Come una troppa di segugi dopo aver tracciata invano una lepre, ritorna
sbaldanzita con le code pendenti, verso il padrone; paventosa di lui, ma pronta
ad abbajare e a ringhiare per dispetto contra ogni altro in cui si abbatta per
via; così in quella notte romorosa tornavano gli scherani con gli artigli vuoti
al castello di Don Rodrigo; dove convien tornare a noi pure, messa in salvo alla
meglio la bella fera che quel birbone inseguiva. Don Rodrigo passeggiava
inquieto aspettando il ritorno de' suoi bravi, aprendo di tempo in tempo la
finestra, e guardando al lume della luna e tendendo l'orecchio. Fremeva
d'impazienza, che la spedizione tornasse, ma in questa impazienza misto al
desiderio v'era anche un po' di terrore; perché questa era la più grossa che
Don Rodrigo avesse fatta fino allora. Se allo sparire di Lucia, il rapitore
fosse stato conosciuto, se la fama ne fosse giunta a Milano, l'affare poteva
esser serio: il governatore avrebbe potuto pubblicare un bando contra il
rapitore, come accadeva talvolta in simili casi, promettendo un premio a chi lo
desse vivo o morto nelle mani della giustizia. Veramente Don Rodrigo aveva
veduto passeggiare sicuramente più d'uno colpito da un tal bando; e sapeva
d'aver egli pure i mezzi di questa sicurezza, perché cinto da scherani, e
temuto com'era, nessuno avrebbe voluto per un premio torsi un'impresa come
quella di attaccarlo, e porre la vita a certissimo pericolo: pure un bando era
almeno una seccatura forte.
Dall'altra parte pensava egli che essendo gli offesi povera gente,
nessuno si sarebbe curato di prendere impegno per essi... Ma c'era di mezzo
quel benedetto frate (Don Rodrigo non diceva veramente benedetto) quel frate
che era un brigante, un ficcanaso, uno che si dilettava d'impacciarsi nei fatti
altrui, e che avrebbe potuto trovare appoggi, far comparire le cose... Ma anche
pel frate v'erano rimedj, e si poteva combatterlo con le stesse sue armi
d'impegni, e di brighe. — Quel che importa per ora, — continuava Don Rodrigo, —
è che il Griso faccia il suo dovere, e che questa smorfiosetta non mi faccia
uno scandalo che levi a romore il paese. Diavolo! Ho avuto un pensiero molto
ardito; ma quel che è fatto è fatto, e non mi voglio ora ritirare per bacco!
Non voglio? non posso: coraggio coraggio Don Rodrigo! bisogna ammansarla con le
buone; la madre?... eh quando vedrà dei bei danari lampanti: e poi osi un po'
far chiasso: vorrei vedere!... Il parroco non fiaterà... ha già avuta una bella
paura, ed ora sarebbe anch'egli in colpa... eh già colui è un birbone che
farebbe di tutto per salvar la pelle... Non vengono costoro?... Sta a vedere
che si saranno ubbriacati... No no il Griso non è un ragazzo, e avrà condotte
le cose con giudizio: non è mica una bagattella... non vorrei che me la
malmenasse: non è avvezzo a spedizioni di questa sorte: ha sempre avuto che
fare con uomini... basta gli ho fatta una buona ammonizione. Stà... per bacco,
è la mia gente... — Così pensando corse alla finestra, e vide i segugj venir
quatti quatti, col Griso alla testa: tese l'occhio, per distinguere fra essi la
lepre, ma la lepre non v'era.
— Diavolo!... diavolo! diavolo! Il Griso me ne darà conto.
Aperta ai bravi la porta dal loro compagno che vi stava a guardia, ed
entrati e andati a riposare com'era giusto, perché il riposo è dovuto alla
fatica tollerata, non all'effetto ottenuto, il Griso come portava la sua
carica, che in quel momento nessuno degli altri gl'invidiava, salì in fretta a
render conto a Don Rodrigo.
«Ebbene?» disse tosto questi dispettoso: «ebbene? signor bravo, signor
capitano, signor spaccone...»
«È dura», rispose il Griso con rispetto, ma non senza rancore, «è dura di
sentir rimproveri dopo aver faticato fedelmente, e cercato di fare il suo
dovere...»
«Ma dunque?...»
Il Griso si fece da capo, e raccontò tutti i preparativi, come la
spedizione era ben condotta, e come la casa fu trovata vuota, e come sonò a
stormo senza ch'egli potesse ben saperne il perché, e come si era tornati senza
aver fatto nulla, ma senza aver lasciato traccia.
«Mancomale» rispose Don Rodrigo; e si posero a far congetture senza
potersi fermare ad una che li accontentasse. «Basta», conchiuse Don Rodrigo:
«domani piglia informazioni; sarà meglio che mandi uno dei contadini fidati,
nella bettola più vicina alla casa di Lucia, tanto che domani io vegga la cosa
chiara». Così congedò il Griso che se ne andò anch'egli a dormire.
Dormi, povero Griso, dormi che tu devi averne bisogno. Povero Griso!
Correre qua e là tutto il giorno, stare all'agguato, dirigere una mano di
zotici mal disciplinati, pigliar sopra di te tutto il pensiero, e tanta parte
della fatica; porti a rischio di aver qualche nuovo disparere con la giustizia,
e di veder questa volta messo a prezzo il tuo capo, per rapto di donna
honesta; stare al caldo e al gelo; e poi, e poi raccoglier rimbrotti. Ma tu
non cominci oggi a vivere, e devi sapere che il mondo è tristo, che gli uomini
sono ingrati. Va a riposarti, povero Griso: un giorno poi, quando ti porrai a
letto per morire, se a letto morrai; forse questa giornata ti verrà in mente;
forse il pensiero di non aver potuto oggi farti onore, e di essere stato
sgridato per ricompensa, sarà quello che ti darà meno di gravezza. Ma non
pensare ora a questo, perché forse non dormiresti.
