Il qual padre guardiano si fermò ritto sulla soglia, e vedendo le due
donne sole, abbassò gli occhi, e si raccolse un momento, come era uso a fare
dacché era divenuto capuccino, tutte le volte che si trovava solo in presenza
di qualche persona di quel sesso terribile, che non avesse l'età prescritta
alle fantesche dei curati. Rialzando poi lo sguardo, s'accorse al volto turbato
delle due donne che i suoi presentimenti non erano fallaci; e soprastato
alquanto sulla soglia come per aspettarne la trista conferma, disse con quel
tuono di interrogazione che si risente già di ciò che deve significare una
risposta troppo preveduta: «E bene?» Lucia rispose con uno scoppio di pianto.
La madre cominciò dal chiedere scuse infinite al padre guardiano dell'avere
ardito incomodarlo, ma egli si avanzò e postosi sur un sedile contesto di alga,
troncò tutte le scuse, e dopo aver detto a Lucia: «quetatevi povera figliuola»,
domandò di essere informato di tutto brevemente. Il buon Padre ben si accorgeva
di mettere una condizione un po' dura e difficile; Agnese gli raccontò tutta la
trista storia del giorno antecedente fra le interruzioni del guardiano, che
faceva abbreviare le ciarle e che chiedeva schiarimenti, e che di tempo in
tempo diceva qualche parola di compassione e di conforto a Lucia che
singhiozzava amaramente. Quando la storia fu terminata; «Dio benedetto!» sclamò
il Padre Cristoforo: «fino a quando li lascerai fare costoro?» Indi volgendosi
tosto alle donne: «poverette!» disse: «Dio vi ha visitate: povera Lucia! mah!
non vi perdete d'animo: Dio vi ajuterà, ve lo prometto io: oh non vi ha mica
creata perché foste tormentata da costui: Dio ha i suoi fini, e al termine
delle cose si vede la sua mano. Ascoltate; io vi prometto di non abbandonarvi:
oh non vi abbandonerò certo; mah! Dio sa quello che io potrò fare: e chi sa che
Dio non voglia servirsi di un uomo da nulla come son io per cambiare un
prepotente, e per sollevare dei poverelli. Lasciate ch'io pensi un momento che
cosa si possa fare per andare incontro al pericolo più pressante, e poi Dio
provvederà». Così dicendo appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, e la
fronte nella palma, e colla destra strinse il mento barbuto, come per
concentrare e tener ferme tutte le forze della sua mente; Lucia stava
aspettando con fiducia e con dolore, e la madre mandava giù giù lo sguardo
quanto poteva per ispiare qualche cosa dei pensieri del padre, il quale fece
mentalmente questo monologo: — Poffare, che quell'uomo dovesse giungere a
questo segno! Eh non è il primo pur troppo! Ma non ci sarà chi possa farlo
stare? Vediamo. Quello che più importa sarebbe di far succedere subito il
matrimonio. Per... dinci: il signor curato fa una gran villania, e io gli parlo
fuor dei denti... ciarle, ciarle: egli sa che io non dò pugnalate, e mi lascerà
dire, o mi risponderà bravamente. Ma posso fargli paura anch'io: se trovassi il
modo di fargli venire un comando, ma un comando, e con un buon rabbuffo:
Monsignore illustrissimo non vuole di queste infami porcherie, sì ma intanto,
che cosa può accadere? No no bisognerebbe mettere in salvo questa povera
colomba e mettere un freno a quel birbante. Il fatto è chiaro: la legge c'è; e
la giustizia,... quando fosse stimolata. Eh qui non facciamo niente: costui gli
spaventa tutti: toccare Don Rodrigo, già! per amor di Dio! chi l'oserebbe? Ma
il mondo poi non finisce qui: costui fa il tiranno spaventa questi poveri
foresi che lo credono più potente che non è! E il cordone di San Francesco ha
legate altre spade che quella di costui: se potessi mettere in moto le mie
barbe a Milano... E intanto? e poi? e poi? E chi sa se non sarei contraddetto
da alcuni dei nostri? costui fa il protettore dei cappuccini, l'amico del
convento: e i suoi bravi si sono ricoverati talvolta da noi... e chi sa come si
rappresenterebbe la cosa? e quando si vedesse che si tratta di soccorrere una
povera figlia che non può compensare con altrettanta protezione! Ah! se fosse
una gran signora! Ma se fosse una gran signora non sarebbe in questo caso. Oh
poveretti noi! Oh che tempi! Quando io credeva che facendomi cappuccino sarei
fuori di questo mondo infame! Eh non se ne va fuori che quando si muore. E fare
un tentativo presso Don Rodrigo? Ehn! che cosa varranno le parole d'un povero
frate su quel diavolo in carne? Eppure non c'è altro da fare. Chi sa che adoperando
preghiere, qualche minaccia lontana: fargli sentire che c'è qualcheduno che sa
quel che si può fare contra uno scellerato soperchiatore? Forse non sarà che un
infame cappriccio venutogli dall'aver tanto fatto impunemente: e quando vedrà
che l'affare può diventar serio... Sì non c'è altro, non c'è altro. Se non
altro si vedrà come giuoca costui, e si guadagnerà tempo.
