Appena cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano fare in risposta
alle riverenze delle suore che stavano sulla soglia a veder partire i signori,
e la nuova sorella, appena messo in moto il cigolante carrozzone, Geltrude fu
assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era portata, sul suo
contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache, sul giubilo di
queste per l'acquisto che facevano, e per conseguenza sulla felicità di che
Geltrude avrebbe goduto in loro compagnia. Ma tutti gli elogi non furono per
Geltrude. La Marchesa sbadigliando parlò con ammirazione della badessa: «Come
s'è portata!» diss'ella «non mi aspettava tanto; ah! che contegno! aah! che
dignità! aaah! che disinvoltura!»
«Sì, sì»: rispose il Marchese, «ma! Geltrude sarà altra cosa». Il
discorso sarebbe durato fino all'arrivo in città, se il Marchesino che ne era
nojato non l'avesse troncato per parlare dei divertimenti che Geltrude doveva
godere nell'intervallo fra la domanda e l'accettazione. E qui come conoscitore
espertissimo di tutto ciò che nella città e nei contorni era degno da vedersi,
egli ne anticipò a Geltrude larghe e variate descrizioni; e le parlò di molte
sposine ch'egli aveva incontrate nelle brigate, senza risparmiare la storia di
qualche grossa semplicità di taluna di esse, che aveva molto dato da ridere. Il
Marchese lasciava chiaccherare il figlio, perché in questa faccenda egli aveva
più da fare che da dire, e tutto ciò che gli risparmiava una occasione di
discorso, lo toglieva da un impaccio: quanto alla Marchesa, malgrado i trabalzi
che una carrozza di quei tempi dava in una strada di quei tempi, ella dormiva
saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che cosa vuol dire essere
svegliato tre ore prima del solito, e per occuparsi in cosa indifferente.
La Marchesa fu desta dal rimbombo dell'atrio di casa, e dall'improvviso
fermarsi della carozza. Scesi, e salite le scale, il Marchese intimò alla madre
e alla figlia che prima del pranzo dovessero porsi in assetto per andar subito
dopo a restituire la visita alle dame che avevano favorito la sera antecedente.
Detto e fatto; l'acconciatura, il pranzo, le visite si succedettero senza
interruzione; e la solita conversazione terminò la giornata. Dopo cena il
Marchese pose in campo il discorso dei divertimenti che si dovevano dare a
Geltrude, e delle conversazioni dove ella aveva ad esser presentata come
sposina. «Bisognerà pensare senza ritardo», soggiunse egli, «a scegliere per
Geltrude una madrina degna della nostra casa». La madrina, mio giovane lettore,
era una dama incaricata di condurre la sposina ai divertimenti, alle
conversazioni, di presentarla, e di vegliare sovr'essa. Siccome il Marchese
proferendo quelle ultime parole s'era voltato verso la Marchesa come
invitandola a proporre la dama che le fosse paruta più a proposito (atto per
parentesi che il Marchese faceva rarissimo) la Marchesa cominciò tosto: «Vi
sarebbe...» «No no», interruppe il Marchese, «la prima condizione d'una madrina
è ch'ella vada a genio della sposina; e benché l'uso universale e ragionevole
dia questa scelta ai parenti, pure Geltrude ha tanto giudizio che merita che si
faccia una eccezione per lei». E qui rivolto a Geltrude col piglio di chi fa
una grazia singolare, continuò: «Ognuna delle dame che avete visitate questa
mattina, e di quelle che si sono trovate questa sera alla conversazione, ha le
condizioni necessarie per esser madrina d'una figlia della nostra casa, e
ognuna si terrà onorata di esser preferita: scegliete».
Geltrude incerta com'era, e stanca e indispettita dei passi che le si
facevano fare sulla via del chiostro, non avrebbe voluto far nulla: ma la
grazia era offerta con tanto apparato ch'ella s'avvide che il rifiuto sarebbe
stato preso per un disprezzo; e nello stesso tempo non volle perdere quel
qualunque vantaggio che le dava il potere scegliere. Nominò dunque la dama che
in quel giorno le era più dell'altre piaciuta, quella cioè che le aveva fatte
più carezze d'ogni altra, che l'aveva lodata più d'ogni altra, che
nell'accoglierla e nel conversare con lei le aveva mostrato tutto
quell'aggradimento, quella famigliarità, quell'affetto che alle volte in una
prima conoscenza imita i modi d'una antica amicizia. La dama scelta da Geltrude
aveva da lungo tempo fatto assegnamento sul fratello di Geltrude per farne il
marito d'una sua figlia ch'ella amava assai. «Ben scelto, ben scelto», disse il
Marchese: «e Lei», proseguì verso la Marchesa, «andrà domani a farne la domanda
alla dama; e si ricordi di dire che la scelta è stata fatta da Geltrude: che
son certo che la dama aggradirà doppiamente la domanda».