All'aurora il Griso fu in campo, tutto desideroso di venire in chiaro di
ciò che fosse avvenuto di Lucia, per soddisfare alla curiosità del padrone e
alla sua propria, e per avvisare i mezzi di riparare alla mala riuscita del
giorno antecedente. Non era la sola vanità né il dispetto che stimolavano il
Griso; ma v'entrava la riconoscenza per Don Rodrigo che lo aveva posto, e lo
teneva sotto le sue ali in salvo dalla giustizia, e che gli dava facoltà di camminare
francamente, e di farsi temere; da questa riconoscenza era nato nel suo cuore
un affetto, un attaccamento per Don Rodrigo, che i rimproveri, e le asprezze di
questo potevano affliggere, ma non distruggere; né rendere inoperoso. Scelse
adunque il Griso gli uomini più opportuni a raccogliere notizie, e gli spedì
attorno, ed egli stesso andò, per ispiare schiarimenti sui fatti misteriosi
della notte trascorsa.
Ma gli abitanti del villaggio che s'erano trovati in quel trambusto, non
ne sapevano essi stessi la cagione, e quello che avevano veduto non era per
essi che una sorgente di curiosità, o al più un motivo di congetture e di
fandonie. Quando il mattino rivelò la fuga di Lucia e di sua madre e di Fermo,
i sospetti divennero ancor più complicati, e la curiosità più animata: ognuno
domandava a tutti quelli in cui si abbatteva, e se ne formarono come accade
molte storie, perché s'ignorava la vera. Quei pochi che la sapevano o tutta o
in parte, e che avrebbero potuto soddisfare o almeno metter sulla via la curiosità
degli altri, quei pochi se ne stavano zitti, e si facevano più nuovi degli
altri. Toni fece un severo precetto a Gervaso e alle sue donne di non parlare,
e fu egli stesso molto fedele a questo suo precetto di cui sentiva
l'importanza; appena uno sperimentato osservatore avrebbe potuto arguire
ch'egli sapeva qualche cosa più degli altri dal poco chiedere ch'egli faceva, e
dal suo ristringersi nelle spalle protestando di non saper nulla quando altri
ne lo chiedeva. «Io attendo ai fatti miei», rispondeva Toni, «che volete ch'io
sappia?» Don Abbondio era ricorso al suo ripiego diplomatico di porsi a letto e
di sviare così i curiosi. Se ne stava egli ora cheto cheto, maladicendo la mala
ventura, che negli ultimi suoi giorni gli faceva scontare quel poco di bene che
aveva goduto negli anni passati, e rendeva inutili tutte le cure della sua
prudenza. Di tempo in tempo rimbrottava Perpetua e accagionava della sua
disgrazia la cervellinaggine di quella. Ma Perpetua non penuriava di argomenti
per provare al padrone che la colpa doveva ricadere tutta sopra di lui; e il
combattimento finiva per stanchezza d'ambe le parti. Questi piati però non
uscivano dalle mura di Don Abbondio, perché era interesse troppo evidente
d'ambe le parti di sopire l'affare e di stornare i sospetti dalla verità. Ma
tra coloro che erano stati in parte testimonj ed attori di tutta quella scena
ve n'era uno a cui l'esperienza non aveva potuto ancora dare le profonde idee
di prudenza che il tempo e i casi avevano apprese a Toni e a Don Abbondio. Sa
il cielo se il lettore si ricorda di quel garzoncello spedito da Agnese al
Padre Cristoforo, e mandato da questo ad avvertire Lucia del pericolo che le
soprastava, di quel picciolo Menico che era stato nelle tenebre guida dei
fuggitivi. Menico il quale era pur dolente della fuga delle sue parenti, ma che
almeno in questa sventura aveva avuta la felice occasione di far qualche cosa,
non ebbe pace finché non confidò quello che aveva fatto a dei ragazzi suoi
coetanei, i quali venivano a contargli le congetture che avevano intese, e ai
quali egli aveva da raccontare qualche cosa di più fondato. I ragazzi corsero a
casa, e si seppe tosto che Lucia, Agnese e Fermo erano andati la notte al
convento. Le congetture divennero allora un po' più uniformi e più fondate,
giacché tutti avevano qualche sentore della turpe caccia che Don Rodrigo dava a
Lucia.
Gli spioni del Griso riseppero tosto con gli altri queste particolarità;
e il Griso gli spedì tosto a Pescarenico per cavare più sicure notizie.
I barcajuoli avevano detto qualche cosa. Povera gente! avevano cooperato
ad un'opera buona, e l'assoluto silenzio era un peso troppo difficile da
portarsi. Si riseppe dunque che i fuggitivi avevano attraversato il lago, e che
avevano continuato il loro viaggio per terra. Queste cose vennero pure agli
orecchi del Griso, il quale potè annunziare a Don Rodrigo che poco mancava a
sapere su che albero l'uccello fosse andato a posarsi.