Il Padre Cristoforo si fermò in questa determinazione, pei motivi che
abbiamo riferiti, e che in verità bastavano se non a farne sperar molto, a
renderla almeno preferibile ad ogni altra: ma dietro a tutti questi motivi ve
n'era un altro che dava un gran peso a tutti questi, e che quantunque agisse
così potentemente non era distintamente avvertito da lui. Il Padre Cristoforo
era portato a cogliere con premura una occasione di trovarsi a fronte d'un
soperchiatore, di resistergli se non altro con esortazioni, di confonderlo, e
di provargli ch'egli aveva il torto, e di combatterlo e di vincerlo come che
fosse.
Mentre il buon frate stava ancor meditando, Fermo il quale per tutte le
ragioni che ognuno può indovinare non sapeva star lontano da quella casa, erasi
affacciato alla porta, e visto il padre assorto, e le donne che gli facevano
cenno di non disturbarlo, sdrucciolò per un angolo della porticella nella
stanza, e costeggiando il muro andò a riporsi tacitamente in un angolo della
stanza. Quando il Padre si alzò per comunicare alle donne il suo disegno,
s'accorse di Fermo, e gli fece un saluto che esprimeva una affezione resa più
intensa dalla pietà, e Fermo ne fu commosso.
«Ha saputo?» disse Fermo.
«Pur troppo ho inteso la vostra disgrazia» rispose il Padre; «ma tu non
ti perderai d'animo come queste poverette, e sopra tutto aspetterai che Dio ti
ajuti, e Dio ti ajuterà».
«Benedette le sue parole», rispose Fermo: «ella non è di coloro che danno
sempre torto ai poverelli, e che rimproverano una disgrazia come se fosse una
colpa. Ma il signor curato e il signor dottore...»
«Non pensare a questo che è inutile: io sono un povero frate, ma ti ripeto
quello che ho detto a queste donne: per poco ch'io sia non vi abbandonerò». «Oh
lei non è come gli amici del mondo. Sciaurati! dopo tante promesse fatte
nell'allegria, che darebbero il sangue per me, che mi avrebbero sostenuto
sempre, che se avessi avuto briga con qualcuno per cavaliere ch'ei fosse... e
poi: se vedesse come si ritirano: oh nessuno più ne vuol sentire a parlare...»
Mentre Fermo parlava il Padre Cristoforo lo guardava coi suoi occhi
scintillanti, e prendeva un'aria severa di modo che Fermo si andava accorgendo
che le parole sue non erano gradite, ed ora voleva lasciar cadere il discorso,
ora tentando di raggiustare la faccenda, si andava incespicando e pronunziava
parole sconnesse... «voleva dire: cioè Padre, non m'intendo mica...»
«E che Fermo! dunque tu avevi cominciato a guastare l'opera mia, prima
ch'ella fosse intrapresa! Tu pensavi a difenderti della violenza colla
violenza! Ringrazia il cielo che sei stato disingannato a tempo. Come! tu
speravi soccorso da questi che tu chiami amici? Soccorso per liberarti dalla
ingiustizia? Poveretto! non sapevi che ogni uomo ama troppo la sua vita e il
suo riposo per sagrificarlo alla giustizia, alla giustizia altrui? Sì; pel
denaro, per la vendetta, pel diletto di far male l'uomo disprezza il pericolo;
sì allora egli sente qualche cosa che lo porta con gioja ad affrontare il suo
simile: ma perché uno non sia oppresso, ma perché non s'impedisca una cosa
giusta, ma perché le cose vadano come dovrebbero andare, tranquillamente
ordinatamente, tu credevi che troveresti chi si armerebbe con te contra un
potente? Gli uomini non provano per questo quella gioja feroce che fa
desiderare di affrontarsi coll'uomo: o se ve n'ha di tali sono tanto rari...; e
— a queste parole Fra Cristoforo strinse fortemente la mano a Fermo — e anche
questi han torto. Ringrazia il cielo che non ti ha dato il tempo di confidare
in questi ajuti tanto da far qualche cosa della quale ti saresti pentito.
Ascolta, Fermo, io son pronto a fare quello che posso per voi; ma vi pongo una condizione».
«Comandi, padre guardiano».