Noi non terremo dietro a Geltrude nei divertimenti, e nelle conversazioni
a cui fu condotta o strascinata; né racconteremo tutte le impressioni e i
sentimenti dell'animo suo in queste spedizioni; poiché dovremmo ripetere tante
volte la stessa cosa, quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i
pentimenti, i sì e i no della sua mente, che furono infiniti.
Talvolta la pompa degli addobbi, lo splendore delle feste, la musica che
non esprime alcuna idea, e ne fa nascere a migliaja, quella esaltazione di
gioja che appare negli uomini radunati per divertirsi, e per dir tutto le
qualità auree di qualche giovane cavaliere che s'indovinavano al solo vederlo,
le comunicava una certa ebbrezza, una specie di entusiasmo che le faceva
proporre di soffrire ogni cosa piuttosto che di tornare all'ombra trista e
fredda del chiostro. Talvolta lo stordimento, la fatica, la seccaggine
dell'udire e la contenzione del rispondere le faceva parer dolce quel silenzio
e quella pace. Si destava talvolta piena ancora delle immagini splendide del
giorno trascorso; pensava al passo irrevocabile che stava per dare, e diceva
tra sè: — Oh che sproposito! — si sentiva un coraggio a tutta prova, e
prometteva di tornare indietro. La presenza del padre, o del Marchesino, una
cosa qualunque da farsi raffreddavano quel primo impeto; il quale alla sera si
trovava talvolta cangiato in un pieno abbattimento. Tornavano allora alla mente
le difficoltà, si pensava allora che se anche resistendo si avrebbe potuto
schivare il chiostro, non era da sperarsi il viver lieto del quale allora si
gustava una parte: perché si era in colpa, perché tutta la bonaccia presente
non era assicurata che da un perdono, e il perdono dalla risoluzione di
pigliare il velo. Come sarebbero andate le cose, se la risoluzione si fosse
ritrattata? e con quali parole ritrattarla? come cominciare? da che? Geltrude
ritirava lo sguardo da questo mare in tempesta, e rivolgendolo allora al
chiostro, il chiostro le pareva un porto.
Coltivava ella allora i sentimenti pii che potevano far piacere il
chiostro a chi l'avesse scelto volontariamente, e in quelli cercava di
riposare. Quando dopo questi momenti ella si trovava con la famiglia, o con
altri, diceva spontaneamente e con aria di posata fermezza, parole che dovevano
far credere che la sua scelta era liberissima. Tutte le volte poi ch'ella era
posta in una circostanza nella quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva
essere un nuovo attestato di questa sua scelta, ella faceva e diceva ciò che lo
poteva far credere, ciò che la impegnava sempre più. Benché alcune volte in
quelle circostanze, ella sentisse una manifesta ripugnanza all'impegnarsi
davantaggio, quantunque ella vedesse chiaramente che ciò ch'ella stava per fare
le rendeva più e più difficile il retrocedere, pure il dire o fare il contrario
l'avrebbe posta tutt'ad un tratto in una situazione così dura e così difficile,
ch'ella non poteva né pure pensare di farlo. Ella era come chi trovandosi sur
un ripido pendio, vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da farsi, e
quindi un luogo di riposo, e volgendosi indietro per guardare alla via che
bisognerebbe fare per risalire vedesse il principio d'una erta, lunga, dirotta,
disastrosa. E la povera Geltrude non dava passo che per discendere. Ma siccome
chi nuoce a se stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento
presente, non vuol mai confessare a se stesso tutto il male che si fa, né darsi
così tosto per perduto, e ad ogni male che si fa, si consola con l'idea d'un rimedio,
così anche Geltrude aveva trovato nella via che le restava da percorrere un
momento di più forte speranza. Questo momento era quello dell'esame che un
ecclesiastico deputato dal vicario delle monache doveva fare della sua
vocazione; esame nel quale ella si sarebbe trovata sola con lui, e nel quale
ella si teneva certa che qualche occasione si sarebbe offerta per potere
svilupparsi da quel laccio, se laccio era, e in ogni caso, di conoscere ella
stessa più chiaramente il suo animo, di deliberare sulla sua scelta più
posatamente, più sicuramente, di quello che potesse fare coi parenti già
risoluti senza deliberazione, e coi suoi pensieri troppo agitati, troppo
confusi, troppo inesperti per deliberare.
