Giunti a questo punto della nostra storia noi ci fermiamo per qualche
momento con gioja, come il viaggiatore del deserto s'indugia a diletto alla
frescura ristoratrice d'una oasis ombrosa, dov'egli abbia trovata una sorgente
di acqua viva. Poiché ci siamo avvenuti in un personaggio, la memoria del quale
apporta una placida commozione di riverenza, una nuova giocondità anche alla
mente che già stia contemplando, e scorrendo fra gli uomini i più eletti che
abbiano lasciato ricordo di sè sulla terra: or quanto più un po' di riposo
nella considerazione di lui debb'essere giocondo a noi che da tanto tempo siamo
condotti da questa storia per mezzo ad una rude, stolida, schifosa perversità,
dalla quale certamente avremmo da lungo tempo ritirato lo sguardo, se il
desiderio del vero non ve lo avesse tenuto a forza intento!
Federigo Borromeo fu uno degli uomini rarissimi in qualunque tempo, i
quali adoperarono una lunga vita, un ingegno eccellente, un animo insistente
nella ricerca «di ciò che è pudico, di ciò che è giusto, di ciò che è santo, di
ciò che è amabile, di ciò che dà buon nome, di ciò che ha seco virtù, e lode di
disciplina». Nato coi più bei doni dell'animo, il primo uso che egli fece della
sua ragione fu di coltivarli con ardore e con costanza, di custodirli con una
attenzione sospettosa, come se fino d'allora egli ponesse cura a conservare
tutta bella, tutta irreprensibile una vita, che in progresso di tempo avrebbe
avute età così splendide: e infatti la vita di lui è come un ruscello che esce
limpido dalla roccia, e limpido va a sboccare nel fiume: tutto ciò che si sa di
lui è gentilezza, e sapienza: e gli errori stessi che la prepotenza
dell'universale consenso aveva imposti alla sua mente, sono sempre accompagnati
e quasi scusati da una intenzione pura, e l'applicazione di esse alle cose della
vita è stata per lui un esercizio di tutte le virtù. Fanciullo grave e sobrio,
giovane pensoso e pudico, uomo operoso quant'altri mai fosse, senza mai nulla
intraprendere, né maneggiare, né condurre a fine per un interesse privato di
qualsivoglia genere, vecchio soave e candido, egli ebbe in ogni età le virtù
più difficili, gli ornamenti più rari, ma non in modo che escludessero i pregi
più comuni in quella età a tutti gli uomini. Nutrito tra le pompe e lo
splendore delle ricchezze, fra quel basso corteggio che coglie i fortunati del
secolo alle prime porte della vita, per corromperli, per cattivarli, per farli
fruttare, egli scorse dai primi suoi giorni che l'umiltà, e la staccatezza sono
verità, bellezza, e le prescelse: posto sotto la disciplina del suo celeste
cugino San Carlo, in presenza di quella virtù severa, e malinconica, l'animo
puerile di Federigo non fu disgustato dalla severità, e sentì l'ammirazione e
la docilità volonterosa per la virtù. Si diede ardentemente allo studio dalla
fanciullezza: ma i metodi stolti d'insegnamento, ma la confusione e la
stoltezza delle cose insegnate, il sopracciglio comicamente grave dei maestri
lo svogliarono dall'apprendere; e fu questo, o doveva essere il primo segno
della eccellenza del suo ingegno. Stomacato dei libri e delle lezioni si diede
tutto all'armi e ai cavalli; ma durò in quegli esercizj sol tanto quanto
bastasse a mostrarlo disposto ad ogni esercizio che domandi una prontezza di
qualunque genere. Il fanciullo voleva sapere, e andava interrogando tutti
quegli che egli credeva sapienti; e da tutti gli veniva risposto, che i libri e
la scuola soltanto potevano condurlo alla scienza. Sospinto da questa
uniformità di consenso, egli tornò voglioso ai libri ed ai maestri; e finì a
stare con quelli perseverantemente, vincendo con la volontà le ripugnanze delle
quali egli non poteva allora comprendere la ragione profonda. Giovanetto fra i
giovanetti nello studio di Pavia, egli trovò quivi stabilite consuetudini,
massime, opinioni che distribuivano lode e biasimo alla differente condotta; e
non ne fece alcun conto: regolò la sua condotta coi suoi principj, come avrebbe
fatto in un eremo, senza esitazione, senza braveria; e solo da prima, opposto
quasi in tutto al tipo prescritto dall'opinione, rifiutando tutte le cose che
davano la gloria, facendo quelle che rendevano ludibrio, fu in poco tempo
oggetto della venerazione dei suoi condiscepoli. Uomo fatto poi, cardinale,
arcivescovo, sempre continuò in quella disciplina, di meditare ciò che fosse il
comandato, e il meglio, e di eseguirlo, non riguardando nei giudizj degli
uomini se non ciò che potesse essere una vera ed utile correzione per lui, o il
segno di una irritazione e di una resistenza dannosa ai resistenti, e che
potesse essere impedimento al bene ch'egli intendeva di operare. Fu quindi
moderato ed umile tra il favore e gli applausi, placido e fermo tra i
contrasti, non avendo di mira che la cosa da farsi, e il perché, e l'effetto.