Don Rodrigo era uscito quella mattina col conte Attilio e col solito
seguito di bravi, e s'erano aggirati pei campi e per le ville con l'apparenza
d'andare a caccia ma con l'intenzione di scoprire quello che si facesse, e di
stornare i sospetti mostrandosi, o almeno di ostentare sicurezza, e d'incutere
spavento. I sospetti erano già molto sparsi, e Don Rodrigo sotto l'apparente
rispetto, e sui visi inchinati dei contadini in cui si abbatteva, potè scorgere
qualche cosa di misterioso che annunziava un pensiero celato di cognizione, e
una gioja compressa per la trista riuscita del suo infame tentativo. Don
Rodrigo faceva osservare quelle facce al suo compagno, e si rodeva; ma non
ardiva né poteva fare alcun risentimento perché all'oscurarsi del suo sguardo
gl'inchini diventavano più umili, e gli aspetti più sommessi, e non ci sarebbe
stato verso di appiccare una lite senza troppo scoprirsi.
Giunti a casa i due cacciatori leggiadri trovarono il Griso che gli
aspettava con le notizie. Quand'egli ebbe fatta la sua relazione, Don Rodrigo
si volse al cugino, come per chiedergli consiglio. Il Conte Attilio era uno
sventato, ma l'affare era tanto serio ch'egli stesso lo era divenuto, e disse:
«Se mi aveste chiesto parere quando avete cominciato a divagarvi con questa
smorfiosa, da buon amico vi avrei detto di levarne il pensiero, perché era cosa
da cavarne poco costrutto; ma ora l'impegno è contratto, c'entra il vostro
onore, e quello della parentela: ora si direbbe che vi siete lasciato metter
paura, e che non l'avete saputa spuntare. Dal modo con cui vi conterrete in
questa occasione dipenderà la vostra riputazione e il rispetto che vi si
porterà nell'avvenire».
«Avete ragione».
«E», continuò il Conte Attilio; «fate pur conto sopra di me come sopra un
buon parente ed amico: non si tratta ora più di scommesse e di scherzi».
«Avete ragione. Griso, che cosa dicono questi villani?»
«Il signor padrone può ben credere che in faccia mia nessuno avrebbe
osato proferire una parola poco rispettosa; ma so che parlano, e si mostrano
contenti».
«Ah! contenti» rispose Don Rodrigo, «vedranno, vedranno. Il Podestà è
tutto mio... ma nulladimeno... che ne dite cugino?... sarà bene di prevenirlo
favorevolmente».
«Certo», rispose il Conte Attilio, «non bisogna tralasciare nessuna
precauzione».
«E poi», continuò Don Rodrigo, «non bisogna metterlo in impaccio. Siccome
si parlerà della fuga di costoro, e la giustizia forse non potrà schivare di
far qualche ricerca, bisognerebbe trovare una storia che spiegasse la fuga, e
che rivolgesse i sospetti in tutt'altra parte».
«Si potrebbe per esempio», disse il Conte Attilio, «sparger voce che quel
villano ha rapita la ragazza e fargli mettere un bando, in modo che non ardisse
più di comparire in paese».
«Non va male», rispose Don Rodrigo, «ma...»
«Se mi permettono questi signori», disse umilmente il Griso, «avrei
anch'io un debole parere».
«Sentiamo», dissero entrambi.
«Fermo», rispose il Griso, «è lavoratore di seta; e questa è una gran
bella cosa».
«Come c'entra la seta?» domandò il Conte Attilio.
«I lavoratori di seta», continuò il Griso, «non possono abbandonare il
paese, è un criminale grosso. Ecco che il signor Podestà quando voglia, come è
giusto, servire l'illustrissima casa, potrà fare un ordine di cattura contra
Fermo come lavoratore fuggitivo; poi si dirà che se Fermo ritorna, guai a lui;
e Fermo non sarà tanto gonzo da venire a giustificarsi in prigione».
«Ma bravo il mio Griso», proruppe Don Rodrigo, mentre lo stesso Conte
Attilio faceva un sorriso di approvazione.
«Ma bravo: va che ti voglio fare aiutante del dottor Duplica. Per bacco,
ch'egli non l'avrebbe trovata più a proposito».
«Eh Signore», rispose il Griso, con affettata modestia, «ho avuto tanto
che fare con la giustizia, che qualche cosa devo saperne».
«Del resto», continuò Don Rodrigo, «per quanto grande sia l'abilità
legale del Griso, non voglio ch'egli balzi di scanno il nostro dottore. Fa
ch'egli venga oggi a pranzo da me e m'intenderò con lui. Tu intanto abbi cura
di vedere il bargello e di dirgli che questa volta venga più presto del solito
a ricever la mancia consueta, e che mi troverà di buon umore, e avrà un regalo
di più... Così si potrà andare innanzi a fare tutto quello che sarà
necessario... Purché la cosa non si risappia a Milano...»
«Che diavolo di paura vi nasce ora», interruppe il Conte.
«Caro cugino, la cosa non è finita; costei la voglio...»
«Va bene».
«E non so dove bisognerà andare a cercarla, che passi bisognerà fare...»
«E bene, a Milano hanno altro da pensare che a questi pettegolezzi. C'è
la carestia, c'è il passaggio delle truppe, c'è mille diavoli. E poi
quand'anche se ne parlasse a Milano, sarebbe la prima che avremmo spuntata?»
«Va bene, ma quel frate, quel frate vedete, chi sa quali protezioni potrà
avere; e vi assicuro che non istarà quieto fin ché... Quel frate è il mio
demonio, e... non posso farlo ammazzare».
«Il frate lo piglio sotto alla mia protezione», rispose sorridendo il
Conte Attilio. «Non pensate a lui: me ne incarico io».
«Eh se sapeste!...»