Il momento che Geltrude desiderava non senza qualche terrore, il Marchese
lo affrettava con istanze, perché, come si è detto, egli era uomo
esperimentato, e sapeva che a volere che un affare sia spicciato, bisogna
muoversi; e il momento venne. Un bel mattino il Marchese annunziò a Geltrude
che in quel giorno il Signor... ecclesiastico mandato dal vicario delle
monache, verrebbe ad esaminare la sua vocazione. Ma come quella conferenza
avrebbe avute conseguenze serie, e Geltrude vi doveva esser sola con
l'ecclesiastico, così il Marchese stimò che fosse necessario aggiungere
all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse una impressione nell'animo
della figlia, e le servisse di compagnia e di guardia nell'assenza forzata
d'ogni altro custode.
«Orsù, Geltrude», diss'egli; «finora voi vi siete diportata da angelo:
ora si tratta di coronar l'opera. Oggi voi dovete fare un gran passo; pensate
che da esso dipende l'onore di vostro padre, della famiglia, il vostro, e il
vostro destino di tutta la vita. Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto
di vostro consenso, anzi a vostra richiesta. Se in tutto questo frattempo vi
fosse nato qualche pentimento, qualche dubbio, avreste dovuto manifestarlo; ma
ora, voi ben vedete che non è più tempo di far ragazzate. Io mi sono impegnato,
in faccia al mondo, e mi sono impegnato perché voi mi avete dato motivo di
credere, di esser certo che poteva impegnarmi senza rischio di avere una
smentita. Ricordatevi che la più picciola esitazione che voi potreste mostrare
oggi, mi porrebbe nella necessità di scegliere fra due partiti dolorosi: o di
rinunziare alla mia riputazione, lasciando credere che io ho presa leggermente
una leggerezza vostra per una ferma risoluzione, che ho fatte tante pubblicità
senza riflessione... che so io... che ho preteso far violenza alla vostra
vocazione... o di svelare i veri motivi della richiesta che voi avete fatta, e
del vostro pentimento. Il primo partito non può assolutamente stare con ciò che
debbo a me e alla casa. Astretto di appigliarmi al secondo, dovrei anche poi
trattarvi come una figlia colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono
con un'altra gravissima colpa...»
Il tuono solenne e misterioso con cui il Marchese aveva cominciato il suo
discorso aveva già messa in apprensione Geltrude: e nella angoscia
dell'aspettazione i tratti del suo volto erano immobili, tesi, ravvolti come le
foglie d'un fiore nell'afa che precede la burasca: ma la gragnuola assidua e
crescente di quelle parole minacciose percotendola, la abbattè affatto, e la fè
sciogliere in uno scoppio di pianto. «Via via... che è stato?» disse
avvedendosene il Marchese, il quale era in quella faccenda tanto occupato delle
conseguenze che ella poteva avere per lui che non pensava che ella potesse
toccare altri tanto sul vivo. «Che è stato? io ho parlato in una supposizione
impossibile... pure doveva pensare anche ad un tal caso... per quanto giudizio
abbiate, io doveva mettervi in avviso sull'importanza delle risposte che oggi
siete per dare. Il Signor... vi domanderà se la vostra risoluzione è libera, se
i parenti non vi hanno comandato, consigliato... che so io?... ed io doveva
avvisare di pesare ben bene la risposta, perché ella sia tale da non pormi
nella necessità, di farne un'altra io, e... ma via, via, le son ciarle; voi
farete il vostro dovere da brava, come avete fatto finora; e non si parlerà tra
di noi che di consolazioni. Via non piangete, ricomponetevi, io vi lascio sola:
rasserenatevi, non fate che il Signor... vi trovi in uno stato che possa dare
dei sospetti... mi fido di voi». Così dicendo partì, lasciando Geltrude a tutta
l'agitazione che poteva dare un tal discorso ad una giovane del suo carattere
in quella circostanza. Geltrude pianse amaramente, si sdegnò, volle meditare su
quello che aveva a dire; ma questa meditazione era così piena di dolori, di
incertezze, e d'angustie, che la poveretta prescelse di divertirne a forza il
pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di estraneo, e di aspettare il consiglio
dalla cosa stessa e dal momento. Ma qual si fosse il partito al quale ella
dovesse appigliarsi nell'abboccamento, ella stessa sentiva ripugnanza e
vergogna a presentarvisi in un aspetto che annunziasse una qualche
