Dobbiamo ora far conoscere al lettore i personaggi coi quali si trovava
Lucia.
Don Valeriano, capo di casa, ultimo rampollo d'una famiglia illustre che
pur troppo terminava in lui, uomo tra la virilità e la vecchiezza, era di
mediocre statura, e tendeva un pochetto al pingue, portava un cappello ornato
di molte ricche piume, alcune delle quali spezzate al mezzo cadevano penzoloni
e d'altre non rimaneva che un torso: sotto a quel cappello si stendevano due
folti sopraccigli, due occhi sempre in giro orizzontalmente, due guance pienotte
per sè, e che si enfiavano ancor più di tratto in tratto e si ricomponevano
mandando un soffio prolungato, come se avesse da raffreddare una minestra:
sotto la faccia girava intorno al collo un'ampia lattuga di merletti finissimi
di Fiandra lacera in qualche parte e lorda da per tutto: una cappa di...
sfilacciata qua e là gli cadeva dalle spalle, una spada col manico di argento
mirabilmente cesellato, e col fodero spelato gli pendeva dalla cintura; due
manichini della stessa materia, e nello stesso stato della gorgiera uscivano
dalle maniche strette dell'abito, e un ricco anello di diamanti sfolgorava
talvolta, nell'una delle due sudicie sue mani: talvolta; perché quell'anello
passava anche una gran parte della sua vita nello scrigno d'un usurajo; e in
quegli intervalli, Don Valeriano gestiva alquanto meno del solito.
Questo contrasto nel suo abito esteriore nasceva da altri contrasti del
suo carattere e delle sue circostanze. Don Valeriano portato al fasto e alla
trascuraggine era anche ricco e povero. Già da molto tempo aveva egli divorato
a furia di sfarzo, e lasciato divorare a furia di negligenza e d'imperizia il
suo patrimonio libero; e sarebbe egli rimasto povero del tutto e per sempre, se
un suo sapiente antenato non avesse anticipatamente provveduto a quel caso,
istituendo un pingue fedecommesso. Don Valeriano quindi, benché nell'animo non
fosse molto dissimile dal selvaggio di Montesquieu, non poteva, com'egli,
abbatter l'albero per coglierne il frutto: e non poteva far altro che lanciar
pietre al frutto per farlo cadere acerbo e ammaccato. Viveva di prestiti: e per
trovarne doveva ricorrere ai più spietati usuraj; e subire le più rigide leggi
che essi sapessero inventare, e per supplire alla legge comune che non dava
loro alcun mezzo di ricuperare il prestato, e per pagarsi del rischio. E
siccome nelle idee di Don Valeriano le pompe e il fasto tenevano il primo
luogo, così alle pompe e al fasto erano tosto consecrati i denari che toccavano
le sue mani; e il necessario pativa.
In mezzo a queste cure incessanti Don Valeriano non aveva lasciato di
coltivare il suo ingegno, e senza essere un dotto di mestiere, poteva passare
per uno degli uomini colti del suo tempo. Possedeva una libreria di varie
materie, la quale per poco non aggiungeva ai cento volumi; e aveva impiegato su
quelli abbastanza tempo e studio per avere una cognizione fondata nelle scienze
più importanti e più in voga: teneva i principj, e quindi non era mai
impacciato nelle applicazioni. L'astrologia era uno di quei rami dell'umano sapere,
nei quali Don Valeriano era versato.
Sapeva non solo i nomi e le qualità delle dodici case del cielo, le
influenze che hanno in ciascuna i diversi pianeti: ma conosceva anche in parte
la storia della scienza, la quale è parte della scienza stessa: ne conosceva i
cominciamenti, il progresso: come era nata nell'Assiria, e ci doveva nascere:
giacché essendo il cielo un gran libro, e il cielo dell'Assiria molto sereno, è
naturale che ivi si cominci a leggere, dove i libri sono più chiari e
intelligibili; sapeva a memoria un buon numero delle più stupende e clamorose
predizioni che si sono avverate in varii tempi: e aveva in pronto gli argomenti
principali che servivano a difendere la scienza contra i dubbj e le obiezioni
dei cervelli balzani degli uomini superficiali e presuntuosi che ne parlavano
con poco rispetto; perché anche a quel tempo v'era degli uomini così fatti.
