Quando Egidio si avvenne nella nostra povera Agnese, andava appunto
fantasticando sul modo di soddisfare al più presto ai desiderj del suo degno
amico, e di dargli con la prontezza del servizio una prova di audacia e di
destrezza singolare; e nei varj disegni che ruminava il pensiero, questa Agnese
gli si gettava sempre a traverso come il maggiore impedimento. Come staccare da
essa Lucia che le stava sempre appiccata alla gonnella? Rapire Lucia quando
fosse in compagnia della madre era esporsi ad un vero scandalo: la resistenza
che la madre avrebbe tentato di opporre poteva render necessaria qualche
violenza che avrebbe renduto l'affare più serio, o almeno avrebbe fatto perder
tempo, forse sfuggire l'opportunità; le sue grida potevano attirare dei
guastamestieri, o almeno dei testimonj; e ad ogni modo essa rimanendo in Monza
avrebbe sclamato, ricorso, parlato e fatto parlare. Al contrario quando Lucia
non avesse in paese persona a cui calesse di lei particolarmente, i discorsi
sarebbero stati d'un giorno, ed era molto più agevole dare all'avventura quella
spiegazione che fosse convenuta e che nessuno avrebbe potuto smentire. Si
andava dunque Egidio risolvendo ad aspettare che Agnese si fosse allontanata da
Monza, ma non sapendo quando ciò fosse per accadere, si rodeva di dover
rimettere ad un tempo non ben determinato l'impresa e l'onore dell'impresa. Ma
alla vista di Agnese che tornava a casa, Egidio si sentì libero d'una grande
incertezza, risolvette di por mano al disegno appena sarebbe giunto a Monza, e
continuò a maturare il suo disegno: i suoi pensieri camminavano più spediti, e
per mettere del paro ad essi il suo cavallo gli diede una voce ed un colpo di
sprone, dicendo ai seguaci a piedi che erano obbligati di trottare un po'
affannosamente: «animo figliuoli, che la giornata è bella». Giunto a Monza,
entrato in casa, scavalcato, deposte le armi più gravi e più lunghe, egli corse
tosto per la via da lui solo conosciuta alla porta abominevole che egli aveva
aperta nel solajo, entrò con le solite precauzioni nel solajo dell'abitazione
vicina, fece i soliti segni, la signora che stava sull'avviso, intese, avvertì
le sue complici; le quali andarono a chiudere le porte del quartiere che
comunicavano col chiostro, e la sciagurata corse incontro ad Egidio tutta
ansiosa.
«Sia lodato il cielo» diss'ella «che vi riveggo! Oh che giorni ho
passati! e che notti! Che paura ho avuta questa volta!» e mentre ella parlava
una specie di consolazione angosciosa, e di rincoramento agitato dipingevano
sulle sue guance come due pezze di rossore che contrastavano tristamente col
pallore di tutta la faccia.
«Le solite sciocchezze?» disse Egidio con impazienza.
«Oh! sciocchezze! So io quel che soffro; e fossero anche sciocchezze, a
chi tocca aver compassione di me? Mai mai, non avete voluto compiacermi. Se
provaste un'ora quello ch'io sento tutto il giorno! tutta la notte! Non posso
più, non posso più vivere con colei così vicina. Qua giù, qua sotto, a pochi
passi, nella vostra cantina: e quando voi non ci siete...! l'ho veduta sempre,
sempre: l'ho veduta smuovere a poco a poco il mucchio di sassi, e poi metter
fuori il capo, e poi venir su... avrei gridato se non avessi temuto di far
correre tutto il monastero... e poi entrare qua dentro per questo pertugio,
senza mai volersi fermare, e poi sedersi qui... quello sgabello son ben sicura
d'averlo bruciato: e pure quando colei arriva, si trova sempre a quel posto, ed
ella vi si adagia, e non vuol partire. Mi pare che se fosse lontana dove io non
sapessi, non potrebbe venire così a tormentarmi».
«Donne indiavolate, vive o morte», disse lo scellerato: «ecco le
accoglienze gioconde che mi fate».
«Non andate in collera», disse Geltrude, «perché chi altri ho io? a chi
mi posso confidare?» e continuò con voce più sommessa, «quelle altre non mi
consoleranno, vedete, se racconterò loro che siete in collera con me, state in
pace, e fatemi questo piacere una volta. Voi sapete far tante cose! Non sarete
più contento, quando mi vedrete tranquilla?»
«Ma sono queste cose da pensare, e da dire?» rispose Egidio. «È un affare
finito, che non dà più impaccio, e volerne andare a cercare uno di questa
sorta? perché? per una pazzia? Che volete ch'io faccia? Ch'io desti il cane
addormentato? Senza una ragione al mondo? come l'ho da portare? dove?»
«Scendete una notte solo», disse Geltrude, «già voi non avete paura, —
fortunati gli uomini! — prendetela portatela al fiume, gittatela in un pozzo
abbandonato...»
«Bel divertimento! bella festa invero!» disse Egidio con un sorriso di
rabbia e di scherno «bella commissione che mi date! Pazzie! E tutto per tirar
fuori quello che è ben nascosto! Savio disegno! Sapete voi dirmi un luogo dove
possa star più nascosta che ora non è?»
«È vero», disse Geltrude, «gran cosa che non si sappia che fare d'un
morto!»
«Che farne?» rispose Egidio, «niente: sta bene dov'è. Dimenticatela,
pensate quello che pensano tutte le vostre suore: è andata alle Indie su una
nave olandese, e pensa a vivere allegramente; lo credono tutti...»
«Ma non è vero», rispose Geltrude.
«Che fa questo?» disse bruscamente Egidio.
«Fa tutto», replicò tristamente Geltrude; e proseguì: «anch'io prima...
credeva che purché lo sapessimo noi soli, la cosa sarebbe come se non fosse
avvenuta, ma ora...»