perturbazione, e risolvette di avere un aspetto tranquillo e decente; e lo ebbe
in brevissimo tempo. Pretendono alcuni che le figlie d'Adamo riescano molto meglio
a dominare l'espressione esterna del loro animo che l'animo stesso; e che in
questa parte riescano meglio assai che non quegli individui del genere umano
che si chiamano di preferenza uomini. Ma tutte queste quistioni di paragone tra
l'un sesso e l'altro, non saranno mai messe in chiaro, e né pure ben poste fin
che gli uomini soli ne tratteranno ex professo negli scritti: giacché essi
peccano tutti verso le donne o di galanteria adulatoria, o di ostilità
grossolana. Con questa osservazione non s'intende già di sprezzare
temerariamente tante opere profonde che sono state scritte sul merito
comparativo del bel sesso, e le riflessioni infinite e bellissime su questo
argomento che sono sparse in tante altre opere; ma per quanto una materia sia
stata egregiamente trattata, è sempre lecito di desiderare qualche cosa di più.
«Il Signor...!» A questo annunzio Geltrude balzò in piedi vergognosa, e
agitata, facendogli le accoglienze che usano le persone vergognose e agitate.
Il Marchese lo accompagnava, e dato uno sguardo a Geltrude si ritirò: la
madrina passò nella stanza vicina: la porta di comunicazione aperta in modo che
ella potesse da quella vedere e non intendere.
I lettori d'una storia hanno il privilegio di conoscere i personaggi
prima di vederli operare, di sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni
per cui la lettura d'una storia è molte volte più chiara e meno difficoltosa
che la condotta negli affari della vita. Per servire a questo privilegio noi
diremo qualche cosa del Signor...
Era un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale, che gli pareva la cosa
la più naturale del mondo: siccome ve n'aveva sempre nelle sue intenzioni e
nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e nelle azioni
degli altri: nel che il buon uomo aveva torto. Non vogliam dire con questo
ch'egli avrebbe dovuto giudicare sfavorevolmente degli altri, supporre il male,
attenersi a quell'indegno proverbio che dice, — chi pensa male pensa una volta
sola —: ohibò: questo è un eccesso più comune, e peggiore. Avrebbe dovuto
lasciar di giudicare nelle cose che non lo toccavano; e in quelle nelle quali
il suo giudizio doveva influire sulla sorte altrui, avrebbe dovuto sospenderlo
fino a tanto che da un attento esame egli avesse potuto formarlo, buono o
tristo, ma con quella maggior certezza che è data a quello stromento guasto che
si chiama ragione umana. Il caso di Geltrude mostrerà come egli avesse il torto
di pensar bene prima di pensare. Il Marchese parlandogli della figlia ch'egli
aveva ad esaminare ne aveva esaltata la pietà, l'amore del ritiro, il desiderio
di conservarsi nel chiostro per esser pura e santa. Il Signor... aveva creduto
con gioja al primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame nel
quale si trattava di decidere se la vocazione era vera o falsa colla
prevenzione dolcissima ch'ella era vera: il buon uomo si consolava di avere a
sentire l'espressione di un animo pio e fervente, di godere dello spettacolo di
una buona risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la
risoluzione esisteva. — Oh! — dirà taluno, — se egli non avesse creduto al
Marchese, avrebbe dovuto supporre così di primo slancio che Geltrude era una
finta, o il Marchese un tiranno impostore. E doveva egli pensar così senza
alcun fondamento? — Ohibò, di nuovo: non doveva pensar nulla; vi pare egli cosa
tanto difficile? Ma per non averlo saputo fare, il buon uomo preparò l'animo
suo nulla più che ad adempiere una cerimonia, una formalità, e faceva
tutt'altro; e doveva saperlo. Il Signor... pregò Geltrude di riporsi a sedere,
sedette, e vedendo in essa quella leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi
in quel caso, pensò di rincorarla con un modo scherzevole, e le disse:
«Signorina, vedo che le fo paura: non me ne maraviglio: io vengo a fare la
parte del diavolo; perché ella saprà che io debbo ora mettere in dubbio quella
risoluzione che a lei forse pare certa, ferma, irrevocabile; io debbo ora farle
guardare attentamente il rovescio della medaglia, al quale ella forse non ha
mai pensato; io debbo interrogarla minutamente, per esser certo che ella non
pigli qualche illusione per ispirazione».