Veduta la bellezza, l'utilità, e la possibilità d'un disegno, egli lo intraprendeva,
ne curava attentamente il complesso e i minimi particolari con quella unità di
attenzione che non sorprende chi rifletta alla unità ch'egli aveva del fine.
Edificò dai fondamenti la biblioteca a cui volle dare il nome di Ambrosiana, la
dotò di libri, di manoscritti, di macchine, di monumenti d'arte, vi raccolse
professori, e nello stesso tempo poneva cura che le reliquie della sua mensa
piuttosto povera che frugale fossero diligentemente raccolte, e date ai
poverelli; tutto era per lui benevolenza, e cura degli altri. Così egli chiamò
da lontano professori di lingue orientali per introdurre se avesse potuto, ogni
coltura in quella rozza, ostinata, e presuntuosa barbarie nella quale egli
sentiva di vivere; spedì uomini dotti quanto allora si poteva per l'Italia, per
la Francia, per la Germania, per la Spagna, per la Grecia, nella Siria, a fare
incetta di libri, di manoscritti, di ogni cosa che potesse essere stromento di
studio e di coltura: e diede ad essi istruzioni, avviamenti, consigli: e per la
medesima accuratezza di ben fare, in questa stessa carestia di cui abbiamo già
toccato qualche cosa in questa storia, egli oltre i soccorsi che distribuiva,
alla sua casa, alle case dei poverelli, pensò anche di mandare attorno
sacerdoti, che raccogliessero i poverelli che mancanti di soccorso cadevano
sfiniti per le vie, e dessero loro i conforti della religione: e insieme coi
sacerdoti mandò facchini che portassero pane, vino, minestra, uova fresche,
brodi stillati, aceto, per nutrire, per confortare coloro che cadessero per
inedia; e tutti questi particolari erano meditati da lui, perché tutto quello
che fosse utile era per lui importante, e l'idea grande e generale della carità
era dal suo cuore applicata tutta intera nei minimi suoi particolari. Così amava
egli oltre ogni compagnia quella dei dotti, e dei poveri, per vivere sempre
nell'esercizio delle sue più nobili facoltà. E da tanta operosità, da tante
cure del suo ministero, da tanti impicci in cui era tirato dalla confusione che
in quelle cure stesse avevano introdotta la confusione delle idee, e le
passioni degli uomini, egli sapeva togliere ancora assai tempo per impiegarlo
nello studio degli scritti i più stimati di qualunque tempo e di qualunque
nazione, e nel lavoro dei molti scritti ch'egli ha lasciati.
