V'ha dei momenti in cui l'animo massimamente dei giovani, è, o crede di
essere talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa che la più
picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò che abbia una apparenza di bene, di
sagrificio, di perfezione; come un fiore appena sbocciato, che s'abbandona sul suo
fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze all'aura più leggiera che
gli asoli punto d'attorno.
L'animo vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua
costanza, corre con alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda
riflessione non gli rivela col tempo, che ciò che gli era sembrato una ferma e
pura volontà non era altro che una illusione della fantasia. Questi momenti che
si dovrebbero ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal
prudente consiglio in modo che si maturassero colla prova, e col tempo, nei
quali tanto più si dovrebbe tremare e vergognarsi di chiedere quanto più grande
è la disposizione ad accordare, questi momenti sono quelli appunto, che la
speculazione fredda o ardente dell'interesse, agguata e stima preziosi per
legare una volontà che non si guarda, e per venire ai vili suoi fini.
Il Marchese Matteo, il quale passato il primo caldo dell'ira, era tosto
corso a fantasticare nella sua mente se da quel disordine avesse potuto cavar
qualche profitto per vincere la risoluzione di Geltrude, e che non era mai
ristato dal ruminarvi sopra da poi, s'accorse al leggere di quella lettera che
la figlia gli dava essa stessa l'occasione desiderata, e stabilì tosto di
battere il ferro mentre ch'egli era caldo. Mandò quindi a dire a Geltrude
ch'ella dovesse venire nella sua stanza, ov'egli si trovava solo. Geltrude
v'andò di corsa, che innanzi o indietro è il passo della paura, giunse senza
alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi piedi, ed ebbe appena il
fiato per dire: «perdono». Il Marchese con una voce poco atta a rincorare le
rispose, che il perdono non bastava desiderarlo, che questo lo sa fare chiunque
è colto in fallo e teme il castigo, che bisognava insomma meritarlo. Geltrude
in tanto più turbata ed atterrita in quanto ella era venuta con la speranza di
tosto ottenerlo, chiese che dovesse fare per rendersene degna, e si disse
pronta a tutto. Il Marchese non rispose direttamente, ma cominciò a parlare
lungamente del fallo di Geltrude e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di
fare alla famiglia. Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere
di una mano ruvida sur una piaga. Aggiunse che, quando mai egli avesse avuto
alcun pensiero di collocare la sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe
stato un ostacolo invincibile, perché egli avrebbe creduto suo dovere di
rivelare la debolezza della sua figlia a chi l'avesse richiesta, non essendo
tratto da cavalier d'onore il vender gatta in sacco. Finalmente, raddolcendo
alquanto il tuono della voce, e le parole, disse a Geltrude che questi eran
falli da piangersi per tutta la vita, e che ella doveva vedere in questo tristo
accidente un avviso del cielo, che le dava ad intendere che la vita del secolo
era troppo piena di pericoli per lei, e che non v'era asilo, riposo,
sicurezza...
«Ah! sì», interruppe incautamente Geltrude mossa ad un punto dal timore,
dal ravvedimento, e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività della
sua fantasia. Il Marchese, — ci ripugna dargli in questo momento il titolo di
padre — la prese in parola, le annunziò il più ampio perdono, si congratulò con
lei del partito ch'ella aveva preso, della vita riposata e felice ch'ella
avrebbe menata, e la oppresse di quelle lodi che fanno paura, perché lasciano indovinare
a quali improperj esporrebbe il cangiar di risoluzione. Geltrude si stava
stordita fra i diversi affetti che si succedevano nel suo cuore, non sapeva che
dire, non sapeva che si avesse detto: dubitava di essersi troppo avanzata, o
d'essere stata strascinata più innanzi che non avrebbe voluto; questo pensiero
era però dubbio e confuso nella sua mente; ma foss'egli stato limpido e
spiegato perfettamente, manifestarlo, accennarlo, dire una parola che
contraddicesse all'entusiasmo del Marchese, sarebbe stato uno sforzo quasi
impossibile.
Il Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude, per
metterli, diceva egli, a parte della sua consolazione, per riporre Geltrude
nella stima e nell'affetto della famiglia. L'una e l'altro accorsero immediatamente.
La Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra volontà che quella
del marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva combattuto, e ne era
uscita vittoriosa. Questa condiscendenza non veniva già da un sentimento del
suo dovere né da stima pel Marchese, ma dall'aver veduto chiaramente da
principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi muricciuoli. S'era
ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che riguardava il governo della
famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre articoli che abbiamo
accennati. Del resto i disegni del Marchese sul collocamento di Geltrude erano
così conformi a quello che si chiamava interesse della famiglia, e alle mire
avare e ambiziose in allora tanto universali, che quel poco di opinione che la
Marchesa aveva a sua disposizione non poteva non approvarli. L'affezione
materna però le faceva desiderare che Geltrude si facesse monaca di buona
voglia, come una buona madre che abbia una figlia tanto scrignuta e
contraffatta da non poter esser chiesta da nessuno, desidera ch'ella preferisca
il celibato al matrimonio. Al giovane Marchesino era stato detto fino
dall'infanzia che le entrate della casa erano appena appena proporzionate alla
nobiltà, e che detrarne anche una picciola parte sarebbe stato un decadere se
non nella sostanza almeno nell'esterno; egli riguardava quindi assolutamente
come un dovere in Geltrude di chiudersi in un chiostro: modo il più economico
di collocarsi: quindi l'aderire ch'egli faceva ai progetti del padre era una docilità
poco costosa. Il Marchese fece cuore a Geltrude, e la presentò con volto lieto
alla madre e al fratello. «Ecco», disse, «la pecora smarrita, e sia questa
l'ultima parola che richiami tristi memorie. Ecco» aggiunse «la consolazione
della famiglia: Geltrude ha scelto ella medesima, spontaneamente quello che noi
desideravamo per suo bene; e non ha più bisogno di consigli.
È risoluta, ed ha promesso...» qui Geltrude alzò gli occhi tra lo
spavento e la preghiera al Padre, come per supplicarlo di sostare un momento,
ma egli ripetè francamente: «ha promesso di prendere il velo». Le lodi e gli
abbracciamenti furono senza fine, e Geltrude riceveva le une e gli altri con
lagrime che furono credute di consolazione. Il Marchese Matteo si diffuse
allora a magnificare le disposizioni che aveva già fatte di lunga mano per
rendere lieta e splendida la sorte della sua figlia. Parlò delle distinzioni
ch'essa avrebbe avute nel monastero, e del desiderio che le madri avevano di
possederla, e di osservarla come la prima, la principessa donna del monastero,
dal momento in cui vi avrebbe riposto il piede. La madre e il fratello
applaudivano: Geltrude era come posseduta da un sogno.
«Oh!» s'interruppe il Marchese; «noi stiamo qui facendo chiacchere, e si
dimentica il principale: bisogna fare una domanda in forma al Vicario delle
monache, altrimenti non si conclude nulla». Detto questo fece chiamare tosto il
Segretario. Questi giunse ritto ritto, intirizzato quanto poteva comportare la
fretta di obbedire al Signor Marchese; il quale tosto gli diede ordine di
stendere la supplica. Il Segretario, rivolto a Geltrude disse: «ah! ah!» per
pigliar tempo a studiare un complimento di congratulazione: ma il Marchese lo
interruppe dicendo: «Presto, presto, scrivete alla buona, senza concetti; già
conosciamo la vostra abilità». Il Segretario scrisse, e il foglio fu dato a
Geltrude da ricopiare, la quale ricopiò, e appose il suo nome, come le comandò
il Marchese. Il quale preso il foglio, e consegnatolo al Segretario perché lo
portasse addirittura cui era indiritto; comandò che si preparasse per Geltrude
il suo appartamento ordinario, che si dicesse ch'ella era guarita dalla sua
indisposizione — era il pretesto preso per dar ragione della sua assenza
continua —, e che tosto le si facessero apprestare abiti più sontuosi. Quindi
rivolto sorridendo a Geltrude, le chiese quando ella sarebbe stata disposta a
fare una trottata a Monza per richiedere alla Badessa di esser ricevuta.