«Tu mi devi promettere che ti fiderai di me, che non affronterai, che non
provocherai nessuno...»
«Promettete promettete», dissero le donne.
«Prometto prometto», disse Fermo.
«E bene» continuò il buon frate; «importa assai che di questo affare si
parli il meno possibile: perché i discorsi potrebbero rendere inutili i miei
sforzi per farlo terminar bene: io spero che quelli che tu chiamavi amici non
parleranno, per la stessa ragione che gli ha distolti dall'operare. Io andrò
oggi a parlare con quell'uomo dal quale viene tutto questo male, e non dispero
di far tutto finire: in ogni caso, vi prometto di nuovo di non abbandonarvi
mai. Frattanto voi state ritirati, schivate i discorsi, e sopra tutto non vi
mostrate; questa sera o domani avrete nuove di me». Detto questo egli
interruppe tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì inculcando di nuovo
la quiete e la prudenza; e s'avviò al suo convento.
Ivi andò in coro a cantare terza e sesta, s'assise alla parca mensa, e
allora più parca del solito per la carestia che cominciava a farsi sentire
dappertutto, e dopo raccomandati al vicario gli affari del suo picciolo regno,
si pose in via verso il covile dell'orso che si trattava di ammansare; senza
riporre a dir vero, molta speranza nel suo tentativo.
Il Castellotto di Don Rodrigo era posto sul pendio della montagna
discosto due miglia dalla casetta di Lucia, un po' più basso e più verso
settentrione, e a tre miglia circa dal convento il quale come abbiam detto era
al piano del fiume, e nel paesetto posto sulla riva sinistra. Questo
castellotto posto sulla cima d'uno di quei piccioli promontorj fra i quali si
dividono le grandi montagne, era fuori dell'abitato. Intorno al castellotto
erano tre o quattro casette di contadini che lavoravano i fondi di Don Rodrigo,
e che gli facevano da servitori e da bravi secondo l'occorrenza: vecchj che
parlavano dell'antico onore della casa e delle loro prodezze giovanili, e le
proponevano in esempio ai giovani: giovani che cercavano di emulare quei fatti
gloriosi, e donne che sentivano pure un nobile orgoglio della loro condizione
di suddite ad un cavaliere che sapeva farsi rispettare, e di madri e mogli
d'uomini che si facevano temere. Quando però, il che non era caso raro, alcuno
degli uomini loro tornava col capo rotto a casa, o si trovava minacciato della
vendetta di qualche offeso furibondo, o in un altro di quegli impiccj in cui
doveva farli cader sovente il modo loro di vivere, le donne urlavano allora,
mostravano con furore i ragazzi sul volto ai mariti, predicavano la pace e il
timor di Dio, e non si mettevano in silenzio che dopo aver toccata qualche
bussa. L'aspetto delle abitazioni di costoro dava un indizio della vita tra il
rustico e l'eroico che essi menavano, poiché guardando dalle porte si vedevano
nelle loro stanze terrene appesi alla rinfusa gli archibugj e le zappe, la
reticella e il berretto piumato col cappello pastorale di paglia.
Quando il Padre giunse dinanzi al Castellotto trovò la porta chiusa,
segno che il padrone stava a tavola e non voleva esser frastornato. Le rade e
picciole finestre che davano sulla via erano chiuse da imposte cadenti per
vetustà ma difese da grosse ferriate, e quelle del piano terreno tanto elevate
che un uomo avrebbe appena potuto affacciarvisi salendo sulle spalle d'un
altro.
Tutto al di fuori era silenzio, e un passaggero avrebbe potuto credere
che quella casa fosse abbandonata, se quattro creature, che erano poste in
euritmia al di fuori, non avessero dato un indizio di abitazione, e nello stesso
tempo un simbolo della ospitalità di quei tempi. Due grandi avoltoj colle ali
tese erano inchiodati ciascuno sur una imposta; ed uno già mezzo consumato dal
tempo aveva perduta gran parte delle piume, e qualche membro, non aveva quasi
più nemmeno la figura d'un bel cadavere: e due bravi (quei due medesimi che
avevano messa quella bella paura in corpo al curato) sdraiati ciascuno sur una
delle panche di pietra poste al di qua e al di là della porta, facevano guardia
oziosa al castello del signore aspettando di godere gli avanzi della sua mensa.
