La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la debolezza,
e la paura vi si trovavano come in casa loro, l'astuzia doveva quindi essere
invitata, e ricevere L'incarico di proporre il partito, e così fu. Senza
annojare il lettore colla relazione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati
e rigettati, basterà il dire che il partito di fare quello che si doveva senza
darsi per inteso della minaccia non fu nemmeno discusso, che si pensò a quello
di assentarsi, tanto da aspettare qualche beneficio dal tempo, ma questo anche
fu rigettato perché non v'era spazio per eseguirlo. La celebrazione del
matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e una partenza di buon mattino,
senza lasciare nessuna disposizione avrebbe avuto tutto il colore d'una fuga,
ed esponeva a molti impicci, e rendiconti. Fu però riservato questo ripiego per
l'ultimo, cercando intanto di guadagnar tempo e di agire sulla parte più
debole. Don Abbondio si preparò a questo esperimento; passò in rassegna tutti i
mezzi di superiorità e d'influenza che l'autorità, la scienza, (in paragone di
Fermo), e la pratica gli davano sopra quel povero giovane, e pensò al modo di
farli giuocare. Questi bei trovati di Don Abbondio appariranno più chiaramente
nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo non si fece aspettare, e appena
appena gli parve ora da potersi presentare al Curato senza indiscrezione, vi
andò colla lieta impazienza di un giovane che in quel giorno deve sposare
quella ch'egli ama. Era Fermo un tessitore di seta, sorta d'industria che da
una grande attività era allora in decadenza, ma non però al segno che l'operajo
abile non potesse onestamente vivere del suo lavoro. L'emigrazione di molti
lavoranti suppliva per così dire alla diminuzione del lavoro lasciandone a
sufficienza a quelli che rimanevano. In progresso di tempo crescendo a
dismisura le cause che avevano diminuita quella industria, essa fu ridotta
quasi a niente. Oltre la sua professione aveva Fermo un pezzo di terra che
faceva lavorare, e che lavorava egli stesso nel tempo in cui era disoccupato
dal filatojo, dimodoché non aveva a contrastare col bisogno. Era in quel giorno
vestito dalla festa con piume di vario colore al cappello, col suo coltello dal
bel manico, e mostrando in tutto l'abito e nel portamento un'aria di festa e
nello stesso tempo di braveria, comune a quei tempi anche agli uomini i più
quieti, come infatti era Fermo. L'accoglimento serio, freddo, misterioso di Don
Abbondio fece un contrapposto singolare coi modi gioviali e risoluti di Fermo.
Ecco una parte del dialogo curioso che ebbe luogo fra quei due: «Son venuto,
signor Curato», disse il giovane, «per sapere a che ora le convenga che noi
veniamo alla Chiesa».
«Di che giorno intendete?»
«Oggi, Signor curato; non siamo intesi così?»
«Oggi?» replicò il curato come se ne sentisse parlare per la prima volta.
«Oggi, non posso».
«Come non può? che cosa è accaduto?»
«Prima di tutto non mi sento bene, vedete».
«Ma grazie al cielo il suo incomodo non è serio, e quello ch'ella ha da
fare è cosa di sì poco tempo, e di sì poca fatica...»
«E poi, e poi, e poi...»
«E poi che cosa, Signor curato?»
«E poi ci sono degl'imbrogli».
«Degl'imbrogli? che imbrogli ci ponno essere?»
«Avete buon tempo voi altri, che non vi pigliate briga di niente, e vi
fate servire, e non avete conti da rendere. Ma io sono troppo dolce di cuore,
procuro di togliere gli ostacoli, di facilitare tutto, di fare quello che gli
altri vogliono, e trascuro il mio dovere, e poi mi toccano dei rimproveri, e
peggio».
«Ma per carità, non mi tenga così sulla corda; mi dica che cosa c'è».
«Sapete voi quante e quante formalità sono necessarie per fare un
matrimonio che non levi il sonno a chi lo ha fatto?»
«Ma queste formalità non si sono già fatte?»
«Fatte, fatte, pare a voi, perché la bestia son io che trascuro il mio
dovere per non far penare la gente. Ma ora, so io quel che dico, non posso più
fare a questo modo».
«Ma via, quale è la formalità com'ella dice, che bisogni fare? La si farà
subito».
«Ecco: nessuno è contento a questo mondo: voi stavate bene colla vostra
professione, libero, industrioso, col tempo avreste potuto comperarvi un
luoghetto vicino al vostro e poi un altro, e a poco a poco vivere d'entrata:
ecco che vi salta in capo di ammogliarvi».