Della magia aveva pure una cognizione più che mediocre, acquistata non già con
la rea intenzione di esercitarla, ma per ornamento dell'ingegno, e per
conoscere le arti così dannose dei maghi e delle streghe, e potere così entrare
a parte della guerra che tutti gli uomini probi e d'ingegno facevano a quei
nemici del genere umano. Il suo maestro e il suo autore era quel gran Martino
del Rio il quale nelle sue Disquisizioni magiche aveva trattata la materia a
fondo, aveva sciolti tutti i dubbj, e stabiliti i principj che per quasi due
secoli divennero la norma della maggior parte dei letterati e dei tribunali,
quel Martino del Rio che con le sue dotte fatiche ha fatto ardere tante streghe
e tanti stregoni, e che ha saputo col vigore dei suoi ragionamenti dominare
tanto sulla opinione publica, che il metter dubbio su la esistenza delle
streghe era diventato un indizio di stregheria. A un bisogno Don Valeriano
sapeva parlare ordinatamente e anche luculentamente del maleficio amatorio, del
maleficio ostile e del maleficio sonnifero, che sono i cardini della scienza, e
conosceva i segreti dei congressi delle streghe, come se vi avesse assistito. Aveva
più che una tintura della storia in grande, per aver letta più d'una volta
quella eccellente storia universale del Bugatti; possedeva poi singolarmente
quella del tempo dei paladini, che aveva studiata nei Reali di Francia. Per la
politica positiva aveva egli principalmente rivolte le opere dell'immortale
Botero; e conosceva assai bene la politica di Spagna, di Francia, dell'Impero,
dei Veneziani e di tutti i principali stati Cristiani; e poteva pur dare una
occhiatina anche nel Divano. Per la politica speculativa il suo uomo era stato
per gran tempo il Segretario Fiorentino, ma questi dovette scendere al secondo
posto nel concetto di Don Valeriano e cedere il primo a quel gran Valeriano
Castiglione che in quello stesso anno aveva dato alla luce la sua opera dello Statista
Regnante dove tutti gli arcani i più profondi, e i più reconditi precetti
della ragione di stato sono trattati con un ordine nuovo e sublime. E bisogna
confessare che il nostro Don Valeriano prevenne il giudizio del mondo sul
merito del Castiglione: poco dopo Urbano VIII lo onorò delle sue lodi, Luigi
XIII per consiglio del Cardinale di Richelieu, lo chiamò in Francia per esservi
Istoriografo, Carlo Emmanuele di poi gli affidò lo stesso ufizio, il Card.
Borghese e Pietro Toledo vicerè di Napoli, lo pregarono, invano però, di
scrivere storie, e fu finalmente proclamato il primo Scrittore dei suoi tempi.
Quanto alla storia naturale, non aveva a dir vero attinto alle fonti, e
non teneva nella sua biblioteca, né Aristotele, né Plinio, né Dioscoride;
giacché come abbiam detto Don Valeriano non era un professore, ma un uomo colto
semplicemente: sapeva però le cose le più importanti e le più degne di
osservazione; e a tempo e luogo poteva fare una descrizione esatta dei draghi e
delle sirene, e dire a proposito che la remora, quel pescerello, ferma una nave
nell'alto, che l'unica fenice rinasce dalle sue ceneri, che la salamandra è
incombustibile, che il cristallo non è altro che ghiaccio lentamente indurato.
Ma la materia nella quale Don Valeriano era profondo assolutamente, era
la scienza cavalleresca, e bisognava sentirlo parlare di offese, di
soddisfazioni, di paci, di mentite: Paris del Pozzo, l'Urrea, l'Albergato, il
Muzio, la Gerusalemme liberata e la conquistata, e i dialoghi della nobiltà, e
quello della pace di Torquato Tasso, gli aveva a mena dito; i Consigli e i
Discorsi cavallereschi di Francesco Birago erano forse i libri più logori della
sua biblioteca. Anzi Don Valeriano affermava, o faceva intendere spesso che
quel grand'uomo non aveva sdegnato di consultarlo su certi casi più rematici; e
parlando talvolta di quelle opere con quella venerazione che meritavano, e che
per verità ottenevano da tutti, Don Valeriano aggiungeva misteriosamente:
«Basta: ho messo anch'io un zampino in quei libri».
Ma gli studj solidi non avevano talmente occupati gli ozj di Don
Ferrante, che non ne restasse qualche parte anche alle lettere amene: e senza
contare il Pastorfido, che al pari di tutti gli uomini colti di quel tempo,
egli aveva pressoché tutto a memoria, non gli erano ignoti né il Marino, né il
Ciampoli, né il Cesarini, né il Testi: ma sopratutto aveva fatto uno studio
particolare di quel libretto che conteneva le rime di Claudio Achillini;
libretto nel quale, diceva Don Ferrante, tutto, tutto, fino alla protesta sulle
parole Fato, Sorte, Destino e somiglianti era pensiero pellegrino, ed arguto.