Il Padre stava per ritirarsi ed aspettare in qualche distanza che la porta si
aprisse; ma uno de' bravi avendolo veduto: «padre» gli disse: «ella vuol
riverire il Signor Don Rodrigo: aspetti aspetti, qui non si mandano indietro i
religiosi, noi siamo amici del convento», e così dicendo si alzò, e senza dar
retta al frate che voleva ritornarsene, battè due colpi del martello sulla
porta; a quel segno giunse borbottando un servo; ma quando ebbe veduto il
Padre, lo fece entrare tosto dicendogli che avvertirebbe il padrone, e
attraversato un angusto cortile lo condusse per alcuni salotti quasi fino alla
porta della sala del convito. A misura che il frate si avvicinava col suo duca,
sentiva un romore crescente di forchette e di coltelli, un sordo fragore di
piatti di stagno posti l'uno sull'altro, e sopra tutti un frastuono di voci
discordi che tutte volevano coprire le altre. Il frate desideroso allora più
che mai di attendere miglior congiuntura stava litigando sulla porta col servo
per ottenere di aspettare in un canto della casa che il pranzo fosse terminato,
quando la porta si aperse, e Don Rodrigo che stava di contro veduta la barba e
il cappuccio, e accortosi della intenzione modesta del buon Frate: «Ehi ehi»
disse «non ci scappi Padre, avanti, avanti». Il padre, mal suo grado si avanzò,
in mezzo ai clamori e alle dispute dei convitati, i quali accorgendosi ad un
per volta del sopravvenuto lo salutavano con quell'aria di rispetto ironico ed
affettato che gli amici di Don Rodrigo dovevano avere per un cappuccino.
Bisogna confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente
parlando, è un più bel vivere che a questo mondo: ben è vero che vi
s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più colossali, vi si scorgono
scelleratezze più raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite che non
nel corso reale degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi vantaggi, ed uno
che basta a compensare molti mali, uno dei più invidiabili si è, che gli
onesti, quelli che difendono la causa giusta, per quanto sieno inferiori di
forze, e battuti dalla fortuna, hanno sempre in faccia dell'empio ancor che
trionfante una sicurezza, una risoluzione, una superiorità di animo e di
linguaggio che dà loro la buona coscienza, e che la buona coscienza non dà
sempre agli uomini realmente viventi. Questi, quando abbiano dalla parte loro
la giustizia senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa difficile in
favore della giustizia sono obbligati a pensare ai mezzi per giungere a questo
loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera senza guastare la
faccenda si incontrano tanti ostacoli, fa bisogno di tanti riguardi, che da
tutte queste considerazioni si trovano posti necessariamente in uno stato di
esitazione, di cautela, e di studio, che gli fa sovente scomparire, in faccia
ai loro avversarj risoluti ed incoraggiati dalla forza e dalla abitudine di
vincere, e spesse volte, convien dirlo, dal favore o sciocco, o perverso degli
spettatori. L'uomo retto sente, a dir vero con certezza e con ardore la
giustizia della sua ragione, ma questa sua idea è un risultato, una conseguenza
d'una serie di ragionamenti e di sentimenti, per la quale è trascorso il suo
animo: se egli la esprime fa ridere l'avversario, il quale per un'altra serie
d'idee è giunto e si è posto in un risultato opposto: e pur troppo, tolti
alcuni casi, l'uomo che non ha che sè per testimonio e per approvatore, e che
vede negli altri contraddizioni e scherno perde facilmente fiducia, e quasi
quasi è disposto a dubitare: o almeno si trova in quello stato di contrasto che
fa comparire l'uomo imbarazzato. Avvien quindi spesse volte che un ribaldo
mostra in tutti i suoi atti una disinvoltura, una soddisfazione che si
prenderebbe quasi per la serenità della buona coscienza se fosse più placida e
più composta, e che l'uomo onesto e nella espressione esteriore, e nell'animo
interno mostra e prova talvolta una specie d'angustia e di vergogna che si
crederebbe rimorso; dimodoché a poco a poco finisce per essere soperchiato non
solo nei fatti ma anche nel discorso, e nel contegno, e sta come un
supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è veramente.
Si è fatta questa riflessione per ispiegare come il buon Padre
Cristoforo, il quale veniva per domandare a Don Rodrigo l'adempimento della più
stretta giustizia, e la cessazione della più vile iniquità, si rimase come
confuso, e vergognoso quando si trovò così solo con tutte le sue buone ragioni
in mezzo ad un crocchio romoroso e indisciplinato di amici di Don Rodrigo, e in
sua presenza. Era questi in capo alla tavola: alla sua destra sedeva il giovane
Conte Orazio cugino di Don Rodrigo, suo compagno di libertinaggio e di
soperchieria, e che villeggiava con lui: alla sinistra il Podestà, che Don
Rodrigo aveva invitato non senza perché, potendo trovarsi in un impegno dal
quale si sarebbe cavato meglio quando la Giustizia fosse tutta disposta in
favor suo. Il Podestà mostrava di ricevere l'onore di sedere famigliarmente a
tavola d'un cavaliere con un rispetto misto però d'una certa libertà che gli
dava il suo uficio; accanto a lui, e con un rispetto il più puro e il più
sviscerato sedeva il nostro Dottor Duplica, il quale avrebbe voluto essere il
protetto di tutti quelli che eran da più di lui, e il protettore di tutti quelli
che gli erano inferiori: due o tre altri convitati di ancor minore importanza
attendevano a mangiare e a sorridere con una adulazione ancor più passiva di
quella del dottore: e quando questi approvava con un argomento o con una lode
che voleva esser ragionata, essi non sapevano dire più in là di: «certamente».