«Anzi...» riprese dopo aver pensato un momento, «perché non v'andiamo oggi
stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e sarà ancor più contenta quando
il primo passo sia fatto». «Andiamo, andiamo» rispose la Marchesa. «La giornata
è bellissima». «Vado a dar gli ordini», disse il Marchesino e stava per
partire. «Ma...» cominciò Geltrude, e non potè continuare. «Piano, piano,
cervellino», ripigliò il Marchese rivolto al figlio: «forse Geltrude è stanca,
e vuole aspettare fino a domani. Volete voi che andiamo domani?» domandò a
Geltrude con uno sguardo che nello stesso tempo mostrava il sereno e minacciava
il temporale. «Domani», rispose con debole voce Geltrude, alla quale non parve
vero di aver qualche ora di rispitto, e che nel proferire quella parola si
sovvenne che finalmente quel passo non era l'ultimo, il decisivo; e che si
poteva ancora darne uno indietro. «Domani», disse solennemente il Marchese:
«domani, è il giorno ch'ella ha stabilito».
Il resto della giornata fu occupatissimo.
Geltrude avrebbe voluto raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante
commozioni, rendersi conto di quello che aveva fatto, di quello che era da
farsi, sapere distintamente che cosa voleva, trovare il modo di rallentare un
po' quella macchina che appena mossa andava con tanta celerità, per vedere
almeno come ne era condotta, e per arrestarla affatto se si fosse accorta che
la conduceva ad un pentimento; ma non ci fu verso. Le distrazioni si tenevano
dietro senza interruzione, e la mente di Geltrude era come il lavorio d'una
povera fante che serva ad una numerosa famiglia e che in un giorno di faccende
chiamata di qua di là non può venire a capo di nulla. Mentre s'apparecchiava il
quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella stanza stessa della
Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del suo più bell'abito;
operazione che in quel giorno le recò una noja intollerabile. La Marchesa
presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte riprendendo, parte
consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranie non le lasciò il
tempo di raccozzar due idee. Del resto a misura che l'opera procedeva verso la
sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po' d'affetto, e vi occupò quel
poco di pensiero che le rimaneva. L'acconciatura era appena finita che venne
l'ora del pranzo. I servi la inchinavano umilmente sul suo passaggio, accennando
di congratularsi per la ricuperata salute; con una serietà che non avrebbe
lasciato supporre che essi sapessero qualche cosa del vero motivo della assenza
di Geltrude. A tavola Geltrude fu la regina: servita la prima, trattenuta,
corteggiata, ella doveva corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo
per riuscirvi. Il Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più prossimi
del ristabilimento della figlia, e della sua risoluzione: le due liete nuove si
sparsero, e come la famiglia del Marchese spandeva un lustro grande su tutta la
parentela, comparvero dopo il pranzo visite di congratulazione. I complimenti
erano per la sposina — così si chiamavano le giovani che erano per farsi
monache — e la sposina doveva rispondere a quei complimenti; ed ogni risposta
era una conferma. S'avvedeva ben ella che ad ogni momento andava tessendo ella
stessa una maglia di più alla sua rete; ma oltre ch'ella non vedeva ben chiaro
se quella era una rete, fare altrimenti le pareva impossibile: poiché come mai
in presenza del padre, a chi si rallegrava di una risoluzione presa da lei, ed
annunziata da quello, avrebb'ella potuto dare una risposta dubbiosa? Partite le
visite Geltrude entrò con la famiglia nel cocchio dal quale era stata esclusa
per tanto tempo: e si andò a fare la solenne trottata. Lo spettacolo e il
romore delle carrozze e dei passeggiatori, i discorsi incessanti del padre,
della madre, e del fratello che per cortesia rivolgevano sempre la parola a
Geltrude, si contendevano l'attenzione della sua mente; e i pensieri sulla sua
situazione vi apparivano istantaneamente come lampi in un povero cielo.
Rientrato il cocchio, in casa, e fermato sotto le volte rimbombanti dell'atrio,
i servi che scendevano in fretta coi doppieri, annunziarono che gran parte della
conversazione era già ragunata.