«Ora è tempo di finirla», interruppe sempre aspramente Egidio.
«Oh ecco come son trattata!» disse con accoramento Geltrude; «mi
strapazzate perché patisco; siete voi quello che mi strapazzate, voi... Che
colpa ho io se sono una poveretta? Vorrei anch'io non curarmi di nulla, esser
come voi... voi siete un uomo, voi mi date animo... ma no no... voi avete
troppo coraggio, troppa presenza di spirito... mi fate quasi... paura...
penso... penso che se... mi odiaste... ah i morti non vi danno travaglio!»
«Che pazzie! che pazzie!» disse Egidio con istizza sempre crescente.
«Ebbene», disse Geltrude in tuono supplichevole, «compiacetemi, levatemi
questa spina del cuore, allontanate colei da questa abitazione; voi vedete
ch'io non posso allontanarmi io».
«Via», rispose Egidio, fingendo di acconsentire alla domanda «vi
compiacerò; è un impiccio, è un fastidio, è un pericolo, ma per voi lo farò».
«Oh davvero!» disse Geltrude, «non lo dite per acquetarmi, come avete
fatto altre volte... vi ricordate?... promettetelo da vero».
«Possa essere...!»
«Non giurate, per amor del Cielo», interruppe Geltrude come spaventata;
«non fate imprecazioni, perché noi siamo in uno stato che una picciola parola
può bastare... potrebb'essere intesa ed esaudita in quel momento che la
proferiamo».
«Via ve lo prometto da uomo onorato», rispose Egidio, affettando
tranquillità: «ve lo prometto; e non se ne parli più. Ho bisogno anch'io che
voi mi compiacciate in un affare d'importanza; e non mi si deve dire di no, non
si deve opporre nemmeno un dubbio».
«Che posso fare?» chiese con istanza e non senza inquietudine Geltrude.
«Quella villanotta che v'è stata data in guardia», rispose Egidio,
«quella Lucia...»
«Ebbene?...»
«Ho promesso di consegnarla ad un amico al quale non voglio né posso
rifiutar nulla; e voi dovete darmi ajuto a liberarmi dalla mia parola».
A questa proposta, Geltrude incrocicchiò le mani con forza, le presse al
petto, si strinse tutta, levò al cielo uno sguardo nel quale brillava
momentaneamente un raggio dell'antica innocenza, e con voce supplichevole e
commossa disse: «Ah no: non ne facciamo più, non ne facciamo più per pietà. Chi
sa che quel che abbiamo fatto non possa ancora essere perdonato? V'era, una scusa,
ma qui non ve n'è. Perché fare ancora delle cose, che si vorranno dimenticare e
non si potrà? Non ne abbiamo abbastanza?»
«Ah! ah!» rispose Egidio, «così siete disposta a compiacermi? Adesso vi
nascono gli scrupoli eh! Più conto fate d'una villana, che conoscete appena da
otto o dieci giorni che di me. Questa è quella che voi amate».
«Io amarla!» rispose Geltrude, «io colei! non la posso soffrire, è una
superba, non fa che parlare della sua innocenza, e quando ne parla mi guarda
con certi occhi come se sapesse qualche cosa, e fingendo rispetto volesse
insultarmi. L'ho accolta, sapete, perché bisogna nel nostro stato farsi più
amici che si può: no ch'io non l'amo: ma lasciatemela per carità, questa
lasciatemela, mi diventerà cara, e quando un altro pensiero verrà a
tormentarmi, riposerò i miei occhi sopra di lei, e dirò fra di me: — ecco,
anche questa l'avrei dovuta sagrificare; ed è qui».
«Pazzie, pazzie», disse Egidio: «parlate come una bambina sciocca.
Lasciate che sul principio si lamenti e un giorno poi riderà dei suoi terrori,
e sarà contenta».
«No, non sarà contenta», rispose Geltrude con la rapida risoluzione di
chi ha il vivo sentimento che le parole che ha udite sono menzogne.
«Va bene, va bene», disse Egidio con uno sdegno in parte vero, in parte diabolicamente
affettato: «non ne facciamo più: e già vedo che non possiamo andar d'accordo: è
tempo perduto con voi: siamo troppo differenti nel pensare: ma a tutto si può
rimediare; i mattoni son lì tutti come contati; e ad ogni volta mi dò la briga
di riporli al loro posto antico: basta che io porti un po' di calce, il muro
sta come prima, tutto è finito».
«No, no, no...» riprese affannosamente Geltrude: «...dite, che volete
ch'io faccia?»
«È vero», continuò l'uomo abbominevole, come se persistesse nel suo
proposito, «è vero che vi sono anche quelle altre...»
«Zitto, zitto per pietà» disse Geltrude, «che non sentano: volete farmi
diventare il ludibrio di quelle...»
«Quelle, quelle» riprese Egidio «saranno certamente più pronte a rendermi
un servizio».
«Dite, dite, che volete ch'io faccia?»
«Chiamatele», rispose imperiosamente Egidio, «e troveremo insieme il
mezzo di condurre a capo questa grande impresa».
«Dite...»
«Chiamatele, dico», riprese Egidio, e Geltrude strascinata ancora una
volta un passo più innanzi nella via della perversità, avvezza ad ubbidire,
ubbidì e andò a chiamare le sue complici. Egidio sapeva quello che aveva detto;
e quelle due sciagurate erano in fatti più tranquillamente e più risolutamente
perverse di Geltrude. Geltrude dei loro discorsi, del loro contegno sentiva
talvolta orrore, disprezzo, ne riceveva una specie di scandalo; ma questi
sentimenti ricadevano terribilmente su la sua coscienza, perché ad ogni volta
Geltrude era costretta a ricordarsi che dessa era quella, che aveva fatti far
loro i primi passi nel cammino dove ora la precorrevano. Non parlo che di
questi sentimenti, perché gli altri tutti orribili e tutti fastidiosi che
dovevano nascere in quegli animi in quella situazione non sono da descriversi:
basti dire che con tante cagioni di vicendevole ripugnanza una sola cosa le
teneva unite, la partecipazione d'un sangue, l'avere una sola coscienza:
vivevano insieme come lo sbigottimento e l'audacia, il desiderio di
rimpiattarsi e il desiderio di assalire, il rimorso e il delitto vivono insieme
nell'anima d'un masnadiero.