«Via, via, che ora non saprò fare stare un cappuccino. Vi dico che, se
avete in me la più picciola fede, non prendiate pensiero di lui, che non ve ne
potrà dare. Domani a sera sono a Milano; e dopo due o tre giorni udrete novelle
del frate».
«Non mi state a fare un guajo che mi ponga in maggiore impiccio...»
«Quando vi dico di fidarvi di me, fidatevi; ma se volete vi dirò prima il
modo semplicissimo che ho pensato per torvelo d'attorno, modo tanto semplice
che l'avreste immaginato anche voi se non foste un po' conturbato».
Infatti Don Rodrigo combattuto, trainato da sentimenti diversi, e tutti
rei, tutti vili, tutti faticosi, era un oggetto di pietà senza stima agli occhi
stessi del Griso e del Conte Attilio, e avrebbe eccitato orrore e stomaco
nell'animo di chiunque gli avesse meno somigliato che quei due signori. La
passione di Don Rodrigo per Lucia, nata per ozio, irritata e cresciuta da poi
dalle ripulse e dal disdegno, era diventata violenta quando conobbe un rivale.
La fantasia ardente e feroce di Don Rodrigo si andava allora raffigurando
quella Lucia contegnosa, ingrugnata, severa, se l'andava raffigurando umana,
soave, affabile con un altro, egli immaginava gli atti e le parole, indovinava
i movimenti di quel cuore che non erano per lui, che erano per un villano; e la
vanità, la stizza, la gelosia aumentavano in lui quella passione che per
qualche tempo riceve nuova forza da tutte le passioni che non la distruggono, o
ch'ella non distrugge, da tutte quelle che possono vivere con essa. Tutte
queste passioni lo avevano allora spinto ad impedire con minacce il matrimonio
di Lucia, senza ch'egli avesse risoluto quel che farebbe da poi, ma per impedirlo
a buon conto, perché ella non fosse d'un altro, per guadagnar tempo, per
isfogare in qualche modo la rabbia e l'amore, se amore si può dire quel suo.
Quindi allorché egli riseppe dalla narrazione del Griso che Lucia e Fermo erano
partiti insieme, i dolori della gelosia e della rabbia lo colpirono più
acutamente che mai. Egli pensava qual prova Lucia aveva data di amore per Fermo
e di orrore per lui, abbandonando così timida, così inesperta la sua casa
paterna, i luoghi conosciuti, andando forse alla ventura; pensava che in quel
momento essi erano in cerca d'un asilo per essere riuniti tranquillamente, e
risolveva di fare, di sagrificare ogni cosa per impedirlo. Dall'altra parte
avvezzo bensì a non rifiutarsi mai una soddisfazione quando non gli doveva costare
altro che una bricconeria, ma avvezzo a commetterne in un campo ristretto e
conosciuto, si atterriva al pensiero di uscirne, di dovere intraprendere una
ricerca difficile e pericolosa per porsi poi ad una impresa chi sa quanto
vasta, chi sa quanto difficile e pericolosa. Tanta era l'agitazione di Don
Rodrigo, ch'egli pensava in quel momento non senza terrore alle Gride contra i
Tiranni. (Così chiamavano le Gride coloro che sopraffacevano come che fosse i
deboli, quasi con questa espressione querula e paurosa volessero confessare
l'impotenza di contenere quelli e di difender questi.) Ben è vero che quelle
gride erano per lo più inoperose, e Don Rodrigo lo sapeva per esperienza, come
noi lo sappiamo ora dal trovare ad ogni nuova pubblicazione di esse la dichiarazione
espressa che le antecedenti non avevano prodotto alcun effetto. Ma però queste
gride stesse potevano essere un'arme potente, quando una mano potente le
afferrasse contra chi le avesse violate; e v'era di mezzo un frate, un
personaggio cioè alla influenza ed alla attività del quale nessuno poteva
anticipatamente prevedere un limite: e questo frate pareva risoluto a
proteggere ad ogni costo gli innocenti.
In questa tempesta di pensieri Don Rodrigo passeggiava per la stanza,
facendo ad ogni momento nuove interrogazioni al Griso, e affettando sicurezza
dinanzi al Conte Attilio; finalmente conchiuse col dire: «Per ora non c'è altro
da fare che di sapere precisamente dove sono andati: tocca a te Griso; e poi, e
poi... non son chi sono se... non è vero cugino?»
«Senza dubbio», rispose il Conte, al quale alla fine non premeva
realmente in tutta questa faccenda che di far pensare che nello stesso caso
egli avrebbe saputo giungere ai suoi fini senza esitazione e senza fallo. Così
fu sciolta la conferenza, e il Griso partì.
Don Rodrigo pensò che in quel giorno sarebbe stata cosa molto utile
l'avere il podestà a pranzo, per mostrare sicurezza, e per far vedere ai
malevoli che la giustizia era per lui; e lo fece invitare, pregando il Conte
Attilio di non disgustargli quel brav'uomo con tante contraddizioni. Venne il
podestà, e il dottore; si stette allegri, si parlò ancora della marcia delle
truppe, e della carestia: ma degli affari del paese, della campana a martello,
della fuga, né una parola. Soltanto Don Rodrigo accennò indirettamente questa
faccenda nel modo il più gentile ed ingegnoso, come si vedrà. Fece egli in modo
che il podestà lodasse particolarmente il vino della tavola: cosa non difficile
ad ottenersi, perché il vino era buono, e il podestà conoscitore. Allora Don
Rodrigo: «Oh, signor podestà, giacché ho la buona sorte di posseder cosa di suo
aggradimento mi permetterà...»