«Da sedere al padre», disse Don Rodrigo; e un cameriere avvicinò una
scranna sulla quale si pose il Padre Cristoforo facendo qualche scusa al
signore di esser venuto in ora inopportuna, a parlargli d'un affare
d'importanza.
«Parleremo, quanto Ella vorrà, ma intanto portate da bere al Padre». Il
Padre voleva schermirsi, ma Don Rodrigo in mezzo al trambusto dei litiganti
gridava: «No per... non mi farà questo torto, padre: non sarà mai detto che un
cappuccino si parta da questa casa senza aver gustato del mio vino, né un
creditore insolente senza avere assaggiato della legna dei miei boschi». Queste
parole produssero un riso universale e interuppero un momento la quistione che
si agitava caldamente fra i commensali. Un servo portando sur un bacile
un'ampolla, come allora usava, di vino, e un lungo bicchiero a foggia di
calice, lo presentò al Padre, che non volendo resistere ad un invito tanto
pressante dell'uomo che voleva farsi propizio, non esitò a mescere, e si pose a
sorbire lentamente il vino.
«Le torno a dire, Signor Podestà riverito, che l'autorità del Tasso non
serve al suo assunto, che anzi è contro di lei», riprese ad urlare il Conte
Orazio: «perché quel grand'uomo che conosceva tutte le regole e tutti i
puntigli della cavalleria più soprafina ha fatto che il messo di Argante prima
di esporre la sfida ai cavalieri cristiani, domandi licenza a Goffredo...»
«Ma questo», replicava non meno urlando il Podestà, «questo è un sopra
più, un mero sopra più: giacché il messo è di sua natura inviolabile per
diritto delle genti, jus gentium, e secondo quel proverbio, — ella
m'insegna che i proverbi sono voce di Dio secondo quell'altro proverbio che
dice: vox populi vox Dei — quel proverbio: ambasciator non porta pena;
dico che non avendo il messaggero detto nulla in persona propria, ma solamente
presentata la sfida in iscritto, secondo tutte le regole, non doveva mai...»
«Con buona licenza di questi signori», interruppe Don Rodrigo il quale
questa volta contra il suo solito aveva voglia di troncare la quistione:
«rimettiamola nel Padre Cristoforo, e si stia alla sua sentenza».
«Bene, benissimo», disse il Conte Orazio al quale parve cosa molto
graziosa il far decidere una questione di cavalleria da un cappuccino; mentre
il Podestà, a cui pareva un po' ostico l'esser sottoposto ad un giudizio
mostrava leggermente il suo malcontento con un suono inarticolato accompagnato
da una quasi invisibile mossa di spalle. «Ma, da quel che mi pare d'avere
inteso», disse il Padre, «non sono cose di cui io mi debba intendere».
«Solite scuse di modestia di loro Padri», disse Don Rodrigo; «ma non mi
scapperà: Eh via! sappiamo bene ch'ella non è venuta al mondo colla barba, e
col cappuccio, e il mondo lo ha conosciuto. Via via. Ecco il fatto».
«Il fatto è stato...» gridò il Conte Orazio.
«Lasciate pur dire a me che sono neutrale, cugino», riprese Don Rodrigo.
«Il fatto accaduto in Milano è: che un Cavaliere spagnuolo mandò la sfida ad un
cavalier milanese: e il portatore non trovando il provocato in casa, consegnò
la lettera ad un fratello del cavaliere; il quale, letta che l'ebbe diede
alcune bastonate al portatore...»
«Ben date, bene applicate» gridò il Conte Orazio; «fu una vera
ispirazione...»
«Del demonio», interruppe il podestà «battere un ambasciatore! persona
sacra! anch'Ella padre, mi dirà se questa è azione da cavaliero...»
«In verità signor Podestà ch'io non avrei mai potuto credere che un par
suo desse tanta importanza alle spalle di un mascalzone».
