà, e che cosa
rispondere? E se Fermo ricorre? Angustiato da questi pensieri il nostro Curato
per sollevarsi un poco si scatenava in suo cuore contro chi era venuto a
togliergli per sempre la sua pace. Egli non conosceva Don Rodrigo che di nome,
e di vista, e non aveva avuta altra relazione con lui che di fargli una grande
scappellata quando lo incontrava e di riceverne un mezzo saluto di protezione.
Gli era occorso talvolta di difenderlo, quando si parlasse di qualche
soperchieria da lui fatta, e aveva detto forse cento volte che Don Rodrigo era
un degno cavaliere. Ma ora gli diede in suo cuore tutti i titoli contro i quali
l'aveva difeso in altre occasioni. Ma l'ira sua maggiore era forse contro quei
due sposi che in fondo erano la prima cagione di una tanta sua angustia.
Ragazzi, — andava ripetendo — ragazzi, non pensano che a maritarsi e non si
fanno carico dei fastidj in cui pongono un galantuomo.
Colla compagnia di questi pensieri giunse a casa, chiuse diligentemente
la porta e andò a gettarsi su un seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva
Vittoria stava parecchiando la tavola per la solita cena. Poche cose a questo
mondo sono più difficili a nascondersi di quello che sieno i pensieri sul volto
d'un curato agli occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don
Abbondio erano così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la
persona che per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi della vecchia
Vittoria.
«Ma che cosa ha, Signor padrone?»
«Niente niente».
Questa risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non la
contò per una risposta, e proseguì.
«Come, niente? Signor padrone: ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad
intendere?...»
«Quando dico niente», ripigliò Don Abbondio con impazienza, «o è niente,
o è cosa che non posso dire». Vittoria, vedendolo più presso alla confessione
che non avrebbe sperato in due botte e risposte, andò sempre più incalzando.
«Che non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua
salute? Chi rimedierà?...»
«Tacete, tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò».
Quando Vittoria intese questo fu certa che v'era una cosa da sapersi e
che la cosa era grave, e giurò a se stessa di non lasciare andare a dormire il
Curato senza averla saputa. «Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi dica che
cosa ha: vuol ella ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?» «Sì sì,
da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in sospetto». «Ma io non
dirò niente se ella mi toglie da questa inquietudine». «Non direte niente come
quando siete corsa a ripetere alla serva del curato nostro vicino tutti i miei
lamenti contro il suo padrone, e m'avete messo nel caso di domandargli scusa,
come quando...» Vittoria sarebbe qui montata sulle furie se non avesse avuto un
secreto da scavare, e se non avesse pensato che nulla allontana da questo
intento come il piatire sopra cose estranee. Interruppe dunque Don Abbondio, ma
in aria sommessa: «Oh per amor del cielo, che va ella mai rimescolando: sono
stata ben castigata, non aveva creduto far male, e dopo d'allora guarda che mi
sia uscita una parola. Signor padrone, se io parlo...» «Via, via, non giurate».
«Ma vorrei poterla soccorrere, chi sa che io non abbia un povero parere da
darle. Io l'ho sempre servita di cuore e con attenzione, ma ella sa», e qui
fece voce da piangere, «ella sa che i misterj non li posso soffrire. Una serva
fedele ha da sapere...»
In fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore, onde
fattigli ripetere seriamente i più grandi giuramenti le narrò il miserabile
caso, mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo, e l'inquietudine del
fatto che non poteva esser lieto, spalancò gli orecchi e ristette colla posata
alzata nel pugno che tenne puntato sulla tavola. «Misericordia!» sclamò
Vittoria: «oh gente senza timor di Dio, oh prepotenti, oh superbi, oh
calpestatori dei poverelli, oh tizzoni d'inferno!» «Zitto zitto, a che serve
tutto questo?» «Ma come farà Signor padrone?» «Oh! vedete», disse il curato in
collera, «i bei pareri che mi dà costei? Viene a domandarmi come farò, come
farò, come se fosse ella nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela». «Sa il
cielo se me ne spiace, Signor padrone, ma bisogna pensarci». «Sicuro, e
nell'imbroglio son io».
«Pur troppo», disse Vittoria, «ma non si lasci spaventare: eh! se costoro
potessero aver fatti come parole, il mondo sarebbe loro: Dio lascia fare ma non
strafare: e qualche volta cane che abbaja non morde». «Lo conoscete voi questo
cane? e sapete quante volte ha morso?...» «Lo conosco e so bene che...» «Zitto,
zitto, questo non serve». «Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma
intanto non cominci a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone».
«Ma se non ho voglia». «Ma se le farà bene», e detto questo, si avvicinò
al seggiolone dov'era il curato e lo mosse alquanto come per dargli la leva: il
curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla tavola: il curato vi si
ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo di tempo in tempo qualche
esclamazione, come: — Una bagattella! ad un galantuomo par mio: — ed altre
simili, se ne andò a letto colla intenzione di consultare tranquillamente, e
ordinatamente sui casi suoi.