Rivisitate accuratamente le porte, tentati i chiavistelli per accertarsi
che fossero ben chiusi, le tre sciagurate s'avviarono insieme verso il luogo
più rimoto del quartiere dove Egidio le stava aspettando. L'orrendo concilio fu
ragunato: le sciagurate aspettavano ansiose di udire ciò che Egidio avesse a
propor loro, e nello stesso tempo stavano col capo levato all'indietro
origliando se un qualche romore si sentisse, se qualche suora venisse a
bussare, per accorrer tosto, per intrattenerla con qualche pretesto prima di
aprire, e dar così tempo ad Egidio di sparire senza lasciare alcun sospetto.
Egidio espose loro in due parole il suo desiderio: ch'egli aveva bisogno di
tenere Lucia per servire un suo caro amico, che esse dovevano dargli ajuto, che
la cosa doveva esser fatta presto e in modo che il sospetto non cadesse né
sovra di esse né sovra di lui.
In una brigata di onesti che deliberi qualche risoluzione da prendersi,
ognuno diventa più onesto, il sentimento comune rinforza quello d'ogni
individuo che parli, le parole d'ognuno divengono più rigide, più degne, più
scrupolose, suppongono sempre un convincimento profondo della persuasione della
virtù; e così pur troppo, in una brigata di tristi, ognuno diventa più tristo,
perché chi ragiona dinanzi ad un uditorio per picciolo ch'e' sia, generalmente
parlando, non teme nulla più che di stonare dagli altri. Geltrude che alla
prima proposta di quel fatto, ne aveva conceputo tanto orrore, risoluta ora di
obbedire allo spirito infernale che la possedeva, non avrebbe voluto che altri
mostrasse più ardore, più prontezza, più sagacità nel farlo; Geltrude avvezza
ad essere strascinata, e a far sempre qualche cosa di più di ciò che sul
principio aveva ricusato di fare, rispose tosto che pigliava essa l'impegno,
che ne aveva i mezzi più di chicchessia. Le altre triste protestarono tosto che
esse erano pronte a secondarla in tutto. Egidio le chiese se essa avrebbe
saputo far andare Lucia sola in una strada solitaria. «Domani», rispose
Geltrude. «Domani è troppo presto», disse Egidio; «la rete non potrà esser tesa
che dopo domani». «Dopo domani», rispose ancora Geltrude. La congrega si
sciolse, ed Egidio corse tosto a spedire un messo al Conte del Sagrato, per
chiedergli i bravi dei quali avevano convenuto. Il messo partì nella notte
stessa, giunse all'alba al castello; il Conte diede tosto gli ordini ai bravi
che dovevano andare all'impresa: impose loro di obbedire ad Egidio, e di non
nominarlo, di aspettare i suoi comandi, e di non andare a casa sua né di
cercarlo in alcun luogo, e i bravi scesero all'Adda, e s'imbarcarono. Nello
stesso tempo spedì egli una carrozza leggiera da viaggio con un cocchiere quale
conveniva a tal signore; gli ordinò di farsi tragittare su un altro punto del
fiume, di non mostrare di avere alcuna relazione con quegli altri amici che
partivano, di appostarsi vicino a Monza nel luogo che era indicato nella
lettera di Egidio, e di aspettare pure gli ordini di questo.
Quanto alle ciarle da spargersi per via e alle fermate, onde far stornare
dal vero le congetture dei curiosi, il Conte ne lasciò l'invenzione alla
prudenza, ed alla sagacità dei suoi uomini; perché gli aveva scelti tra i più
provati, e più destri, e tali che sapessero conformare la condotta e i discorsi
alle circostanze che egli non poteva prevedere. Contemporaneamente, a paro per
un'altra via il messo di Egidio tornò al suo padrone, e gli portò la risposta
nella quale il Conte, con un gergo da loro soli inteso lo avvertiva di ciò
ch'egli aveva ordinato. Egidio, lasciato riposare il messo, lo rispedì alle
poste dov'erano giunti gli uomini del Conte, e li fece istruire di ciò che
avevano a fare. Tutta quella giornata fu spesa in preparativi. Il giorno
appresso (la nostra storia lo registra, ed era il ventuno di novembre) Egidio
diede avviso a Geltrude che tutto era in pronto, e ch'ella dovesse mantenere la
sua parola, operar tosto secondo le istruzioni ch'egli le aveva date.
Geltrude scese nel suo parlatorio appartato, e fece chiamare Lucia. La
nostra poveretta innocente corse volonterosa alla chiamata. Dopo la partenza
della madre, rimasta come smarrita, senza consiglio, senz'altro appoggio che
quello della Signora, non si sentiva mai tanto sicura come presso di lei. Ben è
vero che quel non so che d'inusitato e di strano ch'ella aveva trovato nei
discorsi e nel contegno di essa gli aveva lasciata una impressione d'incertezza
e quasi di timore, ma ella era tanto lontana dal sospettar pure le vere cagioni
di quell'inusitato, che le prime riflessioni della madre l'avevano rassicurata;
e Lucia non ne aveva cavata altra conseguenza se non che i signori erano molto
differenti dai poverelli. Si presentò ella dunque a Geltrude con quell'aria di
fiducia affettuosa, con quella gioja riconoscente, che il debole sente alla
presenza del forte che è per lui; le andò incontro, come la pecora va incontro
al pastore che le si avvicina, che allontana le altre e stende la mano per
accarezzarla; e non sa la poveretta che egli ha lasciato fuori del pecorile il
beccajo a cui l'ha venduta in quel momento.
La festa ingenua di Lucia, e la sua aria fiduciale era un rimprovero e
una distrazione terribile per la Signora, la quale tosto interruppe alcune
semplici parole di affetto e di riconoscenza che l'innocente tutta peritosa aveva
incominciate, protestò di non voler ringraziamenti, e postasi in aria di
premura e di mistero le annunziò che l'aveva fatta chiamare per comunicarle
cose molto importanti. Lucia si fece tutta attenta, e Geltrude ripetendo la
lezione del suo infernale maestro cominciò ad impastocchiarla con una storia
misteriosa, di pericoli, e di speranze, di mezzi posti in opera da lei, di
ostacoli, di ajuti, tutto per liberare Lucia dalla persecuzione di Don Rodrigo,
e per farla essere tranquillamente sposa di Fermo: accennando molto di più che
non dicesse, e allegando motivi di prudenza per non dir tutto, ripetendo ad
ogni momento che un po' di coraggio e molta precauzione poteva tutto salvare, e
una picciola indiscrezione perder tutto; che l'occasione era pronta, e per
coglierla non bisognava perder tempo; e terminò con dire che le bisognava in
quel momento un uomo da cui potesse aspettarsi un consiglio fidato, e un ajuto
operoso, che il solo uomo del mondo che fosse da ciò era quel padre guardiano
dal quale Lucia era stata scorta al monastero; che ella aveva bisogno di
parlare con lui ma che le mancava il mezzo di farlo avvertire con sicurezza,
giacché dopo d'aver riandate tutte le persone, tutti i modi per questa
spedizione, trovava in tutti il pericolo di farsi scorgere, di sventare il
segreto, di metter sull'avviso quelli a cui importava il più di tener tutto
nascosto, e di perdere così l'opportunità, anzi di avvicinare i pericoli: che
insomma per condurre bene a fine questa faccenda, era necessario che Lucia prendesse
un po' di risoluzione, si snighittisse, e facesse tosto, e segretamente e sola
questa commissione. Lucia a questa proposta rimase sopra di sè, poiché
allontanarsi dal monastero, andarsene soletta per un paese che era per lei come
l'America, era un gran pensiero: fece adunque come si fa ordinariamente quando
non si vorrebbe aderire ad una proposta: si mise a discuterla, per poter
conchiudere che non era la sola cosa da potersi fare: disse che la Signora
avrebbe potuto trovare altre persone fidate e discrete, domandò schiarimenti,
volle sapere più addentro come la commissione fosse necessaria, e come essa
fosse la sola che la potesse eseguire. Ma la Signora memore sempre della scuola
di Egidio, mostrò prima di offendersi, rispose ancor più misteriosamente alle
domande, lagnandosi di Lucia che pretendesse farle rivelare ciò ch'ella non
poteva, e che non volesse fidarsi di chi senza un interesse, per pura pietà si
prendeva tanta cura di lei; e conchiuse finalmente col dire: «Sono ben io la
buona donna a pigliarmi di questi travagli: si tratta di voi, finalmente; io me
ne lavo le mani: ho fatto ancora più ch'io non dovessi». Lucia commossa in un
punto di vergogna e di timore, stava per piangere; e la signora vedendola
arrivata a quel punto, ripigliò il suo discorso, la sgridò più amorevolmente,
la rimproverò di poco coraggio; le promise che non le sarebbe mai mancata se
ella avesse avuta fede in lei; e infervorata com'era nell'impresa di tradire la
poveretta per servire lo scellerato Egidio, con ipocrisia sfrontata le disse
che pensasse ai rimproveri che ella farebbe un giorno a se stessa di avere per
irresolutezza, per infingardaggine rifiutato il mezzo della salute, e rovinata
se stessa, la madre, e l'uomo a cui ella s'era promessa. Lucia non seppe più
resistere, si accusò di aver resistito, le parve che avrebbe rifiutato il
soccorso del cielo, rifiutando quello che le era offerto, piena di una novella
fiducia disse: «vado tosto». Geltrude l'accomiatò, lodandola, facendole animo,
e ripetendo le più liete promesse e indicandole la via per andare al convento.
Lucia ritenendo a forza il pianto chiese scusa alla Signora della sua poca
fede, e della sua ingratitudine. «Sono una poveretta senza pratica», diss'ella;
«ma già ella tutte queste brighe non se le deve pigliar per me, ma per Quello
di lassù, che gliele rimeriterà tutte», e abbandonandosi alla grata, colle
braccia tese, continuò: «se non fossero questi ferri, mi pare che le getterei
le braccia al collo, ed ella non se lo avrebbe a male, perché è tanto buona, ed
io lo faccio per cuore».
«Sì sì, Lucia, addio, addio», disse Geltrude.
«Dio la benedica» rispose Lucia, e staccatasi dalla grata, si volse, e si
avviò verso la porta del parlatorio.
— Che orrenda parola! — disse in suo cuore Geltrude: Dio gliele
rimeriterà tutte, e alzando gli occhi vide Lucia, che stava per passare la
soglia. Finché Lucia aveva litigato contra le persuasioni di Geltrude, questa,
impegnata ad ottenere l'intento di Egidio, animata dalla disputa stessa non
aveva pensato ad altro che a giungere al suo fine, ma quando vide il
cangiamento di Lucia, quando vide la sua fede sicura, intera, amorosa, e pensò
che la tradiva, quando vide la vittima andare così senza sospetto all'orribile
sagrificio, un sentimento improvviso, indistinto, irresistibile le fece
pronunziare quasi macchinalmente queste parole: «Sentite Lucia». Lucia
ristette, si rivolse, ritornò alla grata. Ma, nel momento che Lucia spese a
fare quei pochi passi, l'immaginazione di Geltrude aveva già veduto Egidio
furibondo per essere stato ingannato, aveva già udite le sue imprecazioni, le
sue minacce, s'era già pentita del suo pentimento, e quando Lucia ristette alla
grata per intendere ciò che Geltrude avesse di nuovo a dirle; Geltrude
confermata nella iniquità: «senti Lucia», le disse, «ricordati bene di tutte le
avvertenze che ti ho date; procura di tirarti in mente la strada che tu hai
fatta venendo qui; se fossi in dubbio, domanda con indifferenza e con
franchezza a qualche buona donna che passi per via; va in modo di non dar
sospetto: fatti animo, ché già non è il viaggio di Madrid: va e torna presto».