«Ma Signor conte, ella mi fa dire dei paradossi ai quali io non ho mai
pensato. Io parlo dell'offesa fatta alla livrea del Cavaliere spagnuolo, e non
delle spalle del messo: parlo sopra tutto delle leggi di cavalleria. Mi dica un
po' se i Feciali, che erano quelli che gli antichi romani mandavano ad intimar
le sfide ai popoli con cui si mettevano in guerra, domandavano il permesso di
esporre l'ambasciata; e mi trovi un po' uno scrittore che faccia menzione che
un feciale sia mai stato bastonato».
«Che mi parla di antichi romani, che in queste cose erano rozzi, e
principianti?... non v'erano stati ancora paladini nel vero e stretto senso
della parola: ma ora che le cose si sono raffinate, che l'esperienza ha resi
gli uomini ben più delicati, e che abbiamo scrittoroni i quali hanno immaginati
tutti i casi escogitabili, e hanno scavato coll'acume del loro ingegno fino
all'ultimo fondo di queste questioni, ora, io dico e sostengo, che un messo che
non domanda la licenza di esporre una ambasciata di sfida è un temerario,
violabile, violabilissimo, e che a bastonarlo si acquista indulgenza».
«Ebbene mi risponda un po' a questo. Il portatore non è disarmato? e
offendere un disarmato non è atto proditorio? Dunque il cavaliere milanese...»
«Piano piano, che bell'equivoco mi fa ella Signor podestà?...»
«Come?»
«Ma lasci rispondere. Atto proditorio è ferire colla spada un cavaliere
disarmato. Confesso che infilzare colla spada un plebeo senza necessità sarebbe
azione tanto vile, quanto bastonare un cavaliere: ma qui si tratta di bastonate
date ad un plebeo; e lei non mi troverà una regola che imponga di dire guarda
che ti bastono, come si dice: mano alla spada... E lei Signor Dottore riverito,
invece di farmi dei sogghigni, per darmi ad intendere che è del mio parere,
perché non sostiene le mie ragioni colla sua buona tabella, per ajutarmi a fare
entrare la ragione in capo a questo signore?»
«Io...» rispose alquanto sconcertato il dottore, «io godo di questa dotta
disputa; e benedico quel grazioso accidente che ha dato occasione ad una guerra
di ingegni sottili, e di labbra eloquenti che serve d'istruzione e di diletto
agli ascoltatori; di modo ché non vorrei, anche potendo, metter daccordo due
combattenti che fanno sì bella mostra delle loro forze. Ho detto, potendo,
giacché io non m'arrogo di fare il giudice... e se non m'inganno il nobile
padrone di casa ha nominato un giudice... qui il padre...»
«È vero», disse Don Rodrigo, «ma come volete che il giudice parli quando
gli avvocati non vogliono tacere!»
«Son muto», rispose il Conte Orazio: il Podestà fece pur cenno che
tacerebbe.
«Ah! finalmente! A lei padre», disse Don Rodrigo con una serietà
beffarda.
«Ho già fatte le mie scuse col dire che non me ne intendo», rispose Fra
Cristoforo dando il bicchiere ad un servo.
«Scuse magre», gridarono tutti: «vogliamo la sentenza».
— Mascalzoni... cioè poveri traviati; pensava fra sè il Padre Cristoforo,
credete voi che starei qui a sentire le vostre pappolate se non si trattasse di
cavare una innocente dagli artigli di quel lupo che voi accarezzate vilmente?
Ma come s'insisteva d'ogni parte: «Ebbene», disse, «poiché lor signori
non vogliono credermi quand'io dico che non me ne intendo, vedrò di far dire a
loro la stessa cosa. Il mio debole parere dunque in tutto questo si è, che a
ben fare non vi dovrebbero essere né sfide, né portatori, né bastonate».
«Nè cavalieri spagnuoli, né cavalieri milanesi, voleva forse dire padre»:
rispose il Conte Orazio: «ed io aggiungo: nemmeno padri cappuccini. Oh
vorrebb'essere un bel vivere, padre... come si chiama il padre?»
«Padre Cristoforo».
«Padre Cristoforo ella ci vorrebbe ricondurre a vivere di ghiande. Senza
sfide e senza bastonate! sarebbe un bel mondo! impunità per tutti i paltonieri,
e il punto d'onore andato. Ma scommetto che il Padre ha voluto scherzare perché
sa benissimo che la sua supposizione è impossibile».
Don Rodrigo il quale non vedeva volentieri che il suo schiamazzatore
cugino facesse tante questioni col podestà che gli premeva di tenersi amico,
approfittò della sentenza del padre Cristoforo per divertire il discorso dalla
questione, e rivolto al dottore con aria di protezione e di scherno.
«Oh» disse, «voi dottore che siete famoso per dar ragione a tutti,
vediamo un po' come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo».