«Signore», rispose Geltrude, realmente rincorata dalle parole e dal tuono
del buon uomo, «io ho desiderato ardentemente questo abboccamento. Da questo
dipende la scelta della mia vita e io spero che da ciò che io sentirò da lei,
da ciò che io le risponderò, verrò io stessa a conoscere più chiaramente quale
sia la mia vocazione».
«Bene, bene», rispose con gioja e quasi con ammirazione il Signor...
«così mi piace. Quelle proteste veementi, quelle affermazioni enfatiche alla
prima sono talvolta fuochi di paglia; fervori di fantasia. Per decidere bisogna
dubitare, o fare come se si dubitasse. La prego, per ora, si faccia forza: per
quanto ella credesse di aver risoluto, torni da capo e si metta bene in testa
che si tratta di risolvere ora. Il mio dovere è d'interrogarla su molti capi, e
si compiaccia di rispondermi con semplicità e con riflessione. Come le è venuta
questa risoluzione di abbandonare il mondo, e di farsi monaca?»
Se il buon ecclesiastico avesse avuta l'intenzione di aflliggere, di
umiliare, e di confondere Geltrude, non avrebbe potuto scegliere una
interrogazione più opportuna di questa: ma egli era ben lontano dal supporre
l'effetto ch'ella doveva produrre, e l'aveva fatta nella semplicità del suo
cuore, e per adempire alle regole del suo uficio, che la prescrivevano.
Geltrude rimase come colpita: che rispondere? parlare della cagione vera e
primaria, raccontare l'istoria del paggio?... Dio liberi! Quella storia ella
voleva schivarla a tutto costo. Ma tacendola, come spiegare la sua domanda di
farsi monaca, e tutti i passi conformi a quella domanda? Addurre violenze,
minacce dei parenti? Ma non ne avevano usate, e questa menzogna (giacché in
quel momento Geltrude era disposta a farne una, e pensava solo a scegliere
quella che l'avrebbe cavata più presto d'impaccio, e che non sarebbe stata
scoperta in seguito) questa menzogna avrebbe certamente cagionata una
spiegazione, che sarebbe tutta tornata in disonore di Geltrude. Che s'ella
avesse attribuita la sua risoluzione al desiderio di compiacere ai parenti, ai
loro consigli, a leggerezza propria, la spiegazione diventava pure inevitabile;
e in quel momento le parole che Geltrude aveva intese poco prima dal padre, le
ripassarono in processione nella memoria. Le parve dunque che il solo mezzo per
uscire da quel gineprajo fosse di dare una risposta che piacesse
all'interrogante, e al padre, che non lasciasse oscurità né punti da discutere
nell'avvenire: sentì che per dare una tal risposta bisognava mostrare che la
risoluzione fosse tuttavia ferma; vide le conseguenze, ma ci si risolse.