«Ma a che serve questo discorso? appunto perché Dio mi dà un poco di bene
voglio maritarmi; io non son venuto adesso a domandarle un parere, ma a sapere
quando mi vuol maritare».
«Sapete voi quanti sono gl'impedimenti dirimenti?»
«Che vuole che sappia io d'impedimenti? Mi sbrighi, mi dica che cosa
manca, ed io farò tutto».
«Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis,
ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis...»
«Si piglia ella giuoco di me? Ella sa che io non so il latino».
«Dunque se non sapete le cose, rimettetevene a chi le sa».
«Mi rimetterò alla ragione, quando ella me ne dia una, e mi dica quello
che vuol da me, perché io non capisco niente».
«Tutti questi che vi ho detti, sono impedimenti, e non son tutti, eh, ce
n'è una filza».
«Insomma al mio matrimonio c'è un impedimento?»
«Ve ne possono esser dieci, dodici».
«Voglio sapere quale è l'impedimento a fare il mio matrimonio».
Fermo disse queste parole con voce tranquilla ma con un rovello interno
che cercava di contenere.
Don Abbondio non si avvide dello sforzo di Fermo, e tra perché lo
conosceva come giovane buono e l'aveva provato sempre rispettoso e quieto, e
tra perché il dover sempre arzigogolare pretesti, mentre aveva una buona
ragione che non poteva dire, lo aveva messo di mal umore, vi si abbandonò e
rispose con tuono di corruccio e d'impazienza. «Voglio, voglio, tocca a voi
dir: voglio?» Queste parole sciolsero l'ultimo freno alla pazienza di Fermo che
già aveva voluto scappare più volte, come il lettore avrà veduto nel caldo
crescente delle sue risposte. «Lo voglio per...» gridò con una subita
trasformazione, «e s'ella crede di farsi beffe di me perché son povero
figliuolo, le farò vedere che quando mi si fa torto, so fare anch'io uno
sproposito come qualunque signore».
«Via via», rispose Don Abbondio spaventato, «non siete più quel buon
giovane ch'eravate?»
«Mi dia ragione, se non vuol portarmi fuori di me».
«Se volete ch'io possa parlare tranquillatevi».
«Son tranquillo, e parli».
«Sappiate adunque che è nostro dovere, dovere preciso di fare ricerche,
ricerche esatte per vedere se non ci sieno impedimenti».
«Ma se ve ne fosse, perché non me li sa indicare?»
«Ma non basta il non saperne, bisogna aver fatte quelle tali ricerche, e
poi bisogna informarsi di molte altre cose, altrimenti?... il testo è chiaro: Antea
quam matrimonium denunciet, cognoscet quales sint...»
«Non voglio latino. Ma perché non le ha fatte prima queste ricerche?»
«Ecco mi rimproverate la mia troppa bontà. Ma adesso, mi son venute...
basta, so io».
«Insomma quanto tempo ci vuole?»
«Molto, molto».
«Quanto?»
«Almeno un mese».
«Un mese?» sclamò Fermo con volto burbero e sorpreso.
«Via in quindici giorni si procurerà...»
«Signor Curato...»
«Ebbene voi non volete intender ragione, vedrò se in una settimana...»
«Or bene, aspetterò una settimana, mi esporrò alle ciarle, ed ai fastidj
di questo ritardo. Ma la prevengo che questo ritardo non mi renderà di buon
umore, né disposto a contentarmi di ciance. S'ella vuol farmi una ingiustizia,
si ricordi che tutto quello che può accadere è sulla sua coscienza. La
riverisco». E così detto se ne andò facendo un inchino frettoloso, e molto meno
riverente del solito, e lasciò Don Abbondio più soprappensiero di prima.
Il povero sposo che, entrato nella casa del Curato per parlare di nozze e
di festa, non aveva sentito altro che impedimenti ed imbrogli, in mezzo alla
stizza che lo rodeva, andava però riflettendo sui discorsi e sul contegno del
Curato, e trovava tutto pieno di mistero...