«Oh», disse Lucia, «Dio mi accompagnerà»; e si volse di nuovo, s'avviò
verso la porta, e passò la soglia. Geltrude corse a chiudersi nella sua stanza.
Quivi l'abbandona il nostro autore; né in tutto il resto del manoscritto ne fa
più menzione. Noi però, trovando descritti dal Ripamonti gli ultimi casi di
questa sventurata, stimiamo che monti il pregio d'interrompere un momento la
narrazione principale, per accennarli. Ci sembra anzi una specie di dovere per
noi, quando abbiamo raccontati i delitti, di non tacere il pentimento, di non
tacere che l'orrore a noi così facilmente ispirato da quelli, la religione ha
potuto ispirarlo ancor più forte e più profondo all'anima stessa, che gli aveva
acconsentiti e commessi. Riferiremo quei casi in compendio; chi volesse
conoscerli più in particolare, li troverà esposti in bel latino nella Storia
patria del Ripamonti, al libro sesto della quinta decade. Siccome egli non
vi pone alcuna data, così non possiam dire di quanto sieno posteriori alle cose
già da noi narrate.
La condotta, il linguaggio, l'aspetto abituale delle tre sciagurate
suore, le loro stesse precauzioni, per distornare i sospetti, ne fecero,
com'era naturale, nascere dei nuovi, che dopo d'aver serpeggiato nel monastero,
si diffusero al di fuori. Due vicini di quello che ebbero la sciagura di
ricevere qualche prima confidenza di quei sospetti, un fabbro ed uno speziale,
accennarono copertamente in qualche discorso, che in un monastero del paese
accadevano cose orrende e turpi: l'uno e l'altro furono trovati uccisi. Un
terrore misterioso invase tutti gli animi nel monastero e fuori; ai susurri che
già cominciavano a farsi sentire nelle brigate, successe un silenzio cupo e
significante, e nelle relazioni più intime, gli sguardi, i cenni, le parole
sospese esprimevano o accennavano un sospetto e uno spavento comune. Questi
romori così vaghi e generali com'erano, furono riferiti al cardinale Federigo
Borromeo arcivescovo di Milano. Egli dolente e turbato d'essere così tardi
avvertito, si portò a Monza sotto colore d'una visita generale, e venne a
colloquio colla Signora, per esplorare dalle sue parole lo stato dell'animo
suo; e ne uscì con più grave e più fondato sospetto. D'allora in poi, la Signora,
irritata dai sospetti che vedeva starle sopra, agitata dalle certezze della
coscienza; esaltata per così dire dal suo stesso turbamento, perdè tutta la
prudenza della colpa, le sue azioni divennero affatto indisciplinate, i suoi
discorsi strani, furiosi, inverecondi. La giurisdizione criminale su le persone
addette allo stato religioso era allora esercitata dai vescovi. Il cardinale
fece torre la Signora da quel monastero, e trasportarla in un convento di
convertite nella città. Ivi l'infelice infuriò per qualche tempo: tentò di
fuggire, tentò di uccidersi, ricusò il cibo, diede del capo nelle muraglie;
urlava tutto il giorno, bestemmiava più di tutto il cardinale: contra il quale
tale era l'odio di lei, ch'ella ebbe a dir poscia che tutte le inimicizie che
gli uomini chiamano mortali, erano un giuoco appo di quella ch'ella sentiva per
lui.
Intanto lo scellerato vicino ripose il piede nel monastero, e parte colla
persuasione, parte colle minacce astrinse le altre due sue vittime a seguirlo,
e di notte con esse fuggì. Ma, o fosse disegno premeditato di quell'animo
atroce, o ebbrezza di scelleraggine, poco distante dal paese, in riva al
Lambro, una dopo l'altra le trafisse con un pugnale, gittando l'una nel Lambro,
e l'altra in un pozzo rasciutto ed abbandonato nei campi. Ma le ferite non
furono mortali, ed entrambe le donne furono salve per diversi eventi e
rinvenute, e riposte a guarire in un altro monastero del borgo.
La Signora all'annunzio di tali atrocità, tutta, tutto ad un tratto si
mutò; rivolse in orrore di se stessa, in pentimento, in dolore ineffabile, in
lagrime inesauste tutto quell'impeto di furore; e da quel momento fino al suo
ultimo respiro non si stancò mai di espiare almeno ciò che non poteva più
riparare. Il Cardinale ch'ella chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un
freno ai rigori ch'ella esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la
consolò sovente. Pagò egli poi sempre le spese del suo mantenimento, perché i
parenti, come se col rifiutare quella sventurata avessero potuto scuotersi da
dosso la colpa che avevano nella sua rovina, non vollero più udirne parlare. Le
due compagne la imitarono nella penitenza. Ma il miserabile pervertitore di
tutte, bandito nella testa, dopo d'avere errato qua e là, cangiato più volte
d'abiti, e di nome, chiese asilo in città ad un amico, che lo accolse; ma come
amico d'un tale uomo, o per timore, o per ottener grazia di qualche altro
delitto, lo fece uccidere in un sotterraneo della casa, e presentò la sua testa
al giudice, come era prescritto dagli ordini di quel tempo, i quali nel caso
dei banditi costituivano carnefice ogni cittadino, e offerivano o danari, o
impunità per altri delitti in mercede all'assassinio.