Noi non vogliamo qui esaminare tutti i pregi di quest'uomo; basti il dire
ch'egli ebbe principalmente le virtù più difficili, cioè le più opposte ai vizj
che signoreggiavano la generazione dei suoi contemporanei. Già forse l'amore
dell'argomento ci ha trasportati ad una prolissità nojosa; ma non possiamo a
meno di non avvertire una di queste virtù, perché è quella che non certo per la
sua importanza ma per la rarità ci sembra degna di osservazione; ed è la
tranquillità e il contegno mirabile di Federigo. In un tempo in cui opinioni,
fatti, discussioni, odj, amicizie, delitti, giudizj, tutto era avventato e
precipitoso, in cui le virtù stesse avevano qualche cosa per dir così di
spiritato, e di fantastico, Federigo fu temperato, aspettatore, ponderato,
lento nel credere, nell'operare, nell'affermare, tutto condì con una
temperanza, che raddolcì in parte quell'impeto indisciplinato, e fu se non
altro ammirata da quegli stessi che ne erano incapaci.
È cosa degna di maraviglia e di osservazione che il nome di un tal uomo,
già ai nostri tempi, in una posterità così poco remota, sia non dirò
dimenticato, ma certo non ripetuto così sovente come si fa degli uomini più
illustri, che a questo nome sia appena associata una idea languida d'un merito
incerto, d'una eccellenza indeterminata, che questo nome pronunziato fuori
della patria di Federigo, e della società di quelli che più particolarmente si
applicano alle cose nelle quali egli fu attore, o passi inavvertito, o riesca
anche nuovo, e invece di risvegliare la memoria di una rara preminenza faccia
nascere la curiosità di sapere che abbia fatto colui che lo portava, e che
l'elogio che noi vi abbiamo unito abbia avuto bisogno di schiarimento e di
prove. E forse ancor più stupore deve nascere al pensare che un uomo dotato di
nobilissimo ingegno, avido di cognizioni, e perseverante nello studio,
sommamente contemplativo, e nello stesso tempo versato nelle società più varie
degli uomini, e attore in affari importanti, abbia posta ogni cura nel comporre
opere d'ingegno, ne abbia lasciato un numero che lo ripone tra i più fecondi e
i più laboriosi; e che queste opere d'un uomo che aveva tutti i doni per farne
d'immortali, non sieno ora quasi conosciute che dai loro titoli, nei cataloghi
di quegli scrittori che tengono memoria di tutto ciò che è stato scritto in un
tempo, in un paese. Ma la spiegazione di questo fenomeno si può forse trovare
nella condizione dei tempi in cui scrisse Federigo. A produrre quelle parole o
quei fatti che rimangono presso ai posteri oggetto di una ammirazione popolare
non basta la potenza di un ingegno né la costanza di una volontà: è duopo che
queste facoltà possano esercitarsi sopra una materia la quale abbia da sè
qualche cosa di splendido, di memorabile: gli uomini di tutte le età rimasti
insigni giunsero a quel grado di fama, o accompagnati da una folla d'uomini non
insigni com'essi, ma pure partecipi dei loro studj, curiosi delle stesse
cognizioni, ornati in parte della stessa coltura: o almeno combattendo contra
errori, abitudini, idee, che avessero qualche cosa d'importante, di
problematico, in quelle dottrine che sono un esercizio perpetuo dell'intelletto
umano, trovarono in somma una massa di notizie e di opinioni, un complesso di
coltura, sul quale fondarsi, dal quale progredire, al quale applicare gli
aumenti e le correzioni per cui la memoria del genio rimane.