L'accoglimento freddo e imbarazzato, l'impazienza e quasi la collera, il
tuono continuo di rimbrotto senza un perché, quel farsi nuovo del matrimonio
che pure era concertato per quel giorno, e non ricusando mai di farlo quando
che sia, parlare però come se fosse cosa da più non pensarvi, le insinuazioni
fatte a Fermo di metterne il pensiero da un canto: il complesso insomma delle
parole di Don Abbondio presentava un senso così incoerente, e poco ragionevole,
che a Fermo, ripensandovi così nell'uscire, non rimase più dubbio che non vi
fosse di più, anzi tutt'altro di quello che Don Abbondio aveva detto. Stette
Fermo in forse di ritornare al Curato per incalzarlo a parlare, ma sentendosi
caldo, temette di non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin fine che
una settimana non ha più di sette giorni, e si avviò per portare alla sposa
questa trista nuova. Sull'uscio del Curato si abbattè in Vittoria che andava
per una sua faccenda, e tosto pensò che forse da essa avrebbe potuto cavar
qualche cosa, e salutatala entrò in discorso con lei:
«Sperava che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria».
«Ma! quel che Dio vuole, povero Fermino».
«Ditemi un poco, quale è la vera ragione del Signor Curato per non
celebrare il matrimonio oggi come s'era convenuto».
«Oh! vi pare ch'io sappia i secreti del Signor Curato?» È inutile
avvertire che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non si vuole
esser creduto.
«Via, ditemi quel che sapete, ajutate un povero figliuolo».
«Mala cosa nascer povero, il mio Fermino».
Per timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo, dirò
soltanto che Vittoria fedele ai suoi giuramenti non disse nulla positivamente,
ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri colla voglia di
parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella sapeva, gli fece tante
interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto noto a Vittoria, che
avrebbero messo sulla via anche un uomo meno svegliato di Fermo, e meno
interessato a scoprire la verità. Gli chiese se non s'era accorto, che qualche
signore, qualche prepotente, avesse gettati gli occhi sopra Lucia, etc.,parlò
dei rischj che un curato corre a fare il suo dovere, del timore che uno
scellerato impunito può incutere ad un galantuomo, fece insomma intender tanto
che a Fermo non mancava più che di sapere un nome. Finalmente per timore come
si dice, di cantare, si separò da Fermo raccomandandogli caldamente di non
ridir nulla di ciò che le aveva detto.
«Che volete ch'io taccia», disse Fermo, «se non mi avete voluto dir
nulla».
«Eh! non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser
testimonio, ma vi raccomando il segreto». Così dicendo si mise a correre per un
viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata. Fermo che aveva acquistata
tutta la certezza che una trama iniqua era ordita contro di lui, e che il
Curato la sapeva, non potè più tenersi, e tornò in fretta alla casa di quello,
risoluto di non uscire prima di sapere i fatti suoi che gli altri sapevano così
bene. Entrò dal curato, lo sorprese nello stesso salotto, e gli si avvicinò con
aria risoluta: «Eh! eh! che novità è questa», disse Don Abbondio.
«Chi è quel birbante», disse Fermo colla voce d'un uomo che non vuole
esser più burlato, «chi è quel birbante che non vuole ch'io sposi Lucia?»
Don Abbondio diede un salto dal suo seggiolone per correre alla porta,
Fermo vi balzò prima di lui, come doveva accadere, la chiuse e si pose la
chiave in tasca.
«Ah! ah! Signor Curato, adesso, parlerà ella?»
«Fermo, Fermino, per amor di Dio, aprite, guardate quel che fate, pensate
all'anima vostra».
«Che pensare? Mi si è coperta la vista», rispose Fermo; un Toscano
avrebbe detto: non vedo più lume. E continuò: «lo voglio sapere subito,
subito», e così dicendo pose forse inavvertitamente la mano al coltello che
però non si cavò di tasca. «Jesummaria!» sclamò Don Abbondio.
«Lo voglio sapere», gridò ancor più forte il giovane.
«Volete voi la mia morte?»
«Voglio sapere ciò che ho ragione di sapere».
«Ma se parlo, io son morto. Non m'ha da premere la mia vita?»
«Ah! le preme dunque la sua vita? Bene la sua vita è in mano mia in
questo momento. Parli».
«Oh povero me! mi promettete, mi giurate di non dir niente?»
«Le prometto di fare uno sproposito se non parla subito».
Di botta in risposta il volto di Fermo diveniva più infocato, il labbro
più tremante, e l'occhio più stralunato. Don Abbondio vide che non poteva
cavarsela che col proferire una parola, e articolò: «Don...» «Don», replicò
Fermo come per ajutare Don Abbondio a pronunziare il resto: «Don Rodrigo» disse
finalmente il Curato. E non l'ebbe appena proferita, che sentendo cessato il
pericolo imminente, e vedendo che Fermo non aveva più pretesto da minacciarlo,
la paura si cangiò in collera e cominciò a rimproverarlo. «Avete fatta una
bella azione. Mi avete reso un bel servizio». «Signor Curato», interruppe Fermo
che provava una gioja trista e feroce di conoscere il suo nemico, «Signor
Curato, ho fallato, le domando scusa, ma si metta una mano al petto, e pensi se
nel mio caso Ella avrebbe avuto più pazienza».