Avvezza com'era a trarsi dalle circostanze difficili con ripieghi che la
ponevano in circostanze più difficili ancora, a consumare per dir così il tempo
avvenire per vivere in quel momento, ella cedette all'abitudine, e alla
difficoltà, mentì contra se stessa, e disse: «È la mia vocazione: fino dai miei
primi anni io mi sono sentita inclinata a servir Dio nel chiostro lontano dai
pericoli e dalle cure del mondo». Queste parole furon porte con l'apparenza
della più ferma persuasione; e l'indugio ch'ella aveva posto al rispondere,
parve al Signor... un segno una prova di riflessione posata. E in quel momento
furon contenti ambedue: egli di vedere una così buona disposizione, ella di
essere uscita d'impaccio come che fosse. Da quel momento Geltrude non pensò
nelle altre risposte che a confermare la prima; e edificò il Signor... oltre
ogni sua speranza. Quando egli le chiese se i parenti non avessero usate minacce
o troppo instanti preghiere per determinarla alla scelta dello stato
religioso... «No no»; rispose con vivacità Geltrude: «i miei parenti desiderano
certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera, mi hanno lasciata
libera». Il Signor... si scusò di averle fatta una simile interrogazione. «Il
Signor Marchese», diss'egli, «quel cavaliere così degno! s'immagini s'io posso
pensare di lui una cosa simile! ma, io ho fatto il mio dovere, per quanto
strano mi paresse in questa circostanza». L'esame finì con le giulive
congratulazioni del Signor..., il quale come per iscaricarsi la coscienza di
aver fatto qualche cosa per distorre un'anima buona da un pio proponimento, le
disse tutto ciò che gli suggeriva il suo zelo cordiale per confermarla in
quello; e partì con la persuasione di non aver mai trovata un'anima così ben
disposta. Del resto noi siamo ben lontani dal dare l'unica colpa, e nemmeno la
primaria della riuscita di quell'esame all'ingegno corrivo del buon uomo. Coi
tristi antecedenti di Geltrude, e col suo carattere, la cosa doveva avere a un
di presso quell'esito, qualunque fosse l'esaminatore.
Geltrude, ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che avea
passato, che dal pensiero dell'impegno che avea preso, corse tosto dal Padre.
Questi era in uno stato di aspettazione inquieta: ma Geltrude tutta commossa
(le commozioni si scambiano facilmente non solo da chi le osserva, ma da chi le
prova) gli raccontò frettolosamente l'esito della conferenza; e il Marchese
respirò. Le fece animo, la colmò di lodi, la soffocò di promesse; tutto questo
con una eloquenza di tenerezza sentita; giacché in quel punto egli era lieto
non solo di avere ottenuto il suo fine; ma le parole di Geltrude sembravano di
chi ha liberamente scelto, ed è contento della sua scelta; e la benevolenza per
chi fa quello che uno desidera, in modo da togliergli ogni inquietudine ed ogni
rimorso, è una virtù concessa a tutto il genere umano.
Da quel giorno in poi Geltrude non ebbe più che due occupazioni; l'una
interiore, ed era di persuadere a se stessa ch'ella era contenta della sua
scelta, di fermarsi quanto più poteva su le immaginazioni che potevano renderle
gradevole il monastero, di cercare un po' nella divozione, un po' nel pensiero
delle distinzioni che vi avrebbe avute, consolazioni, celesti o mondane, tutto
purché fosse consolazioni. L'altra occupazione era di accelerare quanto più si
poteva tutte le operazioni preliminari alla vestizione, per uscir di casa, per
esser chiusa una volta, per precludersi ogni strada al tornare addietro, per
non sentirsi più nascere in cuore quell'intollerabile: — potrei forse ancora —.
Questo suo desiderio s'accordava troppo con quelli del Marchese perch'egli non
cercasse ogni via di soddisfarlo; e in fatti egli sollecitò a tempo e a contrattempo
tutte le dispense per far presto.
Così mi sembra che sarà bene che facciamo pur noi in questo racconto.
Diremo dunque che Geltrude entrò nel monastero di Monza, e che assunse l'abito;
che scorso il tempo del noviziato nel quale la sua risoluzione parve sempre più
spontanea e ferma, perché ella mostrava tutto ciò che poteva farlo credere, e
divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far credere il contrario,
trascorso questo tempo, ella fece la solenne professione, con una pompa
straordinaria, e quale si conveniva alla casa. Il sacrificio fu consumato, il
dono fu posto su l'altare, ma era di frutti della terra; la mano che ve lo
aveva posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del cielo non
discese sovr'esso.
È uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione
cristiana, di potere in qualunque circostanza dare all'uomo che ricorra ad
essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell'animo. Quegli stesso, che per
violenza altrui o per suo fallo, o per sua malizia s'è posto in una via falsa
può ad ogni momento approfittare di questi beneficj. Poiché, se la via ch'egli
ha intrapresa è iniqua, la religione glielo fa conoscere, gli dà l'idea chiara
ed assoluta del dovere ch'egli ha di ritrarsene, e la forza di farlo, che che
ne possa conseguire; e se la via è soltanto difficile, pericolosa, spiacevole,
ma senza adito al ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in
essa, la religione cava un motivo e dei mezzi per renderla regolare,
praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente, soave e deliziosa.