«In verità», rispose il dottore, rivolgendosi al padre, «io non so
intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e
l'uomo di mondo, non abbia posto mente che la sua sentenza, buona, ottima e di
giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una
disputa cavalleresca: perché ogni cosa è buona a suo luogo: ma credo anch'io
che il padre Cristoforo ha voluto terminare con uno scherzo ingegnoso una
questione broccardica».
Il Padre Cristoforo non rispose, e perché come è facile indovinarlo era
stomacato da lungo tempo della disputa e dei disputanti, e perché sapeva che il
dottore non si curava di esser persuaso: e finalmente perché sarebbe stato
impacciato a rispondere; giacché quantunque nel suo cuore egli pensasse
veramente ciò che avevano espresso le sue parole; le ragioni della sua sentenza
erano tanto lontane dalle idee di quel tempo ch'egli stesso avrebbe durato
fatica a trovarle.
Il dottore il quale vide che i due litiganti stanchi di avere impiegata
la bocca in parole si erano rimessi a guadagnare sul piatto il tempo perduto, e
temendo che non si valessero delle forze riacquistate per ricominciare una
guerra nella quale egli era già compromesso, pensò di toccare un'altra materia,
e disse: «Del resto signori miei giacché si è parlato di cavalieri spagnuoli e
di cavalieri milanesi, o viceversa, giacché ho un eguale rispetto per gli uni e
per gli altri; credo che presto vedremo anche dei cavalieri alemanni, se le
notizie che girano sono fondate, cosa che loro signori sapranno meglio di me».
«Le lettere ch'io ricevo da Milano», rispose Don Rodrigo, «mi danno che è
voce comune che gli alemanni ottengono il passaggio per andar contro Mantova, e
che pur troppo si crede che il passaggio sarà per di qui, giacché i comaschi
muovono cielo e terra per fare a noi questo regalo...»
«Non si sturbi, non si sturbi...» rispose sorridendo il podestà: «non
verranno alemanni né a Como, né qui».
«Ed io le dico» ricominciò il Conte Orazio, «che si assicura che sono già
in marcia per Lindò, e si nomina il generale che sarà il celebre Conte di
Colalto, e che si dà la nota dei reggimenti fra i quali vi è quel rinomatissimo
reggimento dei più scelti e forbiti diavoli in carne che abbiano mai portato
moschetto, il reggimento del famoso principe di Valdistano, o Vallistai come lo
chiamino...»
«Il nome legittimo in lingua alemanna», interruppe il podestà, «è
Vagliensteino, come l'ho inteso più volte proferire dal nostro signor
comandante spagnuolo».
«Ebbene il reggimento di Vaglien... quello che è: e oltre di questo vi è
il reggimento di Galasso, del Barone Aldringhen ed altri simili, tutta gente
che ha combattuto contro i Luterani, e che non ha timor di Dio né degli uomini,
e che dove passa non lascia un filo d'erba».
«Per me», riprese Don Rodrigo, «non ho voglia di aspettarli qui, e»
continuò sogghignando verso il Conte Orazio, «se non avessi un affaruccio da
sbrigare, sarei già a Milano».
«Il vostro affare è già bell'e disperato, e se non avete altro potete
partire».
«Voi vorreste aver guadagnata la scommessa; ma piano, caro mio, se gli
alemanni non vengono in questi giorni, la scommessa la pagherete». Queste
parole e il sorriso infernale con cui furon dette e risposte furono un lampo
pel padre Cristoforo il quale s'accorse fremendo e tremando, che l'oggetto
della scommessa doveva essere l'innocente Lucia. Il dottore intese forse quanto
il padre, ma non tremò né fremè, né fece vista di nulla.
«Attenda a tutto bell'agio ai suoi affari, sulla mia parola signor Don
Rodrigo e non pensi a privarci della sua rispettabile persona; che già gli
alemanni non sognano nemmeno di passare per di qua. Per mettere il piede sul
nostro territorio che ha l'onore di appartenere alla monarchia spagnuola,
bisogna ottenere il permesso del re Cattolico Don Filippo Quarto nostro signore
che Dio guardi. Ora il permesso a chi tocca concederlo o negarlo? Niente meno
che al Conte Duca, al gran d'Olivares, a quel modello dei politici, a
quell'uomo che si può chiamare il favorito dei principi e il principe dei
favoriti. Ora pensino le signorie loro, se un Olivares vuol permettere il
passaggio...»
«Ma le dico che si radunano a Lindò...»