Si montò con tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa
gravità, e di sala in sala si giunse a quella della conversazione. La sposina
ne fu il soggetto, l'idolo, e la vittima. Chi si faceva prometter da lei, chi
prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre
tal altra sua conoscente; chi lodava il cielo di Monza, chi la regola del
monastero. Se alcuno non potendo avvicinarsi a Geltrude assediata da altri, o
trovandosi distratto a ciarlare in un crocchio, non le aveva detto nulla, si
sentiva tutto ad un tratto preso come da un rimorso, temeva di averle fatta una
offesa, e studiava il momento di farle il suo complimento. Finalmente la
brigata si sciolse, tutti partirono senza rimorso, e Geltrude stordita,
intronata si rimase sola con la famiglia, dalla quale ebbe altri complimenti
sui complimenti che aveva ricevuti. «Ho finalmente», disse il Marchese Matteo
«avuta la consolazione di veder mia figlia trattata e distinta da sua pari. Domani
mattina», soggiunse, «converrà esser presti di buon ora per andare a Monza come
ha stabilito Geltrude». Geltrude condotta finalmente dalla Marchesa nella
stanza che le era preparata vi rimase con una donna che era stata quel giorno
destinata ai suoi servigi, in vece di quella che aveva fatto presso di lei il
tristo uficio di carceriera.
Questo cangiamento era stato provocato da Geltrude. Vedendo ella in quel
giorno il padre così disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, fu
tentata di profittare dell'auge in cui si trovava per soddisfare almeno una
delle passioni che si univano a tormentarla. Si è detto ch'ella vedeva di mal
occhio la donna che le era stata spia e guardiana; e che v'era fra esse un
ricambio continuo, una gara di sgarbi. Geltrude in certi momenti di divozione
le aveva perdonato, ma cento perdoni non ne vagliono un solo. Vedersi in quel
giorno trattata con tanta importanza quasi con tanto rispetto da tutta la
famiglia, le dava un po' di superbia, e nello stesso tempo il sentire che con
queste lusinghe le si faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto le
dava stizza: mentre il suo animo si trovava fra questi due tristi sentimenti,
le sovvenne dei modi rozzi, famigliari, insolenti che quella donna le aveva
usati nella sua prigionia, e volendo lamentarsi di qualche cosa, se ne lamentò
al padre. Questi ne fu, o se ne mostrò sdegnato, non istette a domandarle come
ella pure avesse trattata la donna; ma promise che darebbe una buona lavata di
capo a colei, e fissò immediatamente ai servigi di Geltrude un'altra donna di
casa. Era questa la vecchia governante del Marchesino: e Geltrude faceva poco
guadagno nel cambio. La vecchia alla quale il Marchesino era stato dato in
guardia quando fu tolto alla nutrice, aveva per lui una falsa affezione di
madre: in lui aveva poste tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua
gloria. Dopo il Marchese ella era stata la prima a dire che Geltrude aveva ad
esser monaca per non rubare una parte d'entrata al Marchesino. Quel giorno ella
era e si mostrava tanto soddisfatta che aveva ricevute le congratulazioni dei
suoi conservi, tra i quali era un personaggio d'importanza; e parlava con molta
bontà della signorina che aveva conosciuto il suo dovere.
Geltrude, a compimento di quella giornata, dovette sentire le lodi e i
consigli della vecchia che spogliandola e ponendola a letto le fece la storia
di sue zie, e di sue prozie, le quali s'eran fatte monache per non intaccare il
patrimonio della casa, e che se n'erano trovate ben contente perché i monasteri
dove s'erano chiuse avevan saputo tener conto dell'onore che arrecava loro
l'aver dame di quella casa. Le raccontò che si era ricorso ad esse per
protezione, e che esse dal loro parlatorio avevano ottenuto ciò che era stato
invano domandato dalle prime dame nella loro gran sala di ricevimento, parlò
degli affari d'onore imbrogliatissimi ch'esse avevano conciliati, delle visite
di grandi personaggi forestieri che avevano ricevute, di che tutta la città
aveva parlato. «Ma», soggiungeva, «erano donne che sapevan fare»; e qui
intrometteva qualche consiglio sulla condotta da tenersi a Monza. Prediceva gli
onori che Geltrude avrebbe pur ricevuti, le distinzioni, le visite. Verrebbe
poi il Signor Marchesino con la sua sposa, la quale doveva esser certo una gran
dama, e allora non solo il monastero, ma tutto il borgo sarebbe in movimento.