«Sì sì, voi sarete cagione della morte del vostro Curato: aprite almeno,
aprite».
Fermo sentiva un vero rimorso di aver minacciato e trattato a quel modo
il Curato, e gli domandò di nuovo perdono sommessamente. «Aprite, aprite»,
replicò il Curato. Fermo si tolse la chiave di tasca, e la presentò al curato
col volto confuso d'un uomo che sente d'aver commessa una violenza. Il Curato
la prese, aperse, e andò verso l'uscio della via, mentre Fermo lo seguiva colla
testa bassa, e fremendo nello stesso tempo. Quando furono sulla porta: «Mi
promettete ora», disse il curato, «di non dir niente?» Fermo, senza rispondere
gli chiese di nuovo perdono e
da lui che molto anco volea
chiedere e udir qual lume al soffio sparve.
Don Abbondio dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò
Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse.
Spesse volte personaggi assai più importanti di Don Abbondio trovandosi
in situazioni imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere,
e non avendo nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla
senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima, e si
posero a letto colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno
d'andarlo a cercare perché se lo trovò naturalmente. Lo spavento del giorno
passato, l'agitazione della notte, e lo spavento replicato di quella mattina lo
servirono a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando del brivido e
guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente Vittoria. Risparmio al
lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che Don Abbondio ordinò a Vittoria
di chiamare due contadini suoi affidati e di tenerli come a guardia della casa,
e di far sapere che il curato aveva la febbre. Dati questi ordini si pose a
letto, dove noi lo lasceremo senza più occuparci di lui per un lungo tratto di
tempo, nel quale egli cessa d'avere un rapporto diretto colla nostra storia.
Soltanto per prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che
l'uomo timido il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento merita meno
pietà dello scellerato consumato il quale cercando il male, e facendolo
spontaneamente mostra almeno di avere una gran forza d'animo, e di sentire le
alte passioni, e che potrebbero essere solleciti per quel meschino, credo di
doverli informare che Don Abbondio non morì di quella febbre.
Fermo toltosi in fretta dalla vista di Don Abbondio, uscito del
villaggio, si avviò a gran passi quasi senza avvedersene da quella parte che
conduceva al palazzotto di Don Rodrigo, ch'egli desiderava in quel momento
d'incontrare come un amico dopo una lunga assenza. I provocatori, i
soperchianti, tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei
non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di
coloro che offendono. Fermo era come l'abbiam detto un giovane tranquillo, ed
innocuo, ma in quel punto il suo cuore non batteva che per l'omicidio. Andava
dunque per affrontare lo scellerato quando pensò che a quella casa benché
discosta alquanto dall'abitato, pure era cosa insensata e piena di pericolo
l'avvicinarsi con mire ostili; giacch'ella era una specie di picciol forte con
una guarnigione di bravi. Egli sentì tosto che ad una sola parola irriverente
che avesse detta sarebbe stato scacciato, che mostrandosi, anche senza parlare,
intorno a quella casa sarebbe stato provocato, e ucciso, e che i suoi uccisori
lo avrebbero dipinto come un assassino. Ma risoluto alla vendetta, pensò che
l'unico modo di eseguirla era aspettare un momento in cui per caso Don Rodrigo
uscisse scompagnato dai suoi bravi, di aspettarlo dietro una macchia o un
muricciuolo. In questa risoluzione si rivolse quasi macchinalmente per tornare a
casa a prendere il suo archibugio. Andando, egli s'immaginava di starsene
appiattato, gli pareva di sentire una pedata, di alzare chetamente la testa, di
vedere Don Rodrigo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere, gli lanciava
una maledizione, e correva verso il confine per mettersi in salvo. E mentre
tripudiava in questa immaginazione, gli si attraversò un pensiero: — E Lucia...