Che se pure è viva tuttavia la fama e le opere di uomini vissuti in tempi
rozzissimi, lo è perché quei tempi erano sommamente originali, e quelle opere
ne conservano il carattere, e mostrano ai posteri un ritratto osservabile d'una
età che nessun'altra cosa potrebbe rappresentarci. Ma Federigo Borromeo visse
in tempi di somma, universale ignoranza, e di falsa e volgare scienza ad un
tratto, fra una brutalità selvaggia ed una pedanteria scolastica, in tempi nei
quali l'ingegno che per darsi alle lettere, a qualunque studio di scienza
morale, cominciava (ed è questa la sola via) ad informarsi di ciò che era
creduto, insegnato, disputato, a porsi a livello della scienza corrente, si
trovava ingolfato, confuso in un mare tempestoso di assiomi assurdi, di teorie
sofistiche, di questioni alle quali mancava per prima cosa il punto logico, di
dubbj frivoli e sciocchi come erano le certezze. Non v'è ingegno esente dal
giogo delle opinioni universali, e già una parte di queste miserie diventava il
fondamento della scienza degli uomini i più pensatori. Che se anche i più
acuti, profondi fra essi, avessero veduta e detestata tutta la falsità e la
cognizione, di quel sapere, avessero potuto sostituirgli il vero, giungere al
punto dove si trovano le idee e le formole potenti, solenni, perpetue; a chi
avrebbero eglino parlato? E chi parla lungamente senza ascoltatori? Il genio è
verecondo, delicato, e se è lecito così dire, permaloso: le beffe, il clamore,
l'indifferenza lo contristano: egli si rinchiude in sè, e tace. O per dir
meglio prima di parlare, prima di sentire in sè le alte cose da rivelarsi, egli
ha bisogno di misurare l'intelligenza di quelli a cui saranno rivelate, di
trovare un campo dove sia tosto raccolta la sementa delle idee ch'egli vorrebbe
far germogliare: la sua fiducia, il suo ardimento, la sua fecondità nasce in
gran parte dalla certezza di un assenso, o almeno di una comprensione, o almeno
di una resistenza ragionata. Veggansi per esempio le opere di eloquenza di due
sommi ingegni, vissuti in circostanze ben diverse nella età posteriore a quella
di Federigo, Segneri e Bossuet. Veggasi quali idee, quale abitudine di
linguaggio, quali pregiudizj anche suppongano le orazioni funebri di questo
negli ascoltatori di quelle; veggasi dalle prediche del Segneri che opinioni
egli doveva distruggere, in che sfera d'idee egli doveva attignere i suoi
mezzi, le sue prove per persuadere quegli ingegni, a quali costumanze egli
doveva alludere; nella differenza dei due popoli ascoltanti è certamente in
gran parte la spiegazione della somma distanza fra le opere di due ingegni
ognuno dei quali era grande. Prima che un popolo il quale si trova in questo
grado d'ignoranza possa produrre uomini per sempre distinti, è d'uopo che molti
sorgano a poco a poco da quella universale abiezione, che riportino su gli
errori, su la inerzia comune molte vittorie d'ingegno difficili, e che saranno
dimenticate; che attirino con grandi sforzi le menti a riconoscere verità che
sembrano dover essere volgari, che preparino agli intelletti venturi una
congerie d'idee delle quali o contra le quali si possano fare lavori degni di
osservazione; e che finalmente col progresso, con la esattezza, con la fermezza
e perspicuità delle idee migliorino a poco a poco il linguaggio comune,
dimodoché i sommi ingegni possano avere uno stromento che renderanno perfetto,
ma che pure hanno trovato adoperevole, possano per quell'istinto d'analogia che
ad essi soli è concesso, arrivare a quelle formole inusitate, ma chiare,
ardite, ma sommamente ragionevoli, nelle quali sole possono vivere i grandi
pensieri. Questo fa d'uopo; ovvero che la coltura più matura, più perfezionata
d'un altro popolo venga ad educare quello di cui abbiamo parlato. Allora
gl'ingegni singolari attirati dalla luce del vero da qual parte ella si mostri,
si levano dalla moltitudine dei loro concittadini, e tendono al punto che essi
scorgono il più alto. Cominciano allora le ire di molti, e i lamenti di altri
contra l'invasione delle idee barbare, contra la dimenticanza delle cose
patrie, contra la servilità agli stranieri, contra il pervertimento del
linguaggio e del gusto; e non si può negare che queste ire e questi lamenti non
atterriscano alcuni, e non gli contristino a segno di far loro abbandonare la
via di studio intrapresa; giacché fargli ritornare al falso conosciuto è cosa
impossibile. Ma v'ha pure di quegli ingegni ai quali è per così dire comandato
di fare; e questi tenendosi in comunicazione con un'altra età o con un'altra
società d'uomini, dicono ai loro contemporanei cose che questi ascoltano da
prima con disprezzo e con indifferenza, quindi in parte pure con qualche
curiosità quando la fama viene dallo straniero ad avvertirli che fra loro v'è
uno scrittore, imparano un poco mal loro grado, e sono poi quasi tutti concordi
sul merito dello scrittore quand'egli ha dato l'ultimo sospiro.