Disapprovando i motivi che l'hanno fatta intraprendere, perché erano falsi,
essa ne somministra un altro nuovo ed inconcusso per continuarla, e dà ad una
scelta temeraria o infelice ma irrevocabile, tutta la santità, tutti i
conforti, tutta la sapienza della vocazione. Con quest'ajuto Geltrude a
malgrado della perfidia altrui, e dei suoi errori d'ogni genere avrebbe potuto
divenire una monaca santa, e contenta: e il secolo stesso anzi l'età in cui
ella visse ha dato esempj dei quali si è conservata la memoria, di donne che
strascinate al chiostro con l'arte e con la forza, e dopo d'essersi per alcun
tempo dibattute come vittime sotto la scure, vi trovarono la rassegnazione e la
pace; una pace quale si trova di rado negli stati eletti più liberamente. Che
dico? Geltrude stessa fu uno di questi esempj, e insigne; ma ben tardi e dopo
aver commessi ben altri errori anzi delitti, dopo sofferta ben altra forza che
quella di cui abbiamo parlato. Ma per non precorrere ora agli eventi col
racconto, diremo che Geltrude dopo la sua professione, continuava ad opporre
nel suo cuore un ostacolo ai rimedj e alle consolazioni che la religione
avrebbe date alla sua sciagurata condizione: e questo ostacolo erano le
consolazioni ch'ella andava cercando altrove, e particolarmente nelle cose che
potevano lusingare il suo orgoglio.
Il lettore non avrà forse dimenticato che la famiglia onde usciva
Geltrude era molto potente, e che questa era la cagione principale per cui ella
era stata tanto desiderata nel monastero. In fatti il monastero aveva
acquistato nel marchese Matteo un protettore dichiarato il quale risguardava
ormai come parte del suo onore l'onore del luogo dove si trovava una sua
figlia. Ma questo vantaggio le suore lo pagavano, e per verità la cosa era
giusta. Lo pagavano in tanti sgarbi, in tanti scherni, in tante fantasticaggini
che avevano a sopportare da Geltrude, la quale, ricordandosi di tempo in tempo
delle arti usate da quelle per ajutare a tirarla in quel luogo dove di tempo in
tempo ella non si poteva patire, si sfogava avventando beccate agli uccelli che
avevano cantato per farla venire nella loro gabbia. E queste beccatelle le
suore le toccavano senza risentirsene, per non perdere tutto il frutto del loro
acquisto. Geltrude vedendosi così distinta, così sopportata, tanto più libera
delle altre provava talvolta un certo conforto iracondo nel valersi di questi
vantaggi, e nell'esercitare in tal modo la sua superiorità. Una superiorità
d'un altro genere era pure per essa una occasione continua di cercare
consolazioni nell'amor proprio, ed era la sua bellezza: ma quali consolazioni,
per amor del cielo! pari a quelle che provava Robinson nella sua isola in
contemplare le monete ch'egli aveva trovate nei frantumi del vascello sul quale
era naufragato. Anzi non pari, perché quel solitario le gettò in disparte con
disprezzo, dopo d'aver fatto ad esse un'apostrofe su la loro inutilità, e non
vi pensò più; ma la bellezza era per Geltrude un rodimento continuo, una
occasione di regressi affannosi nel passato, e di sguardi disperati
nell'avvenire. Ben è vero che ella si andava paragonando con le altre, e si
trovava più bella, ch'ella rideva di tratto in tratto, e si sarebbe creduto
ch'ella ridesse di voglia, degli occhi sciarpellati della madre badessa, e del
mento incartocciato della madre celleraria, ma in verità che quel riso non
lasciava alla poveretta il dolce in bocca. Spendeva una parte del suo tempo
nell'adornarsi come poteva, e così ingannava alcun poco la sua noja; cercava di
ridurre l'abbigliamento monastico alle fogge secolaresche, o di accordarlo
all'aria del suo volto, e a dir vero questo le riusciva facilmente perché la
natura le aveva dato un volto che per poco che gli si lavorasse attorno stava
bene. Per far questo aveva Geltrude trovato un mezzo molto ingegnoso. Gli
specchj come ognun sa erano proibiti nei chiostri come i lumi nelle polveriere,
e Geltrude nei primi tempi non osava ancora, come fece in appresso, conculcare
tutte le regole; ma la infelice scaltrita aveva fatta porre dietro ad un
quadretto ch'ella teneva appeso nella sua camera una lastra di latta
levigatissima, e a quella si consultava segretamente. Ma quando dalle sue
consulte ella aveva conchiuso che anche in quell'abito ella era avvenente
assai, quand'anche ella se lo udiva ripetere dalle più mondane o dalle più
adulatrici fra le sue compagne, il suo cuore ne rimaneva tutt'altro che
soddisfatto. E quando poi il suo cuore le rinfacciava anche quella poca parte
di piacere così mescolato e corrotto ch'ella aveva gustato, ella sentiva più
rabbia che pentimento. Così la meschina si precludeva l'adito alle consolazioni
reali di cui il suo stato era ancora capace, perché per giungere a quelle la
prima condizione è di non curare il resto; come il naufrago, che vuole afferrare
la tavola galleggiante che può condurlo in salvamento sulla riva, deve pure
sciogliere il pugno e abbandonare le alghe e gli sterpi nuotanti che aveva
abbrancati, per una rabbia d'istinto.