Aveva poi un tesoretto, una raccolta manoscritta di alcune lettere dello stesso
grand'uomo; e su quelle si studiava di modellare quelle che gli occorrevano di
scrivere per qualche negozio, o per isciogliere qualche ingegnoso quesito che
gli veniva proposto: e a dir vero le lettere di Don Ferrante erano ricercate
con qualche avidità, e giravano di mano in mano per la scelta e la copia dei
concetti e delle immagini ardite, e sopra tutto pel modo sempre ingegnoso di
porre la questione, e di guardare le cose; stavano però male di grammatica e di
ortografia. Vi sarebbero molte altre cose da dire, chi volesse compire il
ritratto di questo personaggio; ma per amore della brevità, ce ne passeremo,
tanto più ch'egli non ha quasi parte attiva nella nostra storia. Veniamo dunque
alla sua signora Consorte. Donna Prassede, per ciò che risguarda il sapere, era
molto al di sotto di suo marito. Il suo ingegno a dir vero non era niente
straordinario, ed essa non si era mai data una gran briga di coltivarlo, almeno
sui libri. Ma siccome la mente umana non può vivere senza idee, così Donna
Prassede aveva le sue, e si governava con esse, come dicono che si dovrebbe
fare cogli amici.
Ne aveva poche, ma quelle poche le amava cordialmente, e si fidava in
esse interamente, e non le avrebbe cangiate ad istigazione di nessuno. Avrebbe
anche avuto, com'era giusto, una gran voglia di farle predominare in casa; e
pare che il carattere straccurato di Don Ferrante avrebbe dovuto servire a
maraviglia a questo desiderio della consorte; ma v'era un grande ostacolo. La
più parte delle idee in questo mondo non possono esser messe ad esecuzione
senza danari: ora Don Ferrante poco o nulla curandosi del governo della casa,
aveva però ritenuto sempre presso di sè il ministero delle finanze; e a dir
vero gli affari ne erano tanto complicati, che ormai nessun altro che egli
avrebbe potuto intendervi qualche cosa.
Aveva Donna Prassede il suo spillatico, pattuito nel contratto nuziale, e
allo spirare d'ogni termine dopo un po' di guerra, un po' di schiamazzo, molte
minacce di svergognare il marito in faccia ai parenti, veniva essa a capo di
riscuotere la somma che le era dovuta. Ma fuor di questo, tutta l'eloquenza,
tutta l'insistenza, tutte le arti di Donna Prassede non avrebbero potuto tirare
un danajo dalla borsa di Don Ferrante. Le entrate, prima che si toccassero,
erano impegnate a pagar debiti urgenti, o destinate a soddisfare qualche genio
fastoso di Don Ferrante. Non rimaneva dunque a Donna Prassede altro dominio che
su la sua persona, sul modo d'impiegare il suo tempo, su le persone addette
specialmente al suo servizio: cose tutte nelle quali Don Ferrante lasciava
fare; poteva ella in somma dare tutti gli ordini l'esecuzione dei quali non
portasse una spesa, o che non fossero in opposizione alle abitudini e alle
volontà risolute di Don Ferrante. La sua gran voglia di comandare, ristretta in
questo picciol campo vi si esercitava con una energia singolare. Donna Prassede
profondeva pareri e correzioni a quelli che volevano, e ancor più a quelli che
dovevano sentirla: e per quanto dipendeva da lei non avrebbe lasciato deviar
nessuno d'un punto dalla via retta. Perché, a dire il vero, questa smania di
dominio non nasceva in lei da alcuna vista interessata; era puro desiderio del
bene; ma il bene ella lo intendeva a suo modo, lo discerneva istantaneamente in
qualunque alternativa, in qualunque complicazione di casi le si fosse
affacciata da esaminare: e quando una volta aveva veduto e detto che quello era
il bene, non era possibile ch'ella cangiasse di parere; e per farlo riuscire
predicava ed operava fintanto che avesse ottenuto l'intento, o la cosa fosse
divenuta impossibile: nel qual caso non lasciava di predicare per convincere
tutti che avrebbe dovuto riuscire.
Sotto due padroni così diversi di inclinazioni e di occupazioni, la
famiglia era come divisa in due classi; anzi in due partiti, ognuno dei quali
aveva nella famiglia stessa un capo; le due persone cioè che erano più innanzi
nella confidenza dell'uno e dell'altro padrone. Prospero il maggiordomo di
casa, e il favorito di Don Ferrante, faceto e rispettoso, disinvolto e
composto, dotto a tutto fare e a tutto soffrire, abile a trattare gli affari, e
a parlarne senza mai proferire le parole che potevano far sentire gl'impicci, o
offendere la dignità del padrone, sapeva suggerir a proposito un invito da fare
onore alla casa, trovare un cammeo prezioso, un quadro raro, ogni volta che una
rata di pagamento stava per entrare nella cassa di Don Ferrante, e sapeva
trovare un prestatore ogni volta che la cassa era asciutta.
L'antesignano dell'altro partito, la governatrice favorita di Donna
Prassede era nominata molto variamente. Il suo nome proprio era Margherita, ma
dalla padrona era chiamata Ghita, dalle donne inferiori a lei, e dai paggi di
Donna Prassede Signora Ghitina; e dai servitori di Don Ferrante quando
parlