A queste parole giunse egli alla soglia del palazzo del Capitano di
Giustizia. Entrò, salì, fu introdotto e fece ad un ufiziale, la sua relazione,
come era capitato all'osteria uno che non aveva voluto dare il suo nome, e come
egli oste dopo d'averlo ammonito di obbedire alle gride, dovette tacere per non
far nascere uno scandalo.
«Lo sapevamo», rispose l'ufiziale, con aria di importanza e di mistero:
«ma voi avete ben fatto di compiere il vostro dovere. Ora badate a non
lasciarlo partire costui».
«Col dovuto rispetto a Vossignoria», rispose l'oste, il quale con tutta
la sua prudenza, non aveva potuto a meno di non prendere un po' di quegli
spiriti arditi di che era piena l'aria in quel giorno, «col dovuto rispetto, io
faccio l'oste e non il birro: ho fatto il mio dovere: a lor signori tocca ora».
«Va bene, va bene», rispose l'ufiziale, il quale con tutta la sua
arroganza non aveva potuto a meno di non tremare un po' in tutta quella
giornata, e non sapeva ancora bene a che punto le cose si fossero. L'oste ne
andò pei fatti suoi.
La prima informazione, come il lettore se n'è addato certamente, era
venuta da quella falsa guida, la quale, per darne piena contezza, non era
niente meno che un bargello travestito, in traccia d'uno che gli desse una occasione
di farsi onore e merito, eseguendo gli ordini assai difficili che gli erano
imposti: e quest'uno fu il nostro povero Fermo.
Nel momento in cui la sommossa era al maggior grado di fermento e
l'assedio posto alla Casa del Vicario, molti magistrati, scapolando
furtivamente per vicoli, e per vie deserte s'erano riuniti nelle sale del
consiglio segreto, e quivi avevano consultato non senza tremore sulla urgenza
del caso. I pareri erano varj, proposti con esitanza, e abbandonati facilmente,
e non si conchiudeva, ma quando sul declinar del giorno venne la relazione, che
il Vicario era in salvo, che la folla cominciava a dissiparsi, un vecchio
machiavellista del consiglio segreto: «ah!» disse, «signori miei: ora il
partito è chiaro: centomila pani, e quattro capestri». Tutto quello che fu
detto da poi non fu che un commento a queste parole, e deliberazione sul modo
di condurle ad effetto. Si ordinò che fossero mandate guardie ai forni rimasti
intatti fin allora, per assicurarli, e per obbligare i fornaj a far pane in
abbondanza per l'indomani. Furono destinate persone autorevoli, e accette al
popolo, le quali di buon mattino assistessero ai forni in uno colle guardie, e
aggiungendo la persuasione alla forza, cercassero di regolare la distribuzione
del pane, e mantenessero la tranquillità: il prezzo del pane fu riabbassato a
quella prima tassa immaginata dal Ferrer. Si mandarono soldati a sgombrare la
via dov'era la casa del Vicario, dai pochi che v'erano rimasti: e la via fu
quindi sbarrata, e i soldati vi si posero a stazione, per togliere alla
sedizione il campo dov'ella aveva già ottenuta una vittoria, e dove
probabilmente ella si sarebbe presentata di nuovo per ricominciare la
battaglia. Finalmente furono spediti attorno tutti i membri di quella che il
popolo chiamava onorata famiglia con l'ordine di metter le mani su
qualcheduno dei capi, o dei più turbolenti, ma però in modo che il colpo fosse
sicuro, e non potesse dare occasione ad un nuovo ribollimento.
L'ordine era più facile da darsi che da eseguirsi: e per non parlare che
di ciò che si lega alla nostra storia, quel falso Ambrogio aveva girato lungo
tempo qua e là, su e giù, sempre in mezzo alle occasioni, senza poterne
cogliere una, vedendo i rei a centinaja, senza poterne fare un prigione, e si
rodeva come un cacciatore che viaggiando vegga levarsi a destra e a sinistra,
dalle macchie, tordi, starne, e pernici, e non abbia lo schioppo con sè; quando
gli capitò nelle ugne il povero Fermo, e vi rimase, come abbiamo veduto. Il
bargello malandrino andò tosto a riferire, come aveva colto in flagranti
uno che predicava, come l'aveva condotto all'osteria, come quegli aveva negato
obbedienza alla grida, ricusando di dare il nome, come poi egli uomo benemerito
glielo aveva cavato di bocca, e come finalmente la bestia era nel covo, e non
si trattava che di andarla a prendere. Il Capitano di giustizia, avrebbe voluto
che fosse presa subito subito senza tardare: — ma —, pensava egli, mettendo di
tratto in tratto la mano sulla sua bernoccola: — bisogna prima assicurarsi che
tutte le cose sieno quiete. — All'aurora tutto era disposto in modo che non si
credeva più che la forza potesse trovare ostacoli, e allora fu spedito il
bargello con un notajo e due birri all'osteria della luna piena. Saliti alla
stanza di Fermo, che dormiva, il bargello lo riconobbe, disse al notajo: «è
l'uomo», e partì. Fermo russava già da sette ore, e non avrebbe finito così
presto, se una mano che gli scoteva la spalla, e una voce che gridava: «Fermo
Spolino», non lo avesse fatto risentire.
Aperse gli occhj a stento, e guatò: era giorno fatto e la luce che
entrava per le impannate fece vedere a Fermo un uomo ravvolto in una cappa nera
stargli al capezzale da un lato, e due in farsetto armati, l'uno dall'altro
lato del capezzale, e l'altro a piedi del letto. Mentre Fermo andava
raccapezzando le sue idee, e cercando di ricordarsi delle circostanze che gli
pareva di dover sapere, per potere comprendere quelle che gli erano affatto
nuove e strane, s'udì dire dall'uomo della cappa nera: «alto, su, Fermo
Spolino, alzatevi e venite con noi».
«Che vuol dir questo?» disse Fermo quando potè aver la favella, e nello
stesso tempo dubitando che fosse un sogno, scuoteva la testa e dimenava tutte
le membra per destarsi affatto.
«Ah! avete inteso una volta, Fermo Spolino?», disse l'uomo dalla cappa
nera, «alzatevi, e venite con noi, che non abbiam tempo da perdere».
«Fermo Spolino!» disse Fermo Spolino. «Chi v'ha detto il mio nome?» — Che
sia uno stregone costui vestito di nero? — mormorò tra sè; «Ehi! l'oste, l'oste!»
gridò quindi a quanto fiato aveva in corpo.
«Meno ciarle, e su!» disse uno di quei birri.
«Che prepotenza è questa?» disse Fermo, «ah! adesso mi ricordo... badate
bene a quello che fate: non è più come una volta...»
«Badate voi, a far presto», disse il notajo, «se non volete esser portato
via in camicia».
«E perché mò?» disse Fermo.
«Il perché lo direte al Signor Capitano di giustizia».
«Io sono un buon figliuolo, non ho fatto niente...»
«Tanto meglio per voi; così dopo due parole vi lasceranno andare pei
fatti vostri».
«Mi lascino andare adesso, subito», disse Fermo, «io non ho nulla che
fare con la giustizia».
«Lo portiamo via?» disse uno di quei birri al notajo.
«Fermo Spolino!...» disse il notajo con aria di consiglio minaccioso.
«Come sa Lei il mio nome?» disse Fermo.
«Se non fate presto...»
«Voglio sapere perché vengono a fare questa sorpresa a un galantuomo. Che
cosa ho fatto? parlino: io son uomo che intende la ragione, e darò conto di
tutto». Ma i birri fattisi bruscamente vicini a Fermo stavano per porgli le
mani addosso, quando egli gridò: «non toccate la carne d'un galantuomo, che...»
«Dunque alzatevi subito», disse il notajo.
«Ebbene mi alzerò», disse Fermo; «ma io non voglio andare dal Capitano di
giustizia. Io non ho che fare con lui. Voglio esser condotto da Ferrer; quello
lo conosco, e saprò fare intendere le mie ragioni».
«Presto, vestitevi, venite con noi, e direte tutta la vostra ragione a
vostro bell'agio».
Fermo, vedendo che la resistenza era inutile, tolse sul letto i suoi
panni, e cominciò a vestirsi, cercando intanto di scoprire la cagione di un
avvenimento così nojoso e così inaspettato: ma la sua mente ravvolgendosi per
cercarla fra le memorie della sera antecedente, si confondeva, come un padre
che s'aggiri in una folta mascherata, per riconoscere un suo ragazzaccio. Poco
a poco però cominciò egli a ricordarsi della grida, del nome, e del negozio,
delle istanze dell'oste, e dei suoi rifiuti; ma come diavolo, l'uomo nero
sapeva egli appuntino quel nome e cognome che Fermo non aveva mai voluto
pronunziare? E poi, come erano cangiate le cose a segno, che colui il quale
doveva in quella giornata fare il legislatore, la cominciasse coi birri al
fianco per andare in prigione? — Qualche mistero ci dev'essere, — disse Fermo
tra sè: — e intanto se potessi con un po' di buona grazia uscire dalle mani di
costoro, sarebbe meglio. — Con questa intenzione volgendosi al notajo con un
volto tra il gioviale e il furbo, gli disse:
«Se non si trattasse che di dire il mio nome... jeri sera, veramente io
era un po' brillo, e abbiamo parlato per metà, il vino, ed io.. ma ora non ci
avrei difficoltà; ed ella dovrebbe esser contenta, così rimarremmo in libertà
tutti e due».
«Bravo, bravo figliuolo», disse il notajo, «voi pensate con giudizio: se
farete le cose con garbo ne uscirete presto e bene; ma lo direte a chi ha
l'autorità di farvi rilasciar subito: è una formalità da nulla; ma io non posso
far niente».
«Ham!» disse, o piuttosto fece Fermo scotendo la testa, e ricominciò a
pensare — Diamine! Che cosa fanno tutti quei buoni fratelli di jeri? mi
lasciano in ballo a questo modo! — Fra questi pensieri stava egli di tempo in
tempo con le mani alzate tra un bottone e l'altro, interrompendo l'azione del
vestirsi. Ma il notajo s'era tirato verso la finestra, e aprendo le impannate
(ché i vetri in quel tempo erano riserbati soltanto alle case signorili, anzi
alla parte più signorile di esse) guardò nella via non senza inquietudine, e
vide che le cose non erano già più come le aveva trovate nel venire: i popolani
sbucavano come vespe dalle case, e si riunivano a sciami: il ronzio sordo
cresceva, e, quello che al notajo parve un segno mortale, le ronde che giravano
per impedire l'attruppamento, cominciavano a procedere con molta buona creanza.
Chiuse l'impannata in furia, lanciò dal suo cuore, poiché ne aveva uno
anch'egli, una imprecazione contra il Capitano di giustizia che lo aveva messo
in quell'intrigo, un'altra contra Fermo che in un momento così urgente per lui
notajo, pareva che volesse perdere il tempo a bella posta, indi fece un cenno
ai birri, che sbrigassero la faccenda. I birri rinnovarono più forti le minacce
a Fermo, questi, accortosi della inquietudine dei nemici, concepì buona
speranza, conchiuse che, se l'interesse di quelli era che si facesse presto, il
suo doveva essere di tirare in lungo, e procurò di perder tempo, senza dare a
coloro un pretesto di venire all'estremo. Ma finalmente si trovò vestito: e
allora ponendo le mani nelle tasche del suo farsetto: «oh!» disse, «io aveva
una lettera: voi me l'avete rubata».
«La lettera è qui», disse il notajo traendola di seno in fretta, e senza
pensare in quel momento a ribattere l'irriverenza del rimprovero: «è ella
questa?» soggiunse mostrandola.
«Questa appunto», rispose Fermo, stendendo la mano per prenderla.
«Piano, piano», disse il notajo; «ho piacere che l'abbiate riconosciuta,
ma non ve la posso dare: vi sarà restituita a momenti da chi si deve, purché
abbiate giudizio: andiamo, andiamo».
«Voglio la mia lettera», disse Fermo: «che bricconeria è questa? a forza
di trattare coi ladri, avete imparato il mestiere».
I birri volevano gettarsi addosso a Fermo; ma il notajo, sporgendo in
fuori il mento e la mandibola inferiore, allargando le narici, sbarrando gli
occhi, e scotendo il capo in fretta, fece loro intendere di non muoversi.
L'uomo era in angoscia: pensava che non v'era da perder tempo, che il pericolo
cresceva, che il tragitto sarebbe stato rischioso, e che il miglior modo di
farlo sicuramente era di condurre Fermo con la persuasione. Gli diede quindi la
lettera, dicendo: «ecco ch'io mi fido di voi; ma abbiate giudizio, venite con
buona maniera che sarà meglio per voi; quando sarete riconosciuto per un
galantuomo, sarete messo tosto in libertà: è un affare di mezz'ora. Andiamo, da
bravo». Così detto aprì la porta, e precedette il corteggio. Fermo non avendo
più nessun pretesto d'indugio, gli tenne dietro, e i birri fecero la
retroguardia. Scesa la scaletta, il notajo fece un cenno ai birri, e disse a
Fermo: «abbiate pazienza, fanno il loro dovere»; e mentre gli proferiva questa
bella parola, i birri afferrarono, l'uno la destra l'altro la sinistra di
Fermo, e le allacciarono con certi strumenti, che (per quell'uso comune
d'ingentilire le cose col nome) si chiamavano manichini, ed erano congegnati in
modo che colui che gli aveva intorno ai polsi era fortemente tenuto senza che
apparisse alcun segno di violenza; e il tenuto e il tenente potevano parere due
amici che passeggiassero stretti per la mano.
«Che tradimento è questo?» sclamò Fermo, «a un galantuomo par mio!...» Ma
i due amici stringendo i manichini gli fecero sentire che con essi si poteva
non solo tenere un rassegnato, ma ancora martoriare un ricalcitrante; e nello
stesso tempo il notajo, raccomandando ai birri di non far male a quel povero
giovane, cercava di persuaderlo con buone parole. Fermo vide che fin tanto che
egli si trovava solo con quei tre, era follia il competere, fece la gatta
morta, e disse: «andiamo».
— Andiamo — soggiunse fra sè, — e vedremo se quei fratelli di jeri son
tutti morti.
«Andiamo», disse il notajo, con un volto tutto grazioso: «fidatevi di me
che vi voglio bene; e voi», continuò rivolto ai birri, «non lo stringete, è un
buon figliuolo e mi preme; andiamo quietamente», disse ancora a Fermo, «non
fate vista di nulla, non guardate né a destra né a sinistra, e nessuno s'
accorgerà di quello che è, e voi conserverete il vostro onore, nessuno potrà
rinfacciarvi che siete stato nelle mani della giustizia; e a momenti sarete in
libertà».
Il fine di quella ammonizione era di persuader Fermo a lasciarsi condurre
tranquillamente, ma l'effetto ch'ella produsse invece fu di far sentire sempre
più a Fermo, che si temeva di lui, e delle circostanze, e di determinarlo ad
approfittarne. Non si vuol dire per questo che Fermo fosse più accorto del
notajo: ohibò: ma è destino di quelli che vanno al disotto, ed hanno paura, che
tutte le parole ch'essi dicono per ajutarsi, dieno lume ed animo
all'avversario.
Usciti nella via, Fermo tra i due birri, e il notajo dietro, Fermo
cominciò tosto a gettare la testa a destra e a sinistra, guardando con ansia se
v'era da sperare ajuto. «Giudizio, giudizio», diceva il notajo, a bassa voce,
accostandosi a Fermo: «non vi fate scorgere, l'onore, figliuolo, l'onore». I
birri intanto affrettavano il passo tirando Fermo e ripetendo, «andiamo,
andiamo». La via formicolava di gente, e Fermo cercava di rallentare il passo
per osservare quelli che andavano, e venivano, e per udire se non si parlava
più nulla delle cose del giorno antecedente, per accertarsi se la disposizione
degli animi era affatto mutata. Quando intese «forni, pane, Ferrer, giustizia,
abbondanza», e vide una brigata di otto o dieci che gli veniva incontro, e che
i birri volevano schifare, portandosi nel mezzo della strada, alzò la voce e
scotendo le braccia e il capo gridò: «Ohe! fratelli! mi menano su; e non ho
fatto niente: solo perché jeri ho gridato: pane e abbondanza: non mi
abbandonate, fratelli: patisco per la patria: son legato; ad uno per volta vi
faranno la stessa festa: fratelli, date uno scappellotto a costoro che mi
stringono le mani: ahi! ahi! sono un galantuomo, non ho fatto niente di male».
La brigata si fermò sulla via, ma i birri stringendo pur Fermo, lo
strascinavano nel mezzo, e affrettavano il passo: la brigata allora si volse, e
si divise, altri a fianco, altri dietro guardando pure e ascoltando: quegli che
erano sparsi nella via accorrevano, e si faceva folla. Il notajo tutto
tremante, cercava di rimandare quegli che gli si avvicinavano, dicendo: «è un
malandrino, un ladro colto sul mestiere, che svaligiava la casa d'un pover
uomo». Ma intanto tutti quelli che venivano dalla parte ove il corteggio doveva
passare, accorrevano, e si fermavano, di modo che la via si trovò sbarrata.
Fermo predicava tuttavia, domandando misericordia: i birri sul principio
comandarono, poi chiesero, poi pregarono i sopravvegnenti che dessero il passo:
ma i più lontani cominciarono a mormorare, quindi a fremere, quindi ad urlare:
i più vicini, parte per buona volontà, parte spinti, urtavano i birri, i quali
dopo aver fatto indarno ogni sforzo per tenersi insieme, e per non lasciare la
preda, furono separati dalla folla, dovettero abbandonare i manichini, e non
cercarono più che a perdersi nella moltitudine per uscirne salvi.
«Bravi fratelli», gridava Fermo: «saldi, ancora un momento, ahi!
strappateli, fate che mi lascino, siamo fratelli».
Il notajo veduta la mala parata, si fermò, e poi si volse indietro, per
uscire da quella parte dove il concorso era ancor rado, cercando intanto di far
l'indiano, e componendo il volto ad una certa curiosità, e maraviglia sciocca,
come s'egli giungesse ivi a caso, e non c'entrasse per nulla. Ma l'abito lo
tradiva, e smentiva il volto; per meglio nascondersi si volse egli ad uno dei
molti che lo guardavano fiso, e disse: «che cosa è questa faccenda?»
«Uh! corbaccio!» rispose invece dell'interrogato, uno che era più
lontano. «Corbaccio! uh corbaccio!» fu ripetuto intorno. Il notajo impallidì:
allora alle grida si aggiunsero gli urti di quelli che gli stavano a fianco:
tanto che il pover'uomo ottenne in breve quello che invero desiderava
ardentemente: d'esser fuori di quella calca, ma più colle gomita del prossimo
che con le sue gambe.
Quando Fermo si vide tolto alle ugne dei suoi guardiani, e confuso nella
folla dei suoi liberatori, si scosse i manichini dai polsi, e il primo suo
pensiero fu di approfittare di quella confusione, per fuggire in luogo di
salvamento. Si ricordò tosto che il suo nome era scritto sui libracci del
Capitano di giustizia, e fece ragione ch'egli non sarebbe sicuro né in Milano
né a Monza né a casa sua, né in alcuna parte dello Stato. — Se mi pigliano la
seconda volta, — diss'egli fra sè — sto fresco, e lo merito... Ma dove andare?
— domandò a se stesso. — A Bergamo — si rispose. — E la strada? Domanderò a
qualcheduno di questi galantuomini: chi m'ha ajutato non mi vorrà tradire. —
Mentre egli pensava, da molte parti gli veniva gridato: «presto presto, a
gambe, amico». Egli seguì il consiglio alla prima: entrò per una via
sconosciuta, e si diede a correre, senza saper dove; ma quando si trovò fuori
della folla, allentò il passo, e cominciò ad affisare i volti di quelli che
incontrava, per trovarne uno che gli garbasse, e gli desse fiducia a fare la
sua inchiesta. Ma la scelta andò in lungo, e Fermo ebbe a fare rapidamente
forse venti giudizj fisionomici prima di fissarsi ad uno che fosse l'uomo per
lui. Quel grassotto che stava ritto su la porta della sua bottega, con le gambe
aperte, con le braccia dietro la schiena, e le mani l'una nell'altra su le
reni, col ventre in fuori, il mento levato, e la giogaja pendente, sollevando
alternativamente su la punta dei piedi la sua massa tremolante, e lasciandola
cadere su le calcagna, aveva una cera di cicalone curioso, che invece di
risposta avrebbe dato interrogazioni: quegli che girava posatamente,
adocchiando e origliando pareva uomo da ripiombare un povero figliuolo nella
fossa dei lioni e non d'aiutarlo ad uscirne del tutto: quell'altro, che
s'avanzava col labbro spenzolato, e con gli occhi immobili, non che segnare
spicciamente, e precisamente la via altrui, appena pareva conoscer la sua: e
quel ragazzotto che a dir vero mostrava una intelligenza superiore all'età,
mostrava però ancor più malizia che intelligenza, e si sarebbe potuto
scommettere che nella domanda che gli fosse fatta egli non avrebbe veduto altro
che l'occasione di burlare e di confondere un povero forese. Tanto è vero che
all'uomo già impacciato ogni cosa è nuovo impaccio; e che ogni movimento, che
si dà ad una matassa scompigliata per ravviarne il bandolo, può far nascere
nuovi nodi. Ciò che rendeva più critica la situazione di Fermo, era l'essere
egli affatto nuovo della città, dimodoché non sapeva nemmeno per qual porta si
uscisse per pigliare la via sulla quale egli voleva porsi, e gli conveniva
chiedere a dirittura la via di Bergamo; inchiesta sospetta, che poteva attirare
gli sguardi sopra di lui, e rimetterlo in guaj. Giacché la sedizione che era
stata la salute di Fermo, cominciava appena a rialzare il capo, in qualche
angolo della città; e in tutto il rimanente la forza era tuttavia nelle mani
avvezze ad usarla: e per comprimere appunto la sedizione nel suo ricominciare,
e per disperderla, giravano ronde di soldati, e sbucavano da ogni parte i
colleghi di coloro che i liberatori di Fermo avevan posti in fuga: e se per
disgrazia quegli stessi si fossero di nuovo abbattuti in Fermo, e lo avessero
afferrato, e' poteva scuotere, e guaire, qui non v'era da sperare soccorso.
Finalmente, come la necessità aguzza l'ingegno, Fermo, adocchiato uno che
veniva in gran fretta, si risolvette di voltarsi a lui, stimando
giudiziosamente che l'uomo premuroso d'andare ad una sua faccenda, risponde
tosto e direttamente a chi lo interroga, perché quello è il modo più spiccio
per isbrigarsene. Fattosegli dunque a canto gli disse: «in grazia, signore:
quale è la strada che conduce a Bergamo?»
«Eh! amico», rispose frettolosamente l'altro: «vi conviene uscire dalla
porta orientale...»
«Bene, e per andare alla porta orientale?»
«Entrate per questa via a mancina; e sboccherete alla piazza del
duomo...»
«Basta, signore: il resto lo so: Dio gliene rimeriti».
«Niente, niente», disse il cortese preoccupato, e continuò la sua via.
Fermo con un passo più sicuro, e più spedito entrò per quella che gli era
stata segnata, giunse alla piazza del duomo, l'attraversò, diede passando una
occhiata al mucchio di cenere, e di carboni spenti, fredde reliquie della
baldoria del giorno antecedente, poscia raffrontando i luoghi con le memorie di
jeri, riconobbe la via per la quale era venuto insieme con la folla trionfante,
e si pose in quella nell'attitudine d'un generale che ripassa sconfitto e
fuggitivo pel campo dove aveva vinto poco innanzi. Rivide il forno delle
grucce smantellato, e guardato da soldati, e passò innanzi senza badare ai crocchj
che cominciavano di nuovo a formarsi, né alle grida che già si facevano
intendere. Via, via; giunse dinanzi al convento dei cappuccini, guardò
sospirando la porta della chiesa, e disse fra sè: — quel frate m'aveva però
dato un buon parere, senza saperlo, quando mi disse ch'io aspettassi in Chiesa;
ma! non ho avuto giudizio —. Quando fu presso alla porta rallentò il passo
perché la celerità non lo chiarisse un fuggitivo, e preso il contegno placido
d'uomo che vada pei suoi negozj, non senza battito al cuore, passò la porta.
Uscito al largo, respirò, ma pure andava guardandosi indietro ad ogni tratto
per vedere se non era inseguito: la strada maestra non gli andava a genio: e al
primo viottolo che scorse vi s'internò, volendo piuttosto allungare e raddoppiare
il cammino che farlo sempre in sospetto.
Quetata un poco la paura, sorsero nel suo cuore mille pensieri di
rimprovero, mille di sollecitudine per l'avvenire, e quindi mille proponimenti
che il lettore s'immaginerà facilmente. Con questa trista compagnia passando di
viottolo in viottolo, di casolare in casolare, chiedendo la strada di tempo in
tempo, e cercando di stare più vicino che poteva alla maestra, senza toccarla
mai, dopo aver fatte forse quindici miglia, senza essersi allontanato più distante
dalla città da cinque o sei, cominciò a sentire fortemente gli stimoli della
fame: e avendo veduto nella botteguccia d'un villaggio alcuni pani, ben diversi
da quei bianchissimi che il giorno antecedente aveva trovati sulle sue orme, ne
comperò con uno di quei pochi quattrinelli che gli rimanevano, e proseguì il
suo cammino. Finalmente, dopo averne fatto altrettanto, e non rimanendo più che
due ore di giorno, egli sentì di nuovo la fame, e per giunta la stanchezza: e
la sollecitudine di porsi in salvo diede luogo al desiderio di cibo e di
riposo. Vedeva Fermo da qualche tempo attraverso i campi e le piante un
campanile, e presolo per meta si avviò direttamente verso quello. Giunto al
paese, (Fermo non ne sapeva il nome, ma era veramente Gorgonzola) vide che era
posto su la strada maestra, stette in forse un momento di tornarne fuori; ma
alla fine il bisogno vinse. — Non saranno venuti a cercarmi fin qui: —
diss'egli fra sè: — e qui nessuno mi conosce.
Col conforto di questa riflessione, entrò in una osteria per ristorarsi
con qualche cibo, e per riposarsi, seduto però, e fin che durava il giorno;
perché ai letti ed alle notti dell'osteria aveva preso orrore, e all'ultimo si
sarebbe piuttosto accontentato di dormire al sereno, sotto un noce, in un
campo. Sedette, e chiese qualche cosa da mangiare, e un mezzo boccale di vino
calcando la voce sulla parola mezzo, come per far sentire alla gola che quello
era la misura prescritta irrevocabilmente, e per farle ricordare gli spropositi
del giorno passato.
V'erano in quella stanza alcuni oziosi, i quali venivano ivi per
abitudine, e allora s'erano ragunati anche per la speranza che arrivasse
qualcheduno da Milano, il quale portasse le nuove più recenti. Si sapeva in
cento maniere secondo l'uso antico ed universale, il guazzabuglio del giorno
antecedente, e s'era pur bucinato che il mattino la pentola aveva cominciato a
ribollire; sicché la curiosità era infiammata. Gli occhi furono tosto addosso a
Fermo, ma visto ch'egli era un forese, nessuno pensò a lui, per sua buona
ventura; perché chi gli avesse chiesto: «a caso, verreste voi forse da Milano?»
nella disposizione d'animo in cui era Fermo, possiamo ingannarci, ma egli
diceva certamente la bugia. In vece, senza essere importunato di richieste,
potè egli mentre mangiava saporitamente, sentire i discorsi che si facevano, e
rimettersi un po' al corrente delle cose del mondo, dopo una lunga giornata di
ritiratezza.
«Eh! eh!» diceva uno, «i milanesi non son mica uomini di stoppa: e non la
finiranno prima che sia loro fatta ragione davvero».
«Pure», disse un altro, «il vicario se lo sono lasciato levare dalle
mani».
«Sì», ripigliò un altro; «ma gli sarà fatto il processo».
«Stiamo un po' a vedere», saltò in campo un quarto, «se questi cittadini
superbi non penseranno che ai loro interessi, o se vorranno una legge nuova
anche per la povera gente di fuora, che per diana ha pure il ventre anch'ella,
e lavora più di loro per far crescere il pane».
«Basta», riprese il primo: «si potrà vedere: mi pento di non essere
andato a Milano, questa mattina».
«Se vai domani, vengo anch'io», disse un altro, poi un altro, poi un
altro.
A questo punto della conversazione si sentì il passo d'un cavallo; e i
nostri interlocutori indovinarono facilmente chi poteva portare, e ne furono
molto lieti pensando che saprebbero le notizie vere di Milano. Era infatti
quegli che eglino avevano preveduto, un mercante che andando più volte l'anno a
Bergamo pei suoi traffichi era uso fermarsi a passar quivi la notte, e come
trovava nell'osteria quei soliti frequentatori del paese, era divenuto
conoscente quasi di tutti.
Accorsero nella strada, si affollarono a gara attorno all'arrivato, uno
prese le briglie, l'altro la staffa: «Buon giorno», «buona sera», «avete fatto
buon viaggio: che c'è di nuovo a Milano?»
«Eh! eh! ecco quelli dalle notizie», disse il mercante, «quelli che le
vanno fiutando, come i bracchi le pernici. E poi, e poi, le saprete voi a
quest'ora, forse più di me». Così dicendo scese da cavallo, lo diede e lo
raccomandò ad un garzoncello, ed entrò nella cucina, circondato dai curiosi.
«Davvero che non sappiamo niente», disse il più antico di quei
conoscenti.
«Possibile?» rispose il mercante: «bene, dunque sentirete. Ehi oste, il
mio letto solito è in libertà? Bene: dunque non sapete che jeri è stata una
giornata brusca in Milano? ma brusca vi dico!...»
«Questo lo sappiamo».
«Vedete dunque», continuò il mercante, «che le sapete le notizie. Voleva
ben dir io che stando qui sempre ad agguatare quegli che passano, e a frugarli
come se foste gabellieri, qualche cosa vi potesse scappare».
«Ma oggi, che cosa è accaduto?»
«Ah oggi», disse il mercante, sedendo. «D'oggi non sapete niente?»
«Niente».
«Niente davvero? dunque vi racconterò io. Oste, il mio boccone solito, e
presto, perché voglio coricarmi subito, e domattina pormi in viaggio per tempo.
Oggi, poco mancò che la giornata non fosse brusca, come quella di jeri. Ma, un
po' colle buone, un po' colle cattive... m'intendete eh? olio ed aceto; e si fa
l'insalata».
«In fine che cosa è accaduto?» domandarono in una volta due o tre di
quegli ansiosi.
«Abbiate pazienza», disse il mercante, «che se l'oste mi darà di che
ammollare le labbra, vi conterò tutto».
«Oh bravo!»
L'oste portò la refezione: il mercante si versò un bicchier di vino, si
accarezzò la barba e lo tracannò: e trinciando la vivanda che gli era stata
imbandita, cominciò la sua narrazione e la continuò mangiando; mentre i suoi
conoscenti stavano intorno alla tavola con le bocche aperte; e Fermo in
disparte, senza far vista di dar molta attenzione, ascoltava però con più ansia
e sospensione degli altri.
«Dovete dunque sapere», cominciò il mercante, «che questa mattina per
tempo cominciarono a congregarsi molti furfanti, gente senza casa né tetto, di
quelli che jeri avevan fatto tutto il chiasso; e si misero a girare in troppa
per la città, per far numero, e tornar da capo. Da principio fecero bravate e
insolenze dove capitavano, far le corna alle spalle ai soldati, fare i visacci
ai galantuomini, rompere il muso ai birri: in un luogo strapparono dalle mani
dei birri uno che era menato su: un capo popolo che aveva predicato jeri che si
avessero a scannare tutti i signori, e tutti i bottegaj: pezzo di briccone! ma
se v'incappa, gli medicheranno il pomo d'Adamo con un sovatto. Quando parve a
costoro d'aver fatto popolo a bastanza, andarono alla casa del vicario, dove
jeri avevano fatte tutte quelle belle prodezze, ma» (e qui a guisa
d'interjezione fece con la lingua quel suono con cui i cocchieri usano di dare
ai cavalli il segnale della partenza).
«Ma?» dissero gli ascoltatori.
«Ma», continuò il mercante, «trovarono la via sbarrata, e dietro le
sbarre una buona confraternita di micheletti cogli archibugi spianati, e i
calci appoggiati ai mustacchi: e... che cosa avreste fatto voi altri?»
«Tornare indietro».
«Benone: così fecero anch'essi; ma quando furono al Cordusio, dinanzi a
quel forno che jeri avevano cominciato a saccheggiare; dite mò, se non sono
birbi: si distribuiva il pane pulitamente; v'erano dei buoni cavalieri che
invigilavano perché tutto andasse in ordine: e costoro: «dalli dalli,
saccheggio, saccheggio»: in un momento, cavalieri, fornaj, avventori, tutti
sossopra, chi qua, chi là; e cominciò il saccheggio che durò poco, perché poco
v'era da rubare. Quando non rimasero più che le panche e gli utensili; «fuoco,
fuoco», si cominciò a gridare; tavole, madie, imposte, tutto il legname si
pigliava a furore per portarlo in mezzo al Cordusio e dargli il fuoco. Ma un
dannato peggio di tutti gli altri, dite un po' che proposta diabolica mise in
campo?»
«Che?...»
«Che? di abbruciar tutto nella casa, e la casa insieme. Ma un galantuomo
ebbe una ispirazione del cielo: entrò nella casa, salì le scale, e trovato per
buona sorte un gran crocifisso, lo appese fuori d'una finestra, e v'accese
intorno due candele, che aveva tolte da capo del letto del fornajo. A quello
spettacolo: tutti rimasero in silenzio: v'era bene pochi diavoli in carne, che
per fare chiasso e baldoria, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma quando
videro che tutti gli altri non erano ebrei com'essi; dovettero tacere. Intanto
venne tutto il capitolo del duomo in processione, a croce alzata, e vestiti
pontificalmente, che era un gran bel vedere; e cominciarono a predicare:
«figliuoli dabbene, che cosa fate? è una vergogna, dove è il timor di Dio?
questo è l'esempio che date ai vostri figliuoli? siamo in Milano, o in terra di
Turchi? Via, tornate a casa, da bravi, che quel che è stato è stato. Avrete
abbondanza: il pane di otto once ad un soldo: la grida è stampata».