Geltrude ascoltava con una noja mista di qualche curiosità, poiché si trattava
probabilmente del suo avvenire, e benché stanca e stordita non diceva:
«finitela», per quella stessa curiosità che impedisce uno di lasciare a mezzo
una storia mal pensata e male scritta. La vecchia aveva parlato mentre
spogliava Geltrude, quando Geltrude era già coricata; parlava ancora che
Geltrude dormiva. Le cure di rado tolgono il sonno alla giovinezza; e sono
tutt'altre cure che quelle onde era oppressa Geltrude. Il suo sonno fu
affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce agra
della vecchia che venne di buon mattino a riscuoterla perché si preparasse al
viaggio di Monza.
«Alto, alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima ch'ella sia
vestita, rivestita, in pronto, ci vorrà anche un'ora almeno. La Signora
Marchesa si sta alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito. Il
Marchesino è già disceso alla scuderia e risalito; e si trova in ordine di
partire quando che sia. Vispo come un lepratto quel diavoletto: ma! egli era
tale fin da bambino: io posso ben dirlo che l'ho tenuto nelle mie braccia. Ma
quando è all'ordine non bisogna farlo aspettare, perché quantunque sia della
miglior pasta del mondo, allora egli strepita, fa il diavolo: e questa volta
avrebbe anche un po' di ragione perché egli s'incomoda per accompagnar lei.
Guarda in quei momenti: non ha tema di nessuno, fuorché del Signor Marchese; ma
poi finalmente egli non ha sopra di sè che il Signor Marchese, e un giorno il
Signor Marchese sarà egli. Poveretto! con due paroline però s'acqueta subito.
Lesta, lesta, signorina, perché mi sta guardando così come incantata? a
quest'ora ella dovrebb'esser fuori del nido».
Geltrude infatti desta per forza, non ancor ben certa di vegliare,
assalita ad un punto dalle memorie del giorno trascorso, dal pensiero di ciò
che si doveva fare in quello che cominciava, e dal cinguettio della governante,
stava cogli occhi socchiusi ed intenti come trasognata: quel destarsi era per
la sua mente come il dubbio barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero
diradamento nelle tenebre appena annunzia che il sole è sull'orizzonte, e a chi
guarda più attentamente il sole stesso appare come un disco bianco e leggiero
sospeso dietro le nuvole trasparenti.
Quelle esortazioni però fecero colpo assai, perché la vecchia aveva
toccato un tasto del quale essa stessa non conosceva tutta la forza. Il nome
del Marchesino aveva già fermata l'attenzione di Geltrude, ma quando dalle
parole della governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella mente
di Geltrude, tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a volo
come uno stormo di passere alla vista d'uno spauracchio, e non restò più a
Geltrude che la voglia di sbrigarsi, e di schivare quella collera. Geltrude,
bisogna confessarlo, non amava molto il fratello; e pei suoi modi aspri,
sprezzanti, e imperiosi, e perché di tutta la casa il Marchesino era quegli che
più sovente aveva il monastero in bocca; e perché le compiacenze e le
distinzioni dei parenti sopra di lui, la tenevano in uno stato continuo di
paragone umiliante. Lo temeva essa però, ma fino ad un certo tempo non quanto
egli avrebbe voluto: e come di lingua e d'ingegno, ella era meglio fornita di
lui, di quando in quando ella si vendicava con un motto di molti giorni di una
pesante persecuzione. Era quindi fra loro come un continuo stato di guerra. Ma
quando dopo la sua prigionia Geltrude comparve davanti al fratello carica d'un
fallo e d'un perdono, alzando timidamente gli occhi sulla faccia del fratello,
vi scorse una superiorità dalla quale non ebbe pure il pensiero di potersi
ribellar mai; si sentì soggiogata per sempre. Ed ora il solo pensare che il
fratello in un momento d'impazienza potesse profittare del vantaggio che ella
le aveva dato col suo fallo, per gittarle un motto, un rimprovero che alludesse
a quello, la faceva tremare. Si pose ella quindi a sedere in fretta, e pure in
fretta cominciò a vestirsi. Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel
pericolo era troppo lontano; che il fratello in un momento in cui sperava da
lei un tal sagrificio era ben lontano dal dir cosa che potesse offenderla; e
che alla fine per grossolano e sventato ch'egli fosse, non avrebbe scherzato
così di leggieri con l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio era tanto
vicino; ma un effetto dei falli si è appunto di render l'animo più soggetto a
timori non ragionevoli.