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Lucia uscì nella via, e s'incamminò con grande attenzione, con gran
riserbo, con un gran battito al cuore, tutta raccolta in sè, studiando la
strada, con le indicazioni che aveva avute, e con la memoria che le restava
della strada già fatta. Giunse così all'uscita del borgo (perché il convento
dov'ella s'avviava era al di fuori in picciola distanza): riconobbe la porta
per dov'era entrata la prima volta, e prese a sinistra la via che l'era stata
insegnata.
Tutte le strade del Milanese erano a quel tempo anguste tortuose, e nel
pian paese profonde e come quivi si dice invallate, a guisa di un letto di
fiume, fra due rive di campi alte non di rado un uomo, e orlate di piante che
intrecciate al pedale di rovi, di biancospini, e di pruni riunivano in alto i
rami loro in volta dall'una all'altra parte: e tali sono ancora in gran parte le
strade comunali. Quando Lucia si trovò soletta in una strada simile, si pentì
quasi di essersi tanto rischiata, e studiò il passo per giunger presto,
proponendo fermamente di non ritornar dal convento a casa senza una qualche
scorta. Ma voltato uno di quei tanti andirivieni, vide una carrozza da viaggio
ferma nel mezzo della via, e fuori della carrozza innanzi allo sportello che
era aperto due uomini che guardavano su e giù per la via come incerti del
cammino: e per quella presunzione comune che coloro i quali vanno in carrozza
sieno galantuomini, Lucia si sentì tutta rincorata, e le parve d'aver trovata
una salvaguardia alla metà appunto del cammino, nel luogo più lontano
dall'abitato, e dove il bisogno era più grande.
Continuò adunque più animosamente a camminare; e quando fu presso alla
carrozza tanto che si potessero distinguer le parole, intese uno di quelli che
stavano al di fuori dire con una pronunzia e con un linguaggio che lo fece
conoscere a Lucia per bergamasco: «Ecco una buona donna che c'insegnerà la
strada». Giunta a paro della carrozza, quel medesimo le si volse con un atto
più cortese che non fosse la sua faccia, e le disse: «buona giovane sapreste
voi insegnarci la strada di Monza?» Mentre costui parlava, l'altro s'era posto
dinanzi a Lucia in modo da sbarrarle la via, ma come un uomo che sta per udire:
«Loro signori», rispose Lucia, «sono voltati a rovescio: Monza è per di qua»
(alzando la mano e stendendo il pollice al disopra della spalla): «girino la
carrozza, e vadano per questa strada, e saranno a Monza in poco più d'un miserere».
Così detto, voleva continuare il suo cammino, e s'avvicinava alla riva per
passare senza urtare quel forastiero che stava lì ritto come un termine, e
senza dirgli che facesse largo, cosa che alla nostra povera forese sarebbe
sembrata troppo famigliare. «Un momento», disse colui che le aveva già parlato,
ritenendola dolcemente: «noi siamo ben impacciati in queste strade dell'altro
mondo: non potreste voi farci la cortesia di salire in carrozza con noi, e d'insegnarci
la strada fino a Monza?»
«Signori miei», disse Lucia arrossando, e maravigliandosi della proposta,
«io ho fretta d'andare pei fatti miei; vadano per di qua, e non possono
fallire». «Voi siete bene schifa», rispose il malandrino, e mentre egli proferiva
queste poche parole, l'altro che era nella via, afferrò d'improvviso Lucia pei
fianchi, la sollevò, e con l'ajuto del compagno la pose a forza nella carrozza,
dove fu tosto presa, ritenuta, posta a sedere da due che vi erano: il
malandrino che aveva parlato la seguì, l'altro chiuse lo sportello, e il
cocchiere sferzò i cavalli, e la carrozza partì di galoppo. Lucia al sentirsi
presa levò un grido, lo raddoppiò quando si sentì alzata e ficcata nella
carrozza, ma quando vi fu, una manaccia villana le cacciò un fazzoletto sulla
bocca, e le soffocò il grido nella gola: Lucia si divincolava ma era tenuta da
tutte le parti, faceva forza per pingersi verso lo sportello, per farsi vedere
alla strada, ai campi, ma due braccia nerborute la tenevano per di dietro come
conficcata al fondo della carrozza, due braccia nerborute ve la rispingevano
per dinanzi, mentre tre bocche d'inferno dicevano con la voce più dolce che era
lor concesso di formare: «Zitto, zitto, non abbiate paura, non vogliamo farvi
male; non è niente, non è niente». Lucia tra per la sorpresa, tra per lo
terrore che andava sempre crescendo, tra pei pensieri tutti oscuri, e tutti
orrendi che le passavano in furia per la mente, tra per lo sforzo che faceva e
quello che pativa, sentì mancare gli spiriti: le sue idee si abbujarono,
cominciò a veder come confusi fra di loro quegli orridi visacci che le stavano
dinanzi, un sudore freddo le coperse il volto, allentò le braccia, lasciò
cadere indietro la testa, abbandonò la persona al fondo della carrozza, e svenne.
«Coraggio, coraggio» dicevano gli scherani, ma Lucia non intendeva più
nulla.
«Diavolo!» disse uno dei malandrini; «par morta».
«Niente, niente», disse un altro, «ci vorrebbe un po' d'aceto da
mettergli sotto il naso».
«È lì covato l'aceto...» disse il terzo: «se potesse servire quel fiasco
di vino che è riposto lì sotto il sedile».
«Che vino?» riprese il secondo, «aceto vorebb'essere».
«Vedete che mala ventura», disse ancora il terzo; «se giungessi arso di
sete in una osteria disabitata, a cercar vino, troverei aceto, e qui che aceto
ci vorrebbe...»