«Era vero poi?» domandò uno degli ascoltanti.
«Vero come il Vangelo. Volete voi che i canonici venissero in paramenti a
dir bugie? Allora, la gente cominciò a sfilare, e i soldati, con buona maniera,
gli andarono sparpagliando di più e fecero spazzare la piazza del Cordusio.
Ebbene... pareva che non fossero contenti: andavano girandolando per le vie,
come se aspettassero l'occasione di porsi insieme di nuovo. Ma ecco che venne
l'ultima medicina, che fece l'effetto».
«E fu?...»
«E fu, unguento di canape: bastò nominarlo, per far guarire tanti matti.
Si fece pubblicare, ed è vera anche questa, che quattro capi erano stati presi
jer sera, e saranno impiccati. Ah! ah! vi dico io che ognuno studiava la via
più corta per andarsene a casa, per non diventare il numero cinque. Quando io
sono uscito da Milano, pareva un monastero».
«Dunque gli impiccheranno?» domandò un altro uditore.
«Senza fallo, e presto», rispose il mercante.
«E la gente che cosa farà?» domandò ancora quegli.
«Anderà a vedere», rispose ancora il mercante. «Avevano tanta smania di
veder morire qualcheduno all'aria aperta, che volevano far la festa al Signor
Vicario di Provvisione. Puh! che spettacolo un cavaliere ammazzato di mala
grazia! Invece avranno quattro birbanti serviti con tutte le formalità.
Quattro! quattro finora, ma chi sa?... Vi so dire che tutti quelli che jeri e
questa mattina hanno mangiato pane fresco in Milano, se ne stanno coll'olio
santo in saccoccia. Per me, ho testimonj che tutta la giornata di jeri, e tutta
la mattina d'oggi me ne sono stato chiuso in casa: e poi, si sa che noi altri
mercanti siamo nemici dei torbidi...»
«Anch'io non mi son mosso di qui», disse un ascoltante.
«Non siamo qui tutti?» disse un altro: «la cosa parla da sè».
«Ohe, come andrà per Bartolommeo che è andato a Milano appunto jer l'altro?»
disse un secondo.
«Se avrà avuto giudizio», rispose il mercante, «ne sarà stato fuori, e
non gli accadrà nulla».
«Il guaio è», disse quegli, «che sta male a giudizio».
«Allora non so che dire»; rispose il mercante, in aria di chi si rassegna
alle sciagure degli altri.
«Se io mi fossi anche trovato in Milano, per caso, per caso», disse un
terzo, «me la sarei battuta subito a casa».
«Infatti», ripigliò il primo, «in quei garbugli v'è sempre pericolo, e
poi, via bisogna dire il vero, sono cose che non istanno bene. Confesso la
verità che i baccani non mi sono mai piaciuti».
«È stata una provvidenza vedete», disse il mercante «che l'abbiamo fatta
finir presto: altrimenti, arte per arte, saccheggiavano tutte le botteghe di
Milano coloro».
«Ma per noi foresi non si farà niente?» domandò un altro: «i milanesi a
buon conto hanno il pane a buon mercato: e noi, povera gente?»
«Sarà quel che Dio vorrà», disse il mercante, vuotando l'ultimo
bicchiere, ed asciugandosi la barba col mantile. «Non sapete che jeri hanno
guastata, e gittata tanta farina quanta basterebbe a dar da mangiare per due
mesi a tutto il ducato?»
«Dunque», disse quegli, «ha da patire il buono pel cattivo?»
«Ma non avete inteso che gl'impiccheranno?» rispose il mercante.
«L'ho sempre detto io», disse un altro «che a muover garbugli si fa
peggio. Se i milanesi avessero avuto un po' di giudizio, dovevano porre le mani
addosso a quegli che cominciarono a parlare di far chiasso, e legarli come
salsicce, e condurli alla giustizia».
La conversazione continuava, ma Fermo ne aveva udito a bastanza: egli se
ne era stato cheto cheto, con l'animo d'un autore che trovandosi sconosciuto
presso tre o quattro uomini di buon gusto, sente fare il processo all'ultima
sua opera: quel poco boccone tanto desiderato gli era tornato in veleno: però
dal veleno pensò a cavare il rimedio d'un buon consiglio; si alzò, con aria
indifferente, pagò il suo scotto, e uscì dall'osteria, risoluto di non fermarsi
fin che non fosse giunto sotto le ali del leone serenissimo di San Marco. Si
avviò su la strada maestra, premuroso di giunger presto, confidando nelle
tenebre che cominciavano a stendersi su la terra; ma appena dati alcuni passi,
pensò che il passaggio al confine sarebbe stato pericoloso più di notte che di
giorno, e si sovvenne che vi doveva esser l'Adda da passare. Sconfortato uscì
della via, entrò nei campi, e andando al lume della luna, procurò di dirigere
il suo cammino verso quella parte dove gli pareva che l'Adda dovesse passare.