Geltrude si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve nella
sala dov'era radunata la famiglia ad aspettarla. Il Marchesino, al quale
corsero dapprima i suoi occhj, se ne stava tranquillo, senza dar segno
d'impazienza: la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto mostrava
nell'aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver
fatta una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo.
Il Marchese con lieto viso si fece incontro a Geltrude, e le disse. «Avete
scelto una bella giornata: buon augurio». «Buon augurio» ripeterono la Marchesa
e il Marchesino. Era preparata una sedia a bracciuoli, e il Marchese accennò
amorevolmente a Geltrude che vi sedesse, e perch'ella confusa stava alquanto in
forse: «qui, qui», diss'egli, «certamente: dopo la risoluzione che avete fatta
non siete più una ragazzetta: siete come un di noi». Appena Geltrude si fu
seduta, venne un servo che le presentò rispettosamente una tazza di ciocolatte.
Prendere il ciocolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto,
quello che presso ai romani assumere la veste virile: e tutte queste cerimonie
erano piccioli fili, che legavano sempre più la povera Geltrude. Essa non
confermava con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni
supponevano: non diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva
d'intorno a lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il
mover dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre
più apparenza di stranezza scandalosa. Preso il fatal ciocolatte, il Marchese
si alzò, pigliò Geltrude in disparte, e con aria di consiglio amorevole le
disse. «Orsù figlia mia, diportatevi bene: scioltezza, e buon garbo». E qui le
diede le istruzioni su quello che doveva fare e dire, e le fece ripetere la
formola della domanda. «Benissimo, a meraviglia» esclamò quindi e continuò:
«Quelle buone suore vi aspettano a braccia aperte; e non sanno nulla, nulla...
Non mi date in fanciullaggini, in pianti, non mi fate la Maddalena penitente,
guardatevi da un contegno che lasci sospettar qualche cosa: siate franca, e
mostrate di che sangue uscite. La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono
della famiglia; il vostro fallo è cancellato e dimenticato». Quand'anche
Geltrude avesse avuto il coraggio, che non aveva, di porre qualche ostacolo,
questo discorso, che le faceva sentire dove si sarebbe tosto portata la
quistione, l'avrebbe immediatamente disposta ad obbedire senz'altre
osservazioni. Ella arrossò, non rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si
gonfiarono; ma un «via via», detto risolutamente dal Marchese e l'apparire d'un
servo che annunziava che il cocchio era pronto, la costrinsero a farsi forza, e
a ricomporsi. Nello scender le scale, Geltrude fu servita da un bracciere; si
montò in cocchio, e si partì. Gl'impicci, le noje, e i pericoli del mondo, e la
vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo
furono il tema del discorso durante il tragitto. All'entrare nel borgo, al
vedere la porta del chiostro, Geltrude si sentì stringere il cuore, ma gli
occhi della famiglia erano sopra di lei; quando il cocchio si fermò Geltrude
guardando alla porta la vide già piena di curiosi; e lo studio di non far nulla
di sconvenevole la occupava tanto, ch'ella scese, e s'avviò quasi senz'altro
pensiero. Attraversando il cortile si vide la porta del chiostro aperta, e
tutta occupata dalle monache. In prima fila alcune anziane con la badessa nel
mezzo; dietro le altre alla rinfusa, quelle che erano immediatamente dopo le
prime cacciavano il volto tra l'una e l'altra, altre dietro ritte sulla punta
dei piedi; e per non tacer nulla, le converse in ultimo sollevate sopra
sgabelletti. Si vedevano pure qua e là luccicare più basso qualche paja di
occhj avidissimi, come al buco della chiave, ed apparire qua e là un po' di
volto mezzo ascoso: erano le più destre e le più animose delle educande che
serpendo tra una monaca e l'altra s'eran trovate un cantuccio per vedere
anch'esse qualche cosa: il che era in verità troppo giusto.