«Taci gaglioffo, che non è tempo da sciocchezze», interruppe il secondo.
«Ohe!» disse il primo, «non dà segno di vita: se fosse morta davvero
avremmo fatta una bella spedizione».
«Noi abbiamo eseguiti gli ordini puntualmente», rispose il secondo; «se
fosse accaduta una disgrazia non è nostra colpa».
«Che morta?» disse il terzo: «è un picciolo fastidio che le è venuto: eh!
le donne ne hanno per meno d'assai: or ora tornerà in sè».
Mentre quegli sciagurati tenevano questo consiglio, ed esprimevano la
loro inquietudine in uno stile degno del loro animo, la carrozza era uscita
dalla via più battuta, aveva imboccata una stradella di traverso pei campi, e
continuava rapidamente il suo cammino.
Intanto colui che aveva afferrata Lucia, ed era un bravo di Egidio
rimasto nella strada quando la carrozza partì, si guardò intorno, e certo che
nessuno lo aveva scorto spiccò un salto sul pendio d'una riva, abbrancò un ramo
della siepe, con un altro salto fu sull'alto della riva, e si appiattò in un
polloneto di castagni che conservavano ancora tanto delle lor foglie da
nascondere un birbone. Il primo grido di Lucia era stato inteso nei campi di
qua e di là da pochi lavoratori che v'erano, e questi accorsero alla riva per guardare
nella strada che fosse, ma cercando di adocchiare nascosti dalla siepe per non
entrare in qualche impiccio, per non toccarne, per non essere citati come
testimonj, per non arrischiarsi in somma, che è il pensiero il più comune nei
tempi in cui i violenti fanno la legge. Mettevano la faccia ai fori della siepe
e guatavano: altri vide una carrozza che si allontanava di galoppo, e stette lì
qualche tempo a seguirla col guardo a bocca aperta; altri non vide nulla e si
fermò pure qualche tempo, altri che era accorso ad un punto della via per cui
la carrozza non era ancora passata, la vide venire, trascorrere, vide una bocca
d'arcobugio che usciva dallo sportello, e si ritirò tosto, fingendo di non aver
nemmeno badato. Tornati poi a casa, raccontarono quello che avevano veduto, e
si sparse la voce che qualche cosa era accaduta. Il bravo d'Egidio quando sentì
tutto quieto intorno al suo nascondiglio, ne uscì per una parte che dava su una
via diversa, e con l'aria d'un uomo che non ha intesa una novità se ne andò a
render conto al padrone dell'esito felice della spedizione. Egidio lo
ricompensò di quattrini e di lodi, e lo mandò tosto attorno per raccontare la
novella nel modo che ad entrambi e ai loro amici conveniva che fosse creduta, o
almeno per confondere il giudizio pubblico e stornarlo dalle congetture che
potevano condurlo alla verità. Il bravo tolse con sè, senza saperlo, quella dea
che ha tanti occhi quante penne, e tante lingue quanti occhi, (e debb'essere
una bella dea) e si avviò. Il campo più opportuno ad un tal uomo e ad un tale
ufficio, la taverna, era allora deserto a cagione della carestia che di giorno
in giorno cresceva e si diffondeva in tutte le parti del Milanese: mangiare e
bere non era più per nessuno un oggetto di divertimento; era divenuto per tutti
un bisogno difficile da soddisfare. Andò dunque in su la piazza, luogo sempre
popolato di oziosi, ma più che mai in quell'anno calamitoso, in cui erano
forzati all'ozio anche i più operosi. Quella piazza di Monza come tutte le
piazze, tutte le vie, tutti i campi della Lombardia presentava il più tristo
spettacolo. Poveri di professione che dopo d'avere invano domandato un soccorso
ad uomini divenuti poveri anch'essi, stavano in fila l'uno appresso dell'altro
appoggiati ad un muro soleggiato stringendosi di tempo in tempo nelle spalle,
aggrinzati, cenciosi, aventi un bordone nella destra, e tenendo stretta tra il
braccio sinistro e le costole una arida scodella di legno, aspettando l'ora
d'andare a ricevere quel poco nutrimento che si poteva distribuire alle porte
dei conventi, dei monasteri, di qualche facoltoso caritatevole. Qua e là
crocchj di artigiani senza lavoro, di contadini quasi senza ricolto, di
possidenti altre volte agiati ma che in quell'anno sapevano di dover combattere
con la fame, tutti tristi, sparuti, scorati: i più rubesti, i meglio pasciuti
che si vedessero erano qualche bravi, che vivevano delle provvigioni dei
potenti a cui servivano, e ai quali nessun fornajo avrebbe osato di dare un
rifiuto o di richiedere un pronto pagamento. I discorsi abituali di quei
crocchj erano miseria e disperazione: vociferazioni contra i fornaj e contra
gli accapparratori, imprecazioni mormorate sommessamente contro i potenti,
contra i magistrati, racconti di grano partito, di grano arrivato ed occultato,
di morti di fame, e di tumulti in altre terre dello stato. Pochi giorni prima
una gran parte del popolo si era sollevata in Milano; e dopo quel sollevamento
estinto con le promesse, e seppellito coi supplizj, si erano pubblicate leggi
quali il popolo le desiderava. Questo fatto era stato in tutta la Lombardia ed
era ancora il soggetto dei discorsi; e il fatto come le conseguenze era narrato
diversamente, come suole accadere: ognuno arrecava qualche nuova circostanza
che dava luogo a qualche nuova riflessione. Ma in quel momento in Monza
l'avvenimento locale occupava tutti i pensieri, e tutte le bocche: in tutti i
crocchj si parlava di Lucia. Il bravo si avvicinò ad uno di quelli, come uno
sfaccendato, e stette ascoltando. «Erano due carrozze di signori bergamaschi»
diceva un barbassoro, «accompagnate da uomini a cavallo: la giovane si mise a
fuggire pel campo di Martino Stoppa, ma fu raggiunta, e portata via di peso». E
continuò con voce più sommessa in aria misteriosa: «debb'essere qualche gran tiranno
bergamasco». «Io ho inteso da chi l'ha inteso da uno che v'era», disse un
altro, «che le carrozze erano tre, e che la gente le fece fermare; ma quei
signori misero fuora gli archibugi, e allora, mi capite, i galantuomini hanno
dovuto dar luogo». «Poh!» disse il bravo, «vedete un po' come le cose si
contano. A me ha detto uno là (accennando un crocchio lontano) che la giovane
era daccordo, che si era trovata lì per andarsene, e che quegli che l'ha
portata via era un suo innamorato». «Oh», disse uno, «se la cosa fosse così, se
ne sarebbe andata senza schiammazzo». «No», rispose il bravo, «perché aveva
promesso ad un altro per far piacere ai suoi parenti; e voleva far credere di
esser rapita. Così dicono quelli che pretendono d'essere informati». «Ohe!» disse
un altro barbassoro, «che la fosse una mostra per ingannare i merlotti!» Questa
opinione dopo un breve dibattimento prevalse; perché essendo quella che
supponeva nel fatto una malizia più raffinata, veniva a supporre più fino
accorgimento in chi la teneva: e chi l'avesse rifiutata poteva passare per un
semplicione da lasciarsi ingannare alle più grossolane apparenze di virtù.