Finalmente sentì il romore del fiume, e camminando sempre verso quello, giunse
presso alla sponda. Ma quivi non v'era modo di transitare, onde il povero Fermo
dopo aver guardato intorno se mai per caso qualche battello si trovasse su la
riva, e non ne vedendo, tornò tristamente indietro, ed entrato in un bosco che
costeggiava il fiume, s'arrampicò sur un albero, e vi si appiattò, aspettando
con ansietà l'apparire del giorno. Ma la notte era appena incominciata, e il
povero Fermo, ebbe molte ore da meditare in quella sua incomoda stazione. Don
Rodrigo, Don Abbondio, il Vicario, Ferrer, la guida, l'oste di Milano, il
notajo, i birri, il mercante, i curiosi, passavano a vicenda nella sua
fantasia; ma nessuno di costoro conduceva seco una memoria che non fosse di
rancore o di sconforto. Solo due immagini avevano un aspetto consolatore, e
spargevano un po' di luce tranquilla su quel quadro confuso. Se noi
inventassimo ora una storia a bel diletto, ricordevoli dell'acuto e profondo
precetto del Venosino, ci guarderemmo bene dal riunire due immagini così disparate
come quelle che si associavano nella mente di Fermo; ma noi trascriviamo una
storia veridica; e le cose reali non sono ordinate con quella scelta, né
temperate con quella armonia che sono proprie del buongusto; la natura, e la
bella natura, sono due cose diverse. Diciamo dunque con la franchezza d'uno
storico, che mentre quasi tutti i personaggi, coi quali Fermo era stato in
relazione, si schieravano e si affollavano nella sua immaginazione con un
aspetto più o meno odioso, o tristamente misterioso, di modo che, dopo averli
contemplati qualche tempo come forzatamente, essa gli rispingeva, e cercava di
farli sparire, v'era però due immagini nelle quali essa riposava, con una
specie di refrigerio: due volti i quali ricordavano ed esprimevano candore, benevolenza,
affetto, innocenza, pace: quei sentimenti chiari e soavi nei quali tanto si
gode la fantasia degli infelici: e queste due immagini erano una treccia nera,
e una barba bianca, Lucia e il Padre Cristoforo.
Ma i pensieri che questi volti stessi facevano nascere, eran tutt'altro
che di una gioja pura: alla immagine del buon frate, Fermo sentiva vivamente la
vergogna della cervellinaggine che aveva spiegata nel giorno passato, e della
turpe sua intemperanza: e contemplando Lucia, oltre la stessa vergogna, egli
sentiva nel fondo dell'animo l'assenza, l'incertezza del rivedere, il terrore
della dimenticanza. Meno potente, meno scolpita, ma pure mista anch'essa di
compiacenza e di dolore, gli appariva pure l'immagine di quella povera Agnese,
che lo aveva voluto per figlio, e che a cagione di questo buon pensiero si
trovava ora fuor di casa, e assediata da quelle sollecitudini che non hanno
alcun compenso di consolazione.
Con questa lanterna magica dinanzi alla mente vegliò Fermo tutta quella
notte: quand'anche i pensieri non gli avessero tolto il sonno, il disagio e il
pericolo della postura, e il freddo, che cominciava a frizzare lo avrebbero
tenuto lontano. Finalmente, quando la luce cominciò a dar forma e colore alle
cose, Fermo guardando attentamente al fiume, vide un pescatore che costeggiava
la sponda, e che slegava un battello; scese dall'albero, e si avviò a quella
parte, e vi giunse prima che il pescatore salpasse.
«Amico, volete voi farmi il piacere di traghettarmi all'altra riva?»
disse Fermo al pescatore che guardava non senza sospetto lo sconosciuto che a
quell'ora gli si accostava.
«Volentieri», rispose il pescatore, dopo aver guardato diligentemente
intorno se non v'era alcun testimonio, e lo accolse nella barca, lo condusse
all'altra riva, senza fargli altro motto. Fermo prima di scendere a riva, cavò
una mezza lira, e la diede al pescatore che, dopo aver fatta qualche cerimonia,
la prese, e condusse la sua barca al largo.
Perché nessuno si faccia maraviglia della pronta e discreta cortesia del
pescatore, dobbiamo avvertire che quest'uomo era avvezzo ad essere richiesto
sovente dello stesso servizio da contrabbandieri, e da fuorusciti; e la massima
forse la più importante della sua politica di pescatore era di non farsi nemico
nessuno di costoro, perché la sua barca e la sua vita era quasi sempre in loro
balìa. Prestava egli adunque ad essi quel servizio tutte le volte che potesse
farlo senza correre rischio dalla parte di gabellieri, di soldati, o di
esploratori, altre classi ch'egli doveva rispettare per un altro punto della
sua politica. Pigliò dunque Fermo per uomo d'una delle due prime condizioni,
senza darsi briga di appurare quale, e lo servì.
Fermo, posto piede sulla terra di San Marco, respirò davvero; e, alla
prima insegna che vide, entrò a ristorarsi col cuore più largo. Sentì quivi
pure relazioni e ragionamenti su gli avvenimenti di Milano: a dir vero egli
avrebbe potuto rettificare in molte parti i fatti e le riflessioni; ma da quei
fatti egli aveva appunto imparato a tacere. Continuò la sua strada, giunse a
Bergamo, fece inchiesta di quel suo cugino, e gli si presentò.
Era questi lavoratore di seta, come Fermo, e uno di quei tanti che
vedendo mancarsi il lavoro a cagione delle discipline assurde che a quei tempi
erano prescritte nel milanese, e dei pesi insopportabili d'ogni genere, avevano
portata la loro industria in un altro stato, dov'erano bene accolti e protetti.
Massajo, e diligente in sei anni da che si trovava a Bergamo, aveva egli fatta
una provvigione che gli era di grande soccorso in quell'anno malvagio. Rivide
egli con piacere Fermo che aveva instradato nei lavori della seta, e a cui
aveva fatto da padre, e lo accolse lietamente, prese parte alle sue traversie,
e gli promise intanto di procacciargli lavoro. «Se non ne troveremo»,
soggiunse, «starai con me, mangeremo insieme un po' di pane; e quando
torneranno gli anni grassi, mi pagherai di tutto, e farai un buon marsupio
anche per te». Se quel brav'uomo avesse letto Virgilio non avrebbe mancato di
dire in questa occasione: Non ignara mali miseris succurrere disco:
perché in fatti questo era il suo sentimento.
Lasceremo per ora Fermo, giacché si trova in una situazione tollerabile,
e torneremo alla sua e nostra Lucia.