«Appunto questo è quello che mi persuade di più che non passeranno in
Italia. Certe cose io le so dal nostro signor comandante spagnuolo, il quale si
degna — brav'uomo! — di trattenersi meco con qualche confidenza. Sapranno
ch'egli è un figliuolo d'un creato del Conte Duca, e che sa qualche cosa di
questo gran ministro. Ebbene fra le strepitose doti del Conte Duca la più
strepitosa forse è quella di saper nascondere i suoi disegni: di modo che
quegli stessi che lo servono più da vicino, quegli che scrivono i suoi dispacci
non sanno mai che cosa passi in quella testa, e molte volte anche dopo che un
affare è stato conchiuso, nessuno ha potuto indovinare quale era in esso
l'intenzione del Conte Duca. È una volpe, col dovuto rispetto, un furbo che
farebbe perder la traccia a chichessia; e quando accenna a destra si può esser
certi che batterà a sinistra, ed è perciò che nessuno può mai indovinare quello
ch'egli sia per risolvere. Onde quand'io veggo truppe alemanne venire alla
volta d'Italia, tanto più dico, che sono destinate per altra parte; perché chi
regola tutto anche fuori della monarchia è il Conte Duca; che ha le mani lunghe
quanto la vista».
«Ma per dove crede lei che siano destinate tutte queste truppe?»
«Per dove? non per l'Italia certo. Potrebbero esser destinate a gettarsi
nella duchea di Borgogna per far diversione ai francesi, i quali (tutto per
invidia del Cardinal di Riciliù contro il Conte Duca, perché vede benissimo che
non può competere con quella testa) i quali francesi dico per invidia
soccorrono gli olandesi che si trovano all'assedio di Bolduc. E questa
congettura, per dir tutto, la tengo dal signor comandante spagnuolo».
«Ma sappia signor podestà che le notizie che noi abbiamo da Milano,
vengono da personaggi in confronto dei quali...»
«Via via, cugino», interruppe Don Rodrigo «che il signor dottore è
impaziente di dare egli una decisione questa volta».
«Io decido e sentenzio», disse il Dottore, «che le cene di Eliogabalo
sarebbero vinte al confronto dei pranzi del nobile signor Don Rodrigo, e che la
carestia non ardisce approssimarsi a questa casa dove regna la splendidezza sua
capitale nemica».
Tutti fecero plauso al dottore e viva a Don Rodrigo; e tutti subito si
misero a parlare della carestia. Qui tutti furono d'una sola opinione; ma il
fracasso era forse più grande che se vi fosse stato disparere: giacché tutti
esprimevano energicamente la stessa opinione con diverse frasi, ma tutti in una
volta. «Carestia!» diceva uno, «non c'è carestia sono gli accapparratori,
birbanti». «I fornaj, i fornaj» gridava un altro. «Impiccarli! dei buoni
esempj, senza pietà. E quei birboni impostori che con un'aria pietosa hanno la
sfrontatezza di dire che il pane è caro perché il raccolto è stato scarso, e
che il grano manca! Impiccarli, impiccarli! sono i peggiori: tutte invenzioni
per nascondere gli accapparramenti».
«Hanno detto che non vogliono vendere finché un terzo degli abitanti non
sia morto di fame e il frumento non costi cento lire al moggio. Oh scellerati!
impiccarli!»
«Il grano c'è: questo è un fatto innegabile: dunque bisogna farlo saltar
fuori: e il mezzo è pronto: impiccare quelli che lo nascondono».
«Dov'è tutto il male? nella carezza del pane: e chi lo vende caro? i
fornaj: e per farli mutar vezzo, impiccarne uno o due».
«Eh ci vuol altro che uno o due: sono tutti birbanti, col pelo sul cuore.
Impiccarli, impiccarli!» Chi ha mai intesa e goduta l'armonia che fa in una
fiera di campagna, una troppa di cantambanchi, quando prima di spiegare i suoi
talenti dinanzi al rispettabile pubblico, ognuno accorda il suo stromento,
facendolo stridere più forte che può affine di poterlo sentire in mezzo al
romore degli altri, che procura di non ascoltare, s'immagini che tale fosse la
conversazione di economia politica dei nostri commensali. In mezzo a questo
trambusto vennero i servi a torre le mense, ricevendo e dando urtoni e
gomitate: quindi si pose sul desco molle un gran piatto piramidale di marroni
arrostiti, e si portarono fiaschi di vino più prelibato di quello che in
Lombardia si chiama vino della chiavetta, e del quale, per un privilegio
singolare, ogni proprietario ha sempre il migliore del contorno. Gli elogj del
vino, com'era giusto, ebbero una parte della conversazione, senza però
cangiarla del tutto: il gridio continuò per una buona mezz'ora: le parole che
si sentivano più spesso erano ambrosia e impiccarli. Finalmente
Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la rubiconda brigata: e Don Rodrigo, fatte
le sue scuse agli ospiti, si avvicinò al padre Cristoforo, e lo condusse seco
in una stanza vicina.