che ne sarà? — Appena la catena delle idee feroci che lo dominava in quel punto
fu interrotta, le migliori idee a cui era avvezzo entrarono in folla. Si
ricordò la consolazione che aveva tante volte provata pensando di esser mondo
di sangue, gli avvisi di suo padre, le preghiere ripetute e sollecite di sua
madre moribonda, pensò all'inferno, a Dio, alla Beata Vergine, e si risvegliò
da quel sogno di sangue con ispavento e con rimorso, e con una specie di gioja
di non aver fatto niente. — Dio mi ajuterà — disse, e deposto ogni pensiero di
pigliar l'archibugio, continuò la sua strada per andare ad informare Lucia e la
madre del tristo stato delle cose. In mezzo alla ripugnanza che sentiva a
dovere dare una tal novella alla sua sposa, egli ardeva di parlargliene per
togliersi un fiero sospetto dal cuore. La prepotenza di don Rodrigo non poteva
venire da altro, che da una sua brutale passione per Lucia. E Lucia ne era ella
informata? Così arrovellato giunse nel cortiletto della casa, e sentì un gridio
nella stanza superiore dov'era Lucia e s'immaginò che sarebbero amiche e
comari, e non si volle mostrare. Una fanciulletta che si trovava nel cortile
gli corse incontro gridando: «lo sposo, lo sposo!» «Zitto, zitto», disse Fermo,
«sali da Lucia, pigliala in disparte e dille all'orecchio, ma all'orecchio ve',
che ho da parlarle, e che l'aspetto nella stanza terrena, e non lo dire a nessun
altro».
La fanciulletta salì subito le scale, lieta di avere una incombenza
segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le
amiche se la rubavano, e le facevano forza perché si lasciasse vedere, ma ella
si schermiva con quella modestia un po' guerriera delle foresi, chinando la
faccia sul busto e facendole scudo col gomito. Aveva i neri capegli spartiti
sulla fronte con una dirizzatura ben distinta, e ravvolti col resto delle
chiome dietro il capo in una treccia tonda e raggomitolata a foggia di tanti
cerchi, e trapunta da grossi spilli d'argento che s'aggiravano intorno alla
testa in guisa d'una diadema, come ancora usano le donne del contado milanese.
Al collo una collana di molte fila, di granate alternate con bottoni d'oro a
filigrana. Un bel busto di broccato a fiori, le maniche corte fino al gomito
dello stesso colore, allacciate sopra le spalle con nastri di seta, e terminate
da due gran manichetti, una gonnella corta di filaticcio di seta terminata all'allacciatura
con fitte e spesse pieghe, due calze vermiglie, e due pianelle coperte di seta
e ricamate sul piede. Oltre questo che era l'ornamento particolare di quel
giorno, Lucia aveva quello quotidiano di una modesta bellezza, la quale era
allora accresciuta e per dir così abbellita dalle varie affezioni dell'animo
suo in quel giorno. Poiché appariva nei suoi tratti una gioja non senza un
leggier turbamento, un misto d'impazienza, e di timore e quella specie di
accoramento tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto delle spose, e che
temperato dalle emozioni gioconde e liete non turba la bellezza, ma l'accresce,
e le dà un carattere particolare. La picciola Santina entrò nella stanza, non
fece vista di nulla, aspettò un momento in cui Lucia si era staccata dalle
donne, le disse la sua parolina all'orecchio, e se ne andò, per timore di non
lasciarsi scorgere di quello che aveva fatto. Lucia disse, «torno», e scese in
fretta in fretta. La faccia stravolta e il portamento agitato di Fermo la
spaventò. «Che c'è di nuovo?» gli chiese ansiosamente. «Lucia», disse Fermo,
con una voce nella quale più non si distingueva che la tristezza, «Lucia per
oggi è finita, e Dio sa quando saremo marito e moglie». «Perché perché?» chiese
ancor più spaventata Lucia. Fermo le narrò brevemente tutta la storia di quella
mattina, tacendo però il nome di Don Rodrigo.
«Ah! non può essere che quel demonio in carne», sclamò Lucia pallida, e
sconfortata. «Chi?» domandò Fermo. «Don Rodrigo». «Dunque voi sapevate?...»
«Pur troppo» interruppe Lucia, «e non ve ne ho parlato per buone ragioni;
ora vi dirò il tutto: lasciate che possiamo esser sole con voi». Così detto
salì in fretta le scale, ritornò nella stanza dove le donne erano radunate, e
componendo il volto come potè meglio: «Il signor Curato», disse, «è ammalato, e
per oggi non si fa nulla». Detto questo salutò le donne e ripartì.
Quando non ci fosse stata altra cagione di ritardo, la situazione era
abbastanza imbarazzante in una sposa per motivare la sua subita scomparsa. La
società si disciolse: la madre seguì la figlia per ansietà e per curiosità di
saper tutto, e le donne uscirono per potere verificare il fatto, e far
congetture.
Ma la verità del fatto le troncò tutte. Fermo seppe allora dalle donne
gli antecedenti che noi racconteremo nel seguente capitolo.