«Non mai, non mai, Signor Don Rodrigo, se avessi saputo ch'ella sarebbe
venuta a questi termini, avrei dissimulata la mia ammirazione per questo
incomparabile...»
«Bene bene, signor Podestà, ella non mi farà il torto...»
«Don Rodrigo conosce la stima...»
Il Conte Attilio interruppe la gara, la quale era già realmente composta:
Don Rodrigo parlò all'orecchio ad un servo, e il podestà tornando poi a casa,
trovò sei tarchiati contadini che erano venuti a deporre nella sua cantina le
grazie di Don Rodrigo.
Dato l'ordine segreto, Don Rodrigo ritornò al discorso incominciato,
benché sembrasse mutarlo affatto, e passare dal vino all'economia politica; ma
chi appena osservi la serie delle sue idee, scorgerà il filo recondito che le
tiene.
«Che dice», continuò adunque Don Rodrigo, «che dice il signor podestà di
questo spatriare che fanno i nostri operaj?»
«Che vuole ch'io le dica?» rispose il podestà: «è cosa da non potersi
comprendere. Quanto più si moltiplicano le gride per trattenerli, tanto più se
ne vanno. Non si sa capire: è una pazzia che gli ha presi: sono pecore, una va
dietro all'altra».
«Eppure», continuò Don Rodrigo «pare che questa cosa stia molto a cuore
di Sua Eccellenza».
«Capperi! veda con che sentimento ne parla nelle gride. Ma costoro, parte
per ignoranza, parte per malizia non danno retta, armano mille pretesti, ma la
vera ragione si è la poca volontà di lavorare, e il disprezzo temerario delle
leggi divine ed umane».
«Ma per buona sorte», disse il dottor Duplica, a cui Don Rodrigo aveva
detto non tutto ma quanto bastava a fargli intendere come Don Rodrigo
desiderava di esser servito, «per buona sorte abbiamo un signor podestà che non
si lascerà illudere da pretesti, e saprà tenere mano ferma...»
«Mano ferma, signor podestà», riprese Don Rodrigo: «mano ferma: il primo
che c'incappa, farne un esempio».
«Io so», disse con gravità misteriosa il Conte Attilio, «che Sua
Eccellenza tiene gli occhi aperti su questo sviamento degli artefici, e sulla
esecuzione delle gride che lo proibiscono perché il Conte mio zio del Consiglio
segreto, qualche volta in confidenza si è spiegato con me... basta non voglio
ciarlare; ma son certo che quando tornato a Milano andrò a fare il mio dovere
dal Conte mio zio, egli non lascerà di farmi mille interrogazioni... In verità
avere dei parenti in alto è un onore, ma un onore un po' pesante. Non si può
parlare con loro che non vogliano ricavare qualche notizia: non si sa come
sbrigarsene».
«Mi raccomando ai buoni uficj del signor Conte», disse umilmente il
Podestà: «una buona parola trasmessa da una bocca tanto garbata in orecchie
tanto rispettabili...»
«È pura giustizia renduta al merito, Signor podestà: però se la parola ha
da ottenere il suo effetto, da far colpo, sarà bene che si vegga qualche
dimostrazione esemplare dello zelo del Signor podestà in questa materia».
«È mio dovere, e starò sull'avviso».
«Oh le occasioni non mancheranno», disse il dottore; «perché come diceva
sapientemente il signor podestà, è una pazzia universale in costoro». Quindi
prendendo l'aria grave e pensosa di chi passa dai fatti ad una idea generale,
continuò: «Vedano un po' le signorie loro come son fatti gli uomini, e particolarmente
la gente meccanica che non sa riflettere. Comincia a mettersi fra gli artefici
questa smania di sviarsi, di cambiar cielo. La sapienza di chi governa vede il
male, e tosto applica il rimedio della proibizione e delle pene. Si può far di
più? eppure costoro, presa una volta quella dirittura di andarsene a
processione, proseguono ad andarsene come se nessuno avesse parlato. Come si
spiega questo? Col dire che sono pazzi. Ma coi pazzi come bisogna fare?
Castigarli».
È facile supporre che con questi ragionamenti il signor podestà si trovò
disposto a credere poi, o a fingere di credere alle insinuazioni incessanti del
dottor Duplica, e alle deposizioni degli onorevoli suoi ministri, che Fermo si
era spatriato in contravvenzione alle gride. Il signor podestà non si lasciò
scappare una occasione, che gli si era tanto raccomandato di afferrare, e nel
giorno susseguente fatte fare ricerche di Fermo, le quali riuscirono inutili,
lo notò come fuggitivo, gli fece intimare alla casa l'ordine di ritornare, e
nello stesso tempo rilasciò l'ordine di catturarlo s'egli ritornava. Non
importa di accordare quei due ordini: basta che con questi si ottenesse
l'effetto desiderato, che era di toglier la volontà a Fermo di ritornare.
Intanto il Griso non ommetteva cura per iscoprire il covo dei fuggitivi;
ed ecco come vi riuscì. Mandava egli esploratori qua e là per le piazze e per
le taverne per raccogliere i discorsi che potevano dar qualche lume su questo
avvenimento. Colui che aveva condotto il baroccio dei profughi, non tacque, e
di confidenza in confidenza, il Griso venne a risapere, e potè riferire a Don
Rodrigo: che i fuggitivi erano andati a Monza, che Fermo aveva proseguito il
viaggio fino a Milano, che Lucia ed Agnese erano state raccomandate al
guardiano dei cappuccini.