Ad essere badessa si richiedeva l'età di quarant'anni; e quest'erba, per
magra che fosse, era pure anco ben lunge dal becco di Geltrude. Ma oltre le
distinzioni e le franchigie per così dire ch'ella godeva per la condiscendenza
delle suore, e delle superiore, le era tosto stato conferito il grado più
elevato che fosse compatibile con la sua giovinezza: era stata eletta Maestra
delle educande. E per una distinzione singolare le erano state assegnate due
giovani suore converse, le quali erano come ai suoi servizj, quasi damigelle.
Quel posto era per Geltrude una occasione continua di esercitare le passioni
più pericolose ch'ella covava. Fra le educande che le erano state affidate si
trovavano ancora alcune di quelle che le erano state compagne, e Geltrude così
vicina ad esse di età non aveva ancora dimenticati i risentimenti e le rivalità
puerili del sodalizio: ed ora gli sfogava talvolta con tutta la forza che le
dava la sua autorità. Nei momenti spesso assai lunghi di tristezza e di
pentimento dello stato che aveva abbracciato, ella provava un certo rancore
contra quelle giovanette destinate per la più parte ad una vita libera e
splendida che non era più per lei; le risguardava come nemiche, le spiaceva di
vederle liete d'una letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto
per toglierla loro, cosa assai facile ad una superiora. Sentiva ella bene la
pazza ingiustizia di questa sua passione, ma vi si abbandonava. E in quei
momenti, poverette quelle educande! Talvolta dopo d'aver lasciato tornare
indietro il suo pensiero nei diletti del mondo, dopo avervelo lasciato riposare
per lungo tempo, ella ne sorprendeva alcune che parlavano fra di loro di ciò
ch'ella aveva pensato, e allora chi l'avesse udita sgridarle ferocemente,
l'avrebbe creduta invasa d'uno zelo inconsiderato, e d'una staccatezza
indiscreta e antisociale. Talvolta invece predominava nell'animo suo l'orrore
al chiostro, alle regole, alla disciplina, all'obbedienza, alla solitudine, a
tutte quelle cose in mezzo delle quali ella si trovava per forza, e allora non
solo ella sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma la animava;
si mesceva ai loro giuochi, e gli rendeva più liberi; entrava nei loro
discorsi, e gli portava al di là delle intenzioni con le quali esse gli avevano
incominciati.
In queste agitazioni, in questo stato di guerra continua con se stessa, e
con ogni cosa circostante ella passò i primi anni del chiostro, non senza
qualche ritorno di divozione, e di regolarità temporaria, dal quale ricadeva
ben presto nelle sue abitudini predominanti. Questa vita di noja e di contrasto
era tanto penosa, che, senza forse esserne ben conscia a se stessa, ella si
trovava disposta ad abbracciare qualunque distrazione, qualunque cangiamento di
sensazioni fosse stato possibile. Ma la clausura, le grate, le regole, la
facevano camminare con una regolarità esteriore; i suoi pensieri soltanto
vagavano in piena licenza; ma non v'era una occasione per concedere
impunemente, o con lusinga d'impunità una simile licenza alle sue azioni.
Finalmente la sventura di Geltrude volle che l'occasione si presentasse; e Geltrude
si portò in quella come era da temersi, e come diremo nel seguente capitolo.