Così, un secolo forse dopo Federigo, cominciò a rinascere in Italia un
po' di coltura, e fra quella a sovrastare alcuni scrittori dei quali vivono le
opere e la memoria; ma i principj di quel risorgimento non furono un progresso,
un perfezionamento delle idee allora dominanti; fu una nuova coltura introdotta
in opposizione alle idee predominanti; sul che tutti concordano. Ma intorno
alla sorgente di questa nuova coltura v'ha due opinioni estremamente disparate.
Alcuni, anzi moltissimi, hanno creduto, e detto che dal fondo della ricchezza
letteraria del secolo decimosesto e dai pochi sommi scrittori più antichi sieno
state tolte le idee le quali hanno rinovellato lo spirito della letteratura, e
ricondotto il colto pubblico al senso comune; e che principalmente dai
canzonieri del Petrarca e del Costanzo sia stata tolta la luce che dissipò le
tenebre del seicento. Infatti i primi riformatori, si posero, come alla
faccenda più premurosa, ad imitare quelle rime che l'immortale Costanzo vergò,
per placare, se fosse stato possibile, quell'empia tigre in volto umano, su la
quale è così diviso e combattuto il sentimento della posterità. Poiché, quando
si pensa ai dolori intimi, incessanti, cocenti che quella tigre fece tollerare
a quel celebre sventurato, non si può a meno di non sentire per essa, voglio
dire per la tigre, un certo orrore, un rancore vendicativo. Ma quando poi si
venga a riflettere che senza quei dolori non sarebbero stati partoriti quei
sonetti e quelle canzoni, che senza quei sonetti e senza quelle canzoni,
l'Italia si rimarrebbe forse forse tuttavia nell'abisso del gusto perverso,
allora si prova una certa non solo indulgenza, ma riconoscenza per colei che
con la sua crudeltà fu occasione, fu causa d'un tanto utile e glorioso effetto,
si vede allora quanto sia vero che le grandi cognizioni non vengono
all'intelletto degli uomini che per mezzo di grandi dolori. Questo è detto
nell'ipotesi di coloro i quali tengono che la rivoluzione nelle lettere, il
ritorno ad un certo qual senso comune, che ebbe luogo nel principio del secolo
decimottavo, abbia cominciato dalla poesia, e sia venuto nella poesia dallo
studio ripreso dei cinquecentisti, e del Costanzo in ispecie.
Ma non si deve dissimulare che v'ha alcuni altri (pochissimi invero) i
quali tengono invece che la lettura degli insigni scrittori francesi, che
fiorirono appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano più stolide e più
vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro idea d'una
letteratura nutrita di ricerche importanti, di ragionamenti serj, di
discussioni sincere, d'invenzioni che somigliassero a qualche cosa di umano, e
di reale, diretta a far passare nell'ingegno dei lettori una persuasione
ragionata di chi scriveva, a condurre i molti ad un punto più elevato di
scienza, di sentimento a cui erano giunti alcuni con una meditazione
particolare. Scorgono costoro che questi italiani cominciarono ad imparare
dalla lettura di quei libri, e furono dal confronto nauseati degli scritti, dei
giudizj, degli intenti, dei metodi, delle riputazioni, di tutta insomma la
letteratura italiana di quel tempo; e cominciarono a porre essi nei loro
scritti una cura più esatta a cercare un vero importante, e lo fecero con una
mente più disciplinata, più addestrata a questa ricerca, e diffusero a poco a
poco nei cervelli dei loro concittadini il buon senso che avevano attinto.