Parve a Don Rodrigo che la matassa non fosse tanto imbrogliata com'egli
aveva temuto, e che il bandolo si potrebbe ravviare senza troppa difficoltà.
Monza non era più lontana che venti miglia; Fermo era separato dalle donne;
quando si prendessero buoni alleati, senza dei quali Don Rodrigo sentiva di non
poter far nulla a quattro miglia del suo castellotto, l'impresa non era
disperata. V'era però ancora di mezzo un cappuccino; ma si sarebbe veduto fino
a che segno egli era da temersi.
«Ora mio bravo e fedel Griso», disse Don Rodrigo, «non bisogna metter
tempo in mezzo. Ho bisogno di sapere al più presto presso a chi, in qual parte
di Monza costei è andata a posarsi; e tu devi andare sul luogo a pigliarne
informazioni sicure».
«Signore...»
«Che è, Griso? non ho io parlato chiaro?»
«Signore illustrissimo,... io son pronto a dar la vita pel mio padrone,
ma so anche ch'ella non vuole arrischiar troppo i suoi sudditi»
«Ebbene, non sei tu sotto la mia protezione?»
«Qui sono sicuro, qui Vossignoria illustrissima è conosciuta, e tutti mi
portano rispetto; ma in Monza, s'io fossi riconosciuto... Sa Vostra signoria
che, non dico per vantarmi; ma sa che chi mi potesse consegnare alla giustizia,
crederebbe di aver fatto un gran colpo?»
Don Rodrigo stette un momento sopra pensiero. È una certa consolazione
per chi considera lo stato insopportabile di angoscia e di terrore in cui a
quei tempi gli uomini arditi e perversi tenevano i deboli, il vedere che i
perversi pure erano in continua angoscia, e dovevano starsi sempre come si dice
con l'olio santo in saccoccia. Ma Don Rodrigo dopo un breve silenzio, fece con
buone ragioni vergognar il Griso della sua pusillanimità.
«Che diavolo!» disse Don Rodrigo, «tu mi riesci ora un can da pagliajo,
che non sa che abbajare sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo
spalleggiano, e non ardisce di allontanarsi quattro passi? Ebbene, piglia con
te un pajo di compagni... il Pelato, e... il Saltafossi... e va. Io non ho
nimicizia con nessuno in Monza: chi dunque ti vorrebbe toccare? La faccia di
bravo non ti manca, e cospetto non incontrerai nessuno che non sia contento di
lasciarti passare. Quanto alla giustizia, dovresti vergognarti di avervi
pensato un momento. Bisognerebbe che i birri di Monza fossero bene stanchi di
vivere per azzuffarsi con tre malandrini che vanno tranquillamente pei fatti
loro».
«Sia per non detto, illustrissimo signore: io parto immediatamente».
«Bravo: hai amici in Monza?»
«Eh Signore io ho amici e nemici per tutto il mondo. Sono stato in
prigione con uno che sta per bravo dal Signor Egidio... e abbiamo fatta una
amicizia da spartire colle pertiche, conosco...»
«Bene tu avrai da questi informazioni, e ajuti al caso. Una mano lava
l'altra, e le due il viso. Coraggio, e prudenza: comprare e non vendere; andare
e tornare».
«Vado e torno; e se osassi...»
«Che?»
«Pregar Vossignoria illustrissima di non dire ad alcuno che il Griso ha
dubitato un momento. Vede bene, ognuno nel suo mestiere ha a cuore la sua
riputazione».
«Va, va, balocco che sei: credi tu che io abbia bisogno di essere pregato
per tenere in credito la mia gente?»
Il Griso partì coi due compagni, spiò, e raccolse che Lucia era nel
monastero, sotto la protezione della Signora, che però la Signora l'aveva
ricevuta per compiacere al padre guardiano, che nessuno pensava che altrimenti
ella si sarebbe pigliata a petto questa faccenda giacché Lucia non le
apparteneva per nulla, che Lucia abitava nel monastero, ma fuori del chiostro,
che si lasciava poco vedere, e sempre di chiaro giorno: che la madre aveva disegnato
di tornarsene a casa lasciando Lucia così bene appoggiata. Tutte queste cose
riferì il Griso a Don Rodrigo, il quale lodatolo, e ricompensatolo, si pose
seriamente a pensare quale risoluzione fosse da prendersi.
Tentare un ratto a forza aperta, in Monza, su un terreno che egli non
conosceva bene, in un monastero, a rischio di tirarsi addosso la signora, e
tutto il suo parentado, del quale Don Rodrigo conosceva molto bene la potenza,
e la ferocia in sostenere le protezioni una volta abbracciate, era impresa da
non porvi nemmeno il pensiero. Pure Lucia fra pochi giorni sarebbe rimasta sola
senza la madre, e a chi avesse avuta pratica del paese, aderenze, notizie per
conoscere le occasioni e per approfittarsene, per evitare i pericoli, l'impresa
poteva forse essere agevole non che possibile. Bisognava dunque ricorrere ad un
alleato potente e destro, ad un uomo avvezzo a condurre a termine spedizioni di
questo genere; e Don Rodrigo si determinò in un pensiero, che gli era passato
più volte per la mente, che non aveva mai abbandonato, il pensiero di
raccomandare i suoi affari al Conte del Sagrato.