Geltrude come incantata giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed
animata dai parenti, e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa. È
inutile dire che questa era stata dal Marchese avvertita per un messo
straordinario della visita che avrebbe ricevuta e del perché. Geltrude fu
accolta dalla badessa e da tutte le suore con acclamazioni. Dopo i primi
saluti, la badessa nel modo con cui si fa per formalità una domanda della quale
è certa la risposta, le domandò che cosa ella desiderava in quel luogo dove non
v'era chi potesse nulla rifiutarle.
«Son qui...» cominciò a rispondere Geltrude, ma nel momento in cui ella
doveva manifestare con certezza un desiderio che era tutt'altro che certo nel
suo cuore, nel momento in cui le sue parole dovevano decidere quasi
irrevocabilmente del suo destino, il combattimento interno fu sì forte ch'ella
non potè proseguire, e ristette un istante guardando come incantata la badessa,
e la folla che la circondava. Così guatando ella vide distintamente alcune
delle sue compagne, e sulla parte che appariva di quelle faccette e più negli
occhi un'espressione mista di malizia e di compassione, che diceva chiaramente:
«Ah! c'è incappata la brava!» Questa vista le risvegliò in cuore tutta
l'avversione al chiostro, l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con
questi sentimenti un lampo di coraggio. E già ella stava cercando una risposta
diversa da quella che si aspettava da lei, cosa troppo difficile a trovarsi in
quella circostanza. Alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava di
fianco, per indovinare che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza, e come
per esperimentare le proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una
espressione sì minacciosa, che tutto il suo coraggio svanì. Pensò che la
resistenza, che il ritardo, l'avrebbero resa innanzi a tanti occhi un oggetto
di scandalo, di stupore, e di derisione, pensò al padre, al fratello, al mondo,
al paggio; si consolò riflettendo che dopo quella formalità le rimaneva ancora
una porta aperta per tornare indietro, che poteva guadagnar tempo, e che
avrebbe saputo approfittarne; e il partito il più facile, il più sicuro, il
meno terribile in quel momento le parve di dire, come fece: «Son qui a
domandare d'essere ammessa a vestir l'abito». Nel breve momento d'indugio
ch'ella aveva posto a finir la sua frase un silenzio solenne aveva regnato fra
gli astanti: le parole di Geltrude furono seguite da una acclamazione generale.
Chetato il tumulto, la badessa tutta sorridente, porse a memoria questa
risposta che le era stata data in iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo
dotto che aveva letti i celebri romanzi del Pasta: «Se il rispetto non ponesse
un freno agli affetti, io accuserei in questa circostanza di troppo rigore
quelle regole sapientissime che ci proibiscono di dare alcuna risposta a
domande di questa natura prima di averne ottenuta la licenza. Bensì senza
riguardi, accuseremo il tempo che coi suoi lenti passi ci ritarda il momento di
dare questa risposta desiderosa non meno che desiderata. E voi, carissima
figlia, con l'acume del vostro ingegno potrete intanto, dai segni esterni farvi
indovina della decisione che potete aspettarvi da tutte le nostre suore; e da
me umilissima superiora».
Le acclamazioni ricominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e
non a torto perché la gloria del capo si diffonde sugli inferiori.
La badessa, alla quale non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò
allora che la folla poteva essere incomoda, si rivolse ad una suora, e disse:
«Ehi suor Eusebia, date un po', una voce alla fattora, perché faccia sparire
tutto quel minuto popolo, e chiuda la porta di strada». L'ordine fu dato ed
eseguito: e il minuto popolo partì con dispiacere, ma con ammirazione. Geltrude
passava intanto dalle braccia della badessa a quelle d'una e d'un'altra suora;
e ognuna le faceva un complimento, il quale aveva in tutte a un di presso lo
stesso senso: — l'avevam sempre detto che sareste nostra —. Passato quel primo
impeto, la badessa pregò Geltrude e la famiglia di passare nel parlatorio. A
questa preghiera, le converse scesero dagli sgabelli, la folla si diradò, e la
badessa con alcune delle anziane si avviò al parlatorio per l'interno del
chiostro, mentre la famiglia milanese vi andava pel di fuori.