Questa tengono essi che fosse non la sola cagione, ma la principale, la
prossima della rivoluzione generale e osservabile nel gusto letterario degli
italiani. I pochi i quali tengono questa opinione, si trovano in un
bell'impiccio; perché mettendola fuori, sono certi di acquistarsi il titolo di
cattivi cittadini; e fanno compassione; perché è doloroso il trovarsi tra la
necessità o di negare la verità conosciuta, o di acquistarsi un titolo brutto e
odioso. E in verità noi vorremmo avere qualche autorità, qualche appicco,
qualche entratura coi loro avversari, per poterli pregare di provare soltanto
con ragioni di fatto che quella opinione è falsa, e di lasciare da banda quel
titolo affatto estraneo alla questione, e fuori di proposito. E infatti, se
fosse a proposito, dovrebbe applicarsi a tutti gli uomini di qualunque nazione
sieno, i quali riconoscano che la loro possa essere stata coltivata con gli
studj d'un'altra: ora noi non applichiamo generalmente questa misura; poiché
quando troviamo negli scritti d'un francese quella opinione che la Francia
barbara, incolta, abbia ricevuta la luce delle lettere per mezzo dei grandi
scrittori d'Italia; noi non chiamiamo quella opinione una ingiuria fatta da
quegli scrittori alla loro patria, ma una generosa confessione del vero; non
gli chiamiamo cattivi cittadini, ma uomini veggenti, candidi, imparziali.
Ricordiamoci adunque che l'adoprar peso e peso, misura e misura, è cosa
abbominevole; e siamo coi nostri così giusti e indulgenti come siamo con gli
stranieri; senza pregiudizio però, giova ripeterlo, delle buone ragioni, che si
potranno dire quando a Dio piaccia, per provare a questi nostri che pigliano un
granchio.
Per vedere una volta quale di queste due opinioni sia la più ragionevole,
bisogna esaminare due gran fatti, o due serie di fatti. La prima; in che consistesse
principalmente la corruttela delle lettere nel seicento, se questa corruttela
sia stata una deviazione forzata dalla via tenuta nel cinquecento, quali idee
si siano perdute, quali pervertite da un secolo all'altro; giacché la
corruttela delle lettere non può essere altro che smarrimento, o pervertimento
d'idee, a meno che non si voglia ammettere una letteratura che non sia composta
d'idee. L'altra; quali, dopo quella abbominazione del seicento siano state le
idee introdotte negli scritti italiani, le quali hanno riprodotta una
letteratura ragionevole e splendida, hanno avvertita l'Europa che le lettere in
Italia non erano più come lo erano state per un secolo, una buffoneria, un
mestiere guastato, l'hanno costretta a rivolgersi con attenzione a questa parte
per udire con la speranza di una istruzione, d'un diletto razionale, quali
siano le idee uscite dall'Italia e ricevute in parte del patrimonio comune
della coltura Europea. Raccolti i sommi capi di queste idee della letteratura
italiana risorta, bisognerà ancora cercarne la sorgente; vedere se sieno state
riprese, svolte dagli scritti del cinquecento, o da che altra parte sieno
venute a fare impeto nella letteratura italiana. Quanto alla prima questione...
ma qui una buona ispirazione ci avverte che siamo fuori di strada; che musando
così in ciarle di discussione mentre si tratta di raccontare, noi corriamo
rischio di perdere, abbiamo forse già perduti i tre quarti dei nostri lettori;
cioè almeno una trentina; tanto più che questa fatale digressione è venuta
appunto a gettarsi nella storia nel momento il più critico, sulla fine d'un
volume, dove il ritrovarsi ad una stazione è un pretesto, una tentazione
fortissima al lettore di non andar più innanzi, dove è mestieri di una nuova
risoluzione, d'un generoso proposito per riprendere e quasi ricominciare il
penoso mestiere del leggere. Noi tronchiamo dunque subitamente questa
digressione, pregando quei pochi i quali l'avessero letta fin qui a fare le
nostre scuse a quelli che per noja avranno gettato il libro a mezzo di questo
capitolo, pregandoli anche di assicurarli che saltando tutto il capitolo
avrebbero la continuazione della storia, e di prometter loro in nostro nome,
che noi vi ci getteremo in mezzo a piè pari al principio del prossimo volume,
che la continueremo senza interruzione, seguendo fedelmente il manoscritto, e
mescolandovi del nostro il meno che sarà possibile.