Quando il degno servitore di Egidio vide che la sementa non era gittata
in terreno sterile e che avrebbe fruttato, si spiccò da quel crocchio dicendo:
«Oh avete il buon tempo voi altri: per me m'accontenterei che sparissero tutte
le giovani purché venissero pagnotte abbastanza». Quegli altri ad uno ad uno se
n'andarono chi qua chi là a riferire la storia; si disputò assai; le opinioni
rimasero divise, ma la più preponderante fu quella che dava occasione di
ragionare profondamente sulle astuzie delle donne che fanno la semplice, sulla
dabbennaggine della Signora, che aveva raccolta quella mozzina. Il tiro della
povera Lucia fu raccontato con mille particolari; si riferirono di lei mille
altre astuzie. Il romore giunse ben presto al monastero: già la fattora tornata
a casa, non trovando Lucia, sulle prime pensò ch'ella fosse andata alla Chiesa
del monastero; non vedendola poi ricomparire, stava per andarne in cerca,
quando s'intese che Lucia era stata rapita, o si era fatta rapire. Il monastero
fu sottosopra. La Signora (quando ci siamo rallegrati di non aver più a
parlarne ci era uscito di mente che avremmo dovuto far qui menzione di essa: ma
ce ne sbrigheremo in due parole) la Signora a tutto addottrinata fece le
maraviglie, mandò gente in cerca, non volle credere che Lucia le avesse fatto
un tiro di questa sorta, disse che era pronta a metter la mano nel fuoco per
quella ragazza. Mandò finalmente a chiamare il padre guardiano che gliel'aveva
raccomandata. Ma il padre guardiano al quale pure erano giunti i diversi romori
del fatto era in istrada, per udire dalla Signora come la faccenda fosse. La
Signora si mostrò con lui come con gli altri tutta maravigliata: disse che
sperava ancora che Lucia verrebbe, che sarebbe una di quelle tante ciarle che
mettono attorno gli scioperati. «Se m'avesse ingannato...» aggiunse; «ma non lo
posso credere di quella ragazza. Ad ogni modo io sono tanto più afflitta di
questo tristo accidente, in quanto io aveva pensato seriamente ad ajutare
questa povera giovane, e credeva di aver trovato ajuti nelle mie aderenze per
metterla al sicuro dal suo persecutore. Aveva anzi molto desiderio di sentire
il parere del padre guardiano, ma ora questi disegni non servono più a nulla».
È chiaro che la Signora gittò queste poche parole, per potere in caso
spiegare la commissione da lei data a Lucia, se mai questa potesse un giorno
rivelarla; per potere allora far vedere che non era stato un pretesto per
allontanarla, e darla in mano ai rapitori. Ma della commissione la Signora non
ne parlò al guardiano; probabilmente perché non voleva che si dicesse che Lucia
si era posta su quella strada per suo ordine, e ne nascesse qualche sospetto.
Se questa fosse una storia inventata, non mancherebbe certamente qualche
lettore il quale troverebbe un gran difetto di previdenza nella perfidia ordita
da Egidio e dalla Signora, poiché se Lucia avesse un giorno potuto parlare, se
si fosse risaputo che quando fu presa ella andava per ordine di Geltrude,
quanto maggior sospetto non sarebbe caduto sopra di questa, per avere essa
taciuta al guardiano una circostanza tanto importante, della quale doveva così
ben ricordarsi, che non avrebbe certo dissimulata se avesse operato
schiettamente. Quei lettori i quali vorrebbero che in una storia anche le
insidie fossero fatte perfettamente, se la prenderebbero coll'inventore: ma
questa critica non può aver luogo perché noi raccontiamo una storia quale è avvenuta.
Del resto questo stesso difetto ci dà il campo di porre qui una riflessione
consolante in mezzo ad un sì tristo racconto: che è un disegno sapientissimo
della Provvidenza regolatrice del mondo, che le perfidie le più studiate a
danno altrui non sono mai tanto bene studiate, tanto bene eseguite che non
rimanga sempre qualche traccia della mano che le ha ordite. L'uomo che
intraprende una buona azione, quando sia un po' avvezzo a riflettere prevede
sovente che non sarà senza inconvenienti: i birbanti avrebbero una parte troppo
buona nelle cose di questo mondo se dovessero nelle loro birberie essere esenti
da ogni perplessità.