V'ha due modi di scendere il pendio della sventura: l'uno è di
capitombolare ad un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni in
più riprese: in questo secondo caso, ogni fermata è una specie di riposo; e
l'intervallo che passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato dalla
speranza. Geltrude sentì un certo sollievo d'essere uscita di quella stretta
comunque ne fosse uscita, e corse tosto col pensiero a proporsi di volere prima
di fare un altro passo meditar ben bene se le conveniva o no di progredire, e
di non lasciarsi cogliere così alla sprovveduta. Con questo pensiero ella fu condotta
nel parlatorio. Qui rinnovati i complimenti, la badessa pregò gli ospiti di
aggradire alcune cosucce, ch'ella faceva porre nella ruota da una conversa; la
quale dette il moto alla ruota, e ne rivolse la bocca verso il parlatorio
esteriore.
Due secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile: così che noi
crediamo di potere ormai senza indiscrezione manifestare che la ruota,
rivolgendosi, offerse agli sguardi, ed alle mani degli ospiti un gran bacile di
dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore malgrado gli ordini
ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale
esercizio. È da credersi che questi ordini non ottenessero un più grande
effetto in progresso di tempo, giacché questa fabbricazione durò fino ai nostri
giorni; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta severità tutte
le monache che si succedettero in questi due secoli; una tale censura sarebbe
anzi a dir vero non solo indiscreta, ma perfidamente ipocrita, perché chi
scrive ha mangiato egli stesso i dolci squisiti di fabbrica monastica, quando
ha potuto averne. Si parla soltanto di questo fatto, perché può dar luogo ad
una osservazione piccante: che vi ha talvolta delle leggi che non sono
eseguite.
Dopo un «oh!» come di sorpresa, dopo alquanto schermirsi, e lagnarsi
d'esser trattati in cerimonia, il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati
con atti che esprimevano l'ammirazione, somme lodi furon date con sentimento
molto, e rispinte con molta modestia.
Mentre la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano con alcune suore alle
varie riflessioni che può far nascere un bacile di dolci, e Geltrude era
costretta di rispondere come poteva ai complimenti che altre suore le facevano,
la madre badessa chiamò in disparte il Marchese ad un'altra grata.
«Signor Marchese... per adempire alle regole... per una pura formalità...
debbo dirle... che ogni volta che una figlia domanda d'essere ammessa... la
Superiora, quale io sono indegnamente... tiene obbligo di avvertire i parenti
che se mai essi forzassero la volontà della figlia incorrerebbero nella
scomunica... Mi scuserà...»
«Benissimo, benissimo, reverenda madre; troppo giusto: lodo la sua
esattezza. Ma già ella non può dubitare...»
«Oh! Pensi, Signor Marchese; non sono pur cose da dirsi: ho parlato per
mio dovere; ma s'immagini...»
«Certo, certo, madre badessa». Finito il qual breve dialogo, i due
interlocutori si separarono in fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il
continuarlo, e andarono a mescersi ognuno alla sua brigata. Dopo alcuni altri complimenti,
il Marchese si accomiatò, e Geltrude colle tenere espressioni della badessa,
con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio più stordita,
più incerta, più sopra pensiero di quello che fosse partita la mattina, ma con
un anello di più alla sua catena; e che anello!
Ma la badessa aveva ella qualche dubbio sulla libera elezione di
Geltrude, o prestava fede intera alle parole materiali ch'erano uscite dalla
bocca di lei? Il manoscritto non ne dice nulla; si perde invece a raccontare
lunghissimamente dei particolari nojosi che noi ommettiamo, intorno ad alcune
brighe del monastero, ad alcune rivalità, ad alcuni impegni, nei quali l'aver
fra le suore una figlia di famiglia potentissima poteva essere un gran
soccorso.