Le ricerche che abbiamo fatte per trovare il vero nome di costui giacché
quello che abbiamo trascritto era un soprannome, sono state infruttuose. Al
prudentissimo nostro autore è sembrato di avere ecceduto in libertà e in
coraggio col solo indicare con un soprannome quest'uomo. Due scrittori
contemporanei, degnissimi di fede, il Rivola e il Ripamonti, biografi entrambi
del Cardinale Federigo Borromeo, fanno menzione di quel personaggio misterioso,
ma lo dipingono succintamente come uno dei più sicuri e imperturbabili
scellerati che la terra abbia portato, ma non ne danno il nome, e né meno il
soprannome che noi abbiamo ricavato dal nostro manoscritto insieme con la
narrazione del fatto che glielo fece acquistare, e che basterà a dare una idea
del carattere di quest'uomo. Abitava egli in un castello posto al confine degli
stati veneti, sur un monte; e quivi menava una vita sciolta da ogni riguardo di
legge, comandando a tutti gli abitatori del contorno, non riconoscendo
superiore a sè, arbitro violento dei negozj altrui come di quelli nei quali era
parte, raccettatore di tutti i banditi, di tutti i fuggitivi per delitti quando
fossero abili a commetterne di nuovi, appaltatore di delitti per professione.
«La sua casa» per servirci della descrizione che ne fa il Ripamonti «era come
una officina di commessioni d'ammazzamento: servì condannati nella testa, e
troncatori di teste: né cuoco né guattero dispensati dall'omicidio; le mani dei
valletti insanguinate».
E la confidenza di costui, nutrita dal sentimento della forza e da una
lunga esperienza d'impunità era venuta a tanto, che dovendo egli un giorno
passar vicino a Milano, vi entrò senza rispetto, benché capitalmente bandito,
cavalcò per la città coi suoi cani, e a suon di tromba, passò sulla porta del
palazzo ove abitava il governatore, e lasciò alle guardie una imbasciata di
villanie da essergli riferita in suo nome.
Avvenne un giorno che a costui come a protettore noto di tutte le cause
spallate si presentò un debitore svogliato di pagare, e si richiamò a lui della
molestia che gli era recata dal suo creditore, raccontando il negozio a modo
suo, e protestando ch'egli non doveva nulla, e che non aveva al mondo altra speranza
che nella protezione onnipotente del signor Conte. Il creditore, un benestante
d'un paese vicino, non era sul calendario del Conte, perché senza provocarlo
giammai, né usargli il menomo atto di disprezzo, pure mostrava di non volere
stare come gli altri alla suggezione di lui, come chi vive pei fatti suoi e non
ha bisogno né timore di prepotenti. Al Conte fu molto gradita l'opportunità di
dare una scuola a questo signore: trovò irrepugnabili le ragioni del debitore,
lo prese nella sua protezione, chiamò un servo, e gli disse: «Accompagnerai
questo pover uomo dal signor tale, a cui dirai in mio nome che non gli rechi
più molestia alcuna per quel debito preteso, perché io ho riconosciuto che
costui non gli deve nulla: ascolterai la sua risposta: non replicherai nulla
quale ch'ella sia, e quale ch'ella sia, tornerai tosto a riferirmela». Il lupo
e la volpe s'avviarono tosto dal creditore, al quale il lupo espose
l'imbasciata, mentre la volpe stava tutta modesta a sentire. Il creditore
avrebbe volentieri fatto senza un tale intromettitore; ma punto dalla insolenza
di quel procedere, animato dal sentimento della sua buona ragione, e atterrito
dalla idea di comparire allora allora un vigliacco, e di perdere per sempre
ogni credito; rispose ch'egli non riconosceva il signor Conte per suo giudice.
Il lupo e la volpe partirono senza nulla replicare, e la risposta fu tosto
riferita al Conte, il quale udendola disse: «benissimo». Il primo giorno di
festa la chiesa del paese dove abitava il creditore era ancora tutta piena di
popolo che assisteva agli uficj divini, che il Conte si trovava sul sagrato
alla testa di una troppa di bravi. Terminati gli uficj, i più vicini alla porta
uscendo i primi e guardando macchinalmente sul sagrato videro quell'esercito e
quel generale, e ognun d'essi spaventato, senza ben sapere che cagione di
timore potesse avere si rivolsero tutti dalla parte opposta, studiando il passo
quanto si poteva senza darla a gambe. Il Conte, al primo apparire di persone
sulla porta si era tolto dalla spalla l'archibugio, e lo teneva con le due mani
in apparecchio di spianarlo. Al muro esteriore della chiesa stavano appoggiati
in fila molti archibugj secondo l'uso di quei tempi nei quali gli uomini
camminavano per lo più armati, ma non osavano entrar con armi nella chiesa, e
le deponevano al di fuori senza custodia per ripigliarle all'uscita. Tanta era
la fede publica in quella antica semplicità! Ma i primi che uscirono non si
curarono di pigliare le armi loro in presenza di quel drappello: anche i più
risoluti svignavano dritto dritto dinanzi a un pericolo oscuro, impreveduto, e
che non avrebbe dato tempo a ripararsi e a porsi in difesa. I sopravvegnenti
giungevano sbadatamente sulla soglia, e si rivolgevano ciascuno al lato che gli
era più comodo per uscire, ma alla vista di quell'apparato tutti si volgevano
dalla parte opposta e la folla usciva come acqua da un vaso che altri tenga
inclinato a sbieco, che manda un filo solo da un canto dell'apertura. Si
affacciò finalmente alla porta con gli altri il creditore aspettato, e il Conte
al vederlo gli spianò lo schioppo addosso, accennando nello stesso punto col
movimento del capo agli altri di far largo. Lo sventurato colpito dallo
spavento, si pose a fuggire dall'altro lato, e la folla non meno, ma l'archibugio
del Conte lo seguiva, cercando di coglierlo separato. Quegli che gli erano più
lontani s'avvidero che quell'infelice era il segno, e il suo nome fu proferito
in un punto da cento bocche. Allora nacque al momento una gara fra quel misero,
e la turba tutta compresa da quell'amore della vita, da quell'orrore di un
pericolo impensato che occupando alla sprovveduta gli animi non lascia luogo ad
alcun altro più degno pensiero. Cercava egli di ficcarsi e di perdersi nella
folla, e la folla lo sfuggiva pur troppo s'allontanava da lui per ogni parte,
tanto ch'egli scorrazzava solo di qua di là, in un picciolo spazio vuoto,
cercando il nascondiglio il più vicino. Il Conte lo prese di mira in questo
spazio, lo colse, e lo stese a terra. Tutto questo fu l'affare di un momento.
La folla continuò a sbandarsi, nessuno si fermò, e il Conte senza scomporsi,
ritornò per la sua via, col suo accompagnamento.
Se quel fatto crescesse in tutto il contorno il terrore che già ognuno
aveva del Conte, non è da domandare; e l'impressione comune di stupore, e di
sgomento fu tale che nessuno poteva pensare al Conte senza che il fatto non gli
ricorresse al pensiero; e così fu associata al nome quella idea, che tutti
avevano associata alla persona. Il Conte sapeva che lo disegnavano con questo
soprannome, ma lo sofferiva tranquillamente, non gli spiacendo che ognuno,
avendo a parlare di lui si ricordasse di quello ch'egli sapeva fare; o forse
che avendo in qualche romanzo di quei tempi veduta qualche menzione di Scipione
l'Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com'essi il nome dal luogo
illustrato da una grande impresa.
Teneva egli dispersi o appostati assai bravi nello Stato milanese e nel
veneto, e dal suo castello posto a cavaliere ai due confini dirigeva gli uni e
gli altri, facendo ajutare o perseguitare quegli che si rifuggivano da uno
Stato nell'altro, secondo l'occorrenza, tramutandone alcuno talvolta, quando
qualche operazione lo domandasse, o anche quando alcuno avesse in uno stato
commessa qualche iniquità tanto clamorosa che la giustizia per averlo nelle
mani facesse sforzi straordinarj, che esigessero sforzi straordinarj per
difenderlo. Allora la fuga del reo era una buona scusa ai ministri della
giustizia del non far nulla contra di lui, e la cosa finiva quietamente, tanto
che dopo qualche tempo non se ne parlava più, né meno sommessamente, e il reo
ricompariva con faccia più tosta che mai. Questo maneggio serviva non poco ad
agevolare tutte le operazioni del Conte, perché le si compivano tutte senza
molto impaccio dei ministri della giustizia, i quali potevano sempre allegare
l'impossibilità di porvi un riparo. Quanto alle operazioni che il Conte
eseguiva di propria mano, la giustizia non se ne mostrava accorta; ed era
regola ricevuta di prudenza, che erano di quelle cose in cui ogni dimostrazione
avrebbe prodotti più inconvenienti che non il dissimularle.
Le sue corrispondenze erano varie, estese, sempre crescenti. Pochi erano
i tiranni della città, e di una gran parte dello stato che non avessero qualche
volta fatto capo a lui per condurre a termine qualche vendetta o qualche
soperchieria rematica, massimamente se la persona da colpirsi, o il fatto da
eseguirsi era nelle sue vicinanze. E non basta, fino ad alcuni principi
stranieri tenevano comunicazione con lui, e a lui avevano ricorso tal volta per
qualche uccisione d'importanza, e quando il caso lo richiedesse gli mandavano
rinforzi: fatto attestato dal Ripamonti, e strano certamente per chi misura la
probabilità degli avvenimenti e dei costumi dalla sola esperienza dei suoi
tempi; ma fatto che cammina benissimo con tutto l'andamento di quel secolo.
Nella sua professione d'intraprenditore di scelleratezze, era egli pieno di
affabilità nel contrattare, e nell'eseguire metteva, ed esigeva una somma
puntualità. Accoglieva con molta riserva certamente per non incorrere nel
pericolo al quale era sempre esposto, ma con molta piacevolezza, quelli che
venivano a domandare l'opera sua, deponeva con essi il sopracciglio, stipulava
con parole spicce, ma pacate, non andava in furia contra chi non avesse voluto
stare alle sue condizioni, ma rompeva pacificamente il trattato, non volendo né
disgustare alcuno senza utilità, né atterrire coloro, i quali avevano per la
scelleragine più inclinazione nella volontà, che determinazione di coraggio. Ma
stretti i patti, colui che non gli avesse ben fedelmente serbati con lui,
doveva esser bene in alto per tenersi sicuro dalla sua vendetta.
Don Rodrigo conosceva il Conte non solo di fama (chi non lo conosceva di
fama?) ma di persona, per essersi talvolta avvenuto in lui. In tutti questi
incontri Don Rodrigo sentendo la sua inferiorità, aveva deposto ogni orgoglio e
aveva cercato con molte espressioni di rispetto di porsi in grazia al Conte;
non ch'egli pensasse allora che un giorno avrebbe cercato il suo ajuto, ma
soltanto per non farsi un tale nemico.
Confermato nel suo perverso proposto di attingere la innocente Lucia, e
convinto che le sue mani non erano abbastanza lunghe, si risolvette Don Rodrigo
di andare in cerca di chi volesse prestargli le sue; fatta questa risoluzione,
non v'era da titubare sulla scelta del personaggio, perché il Conte era appunto
per lui quel che il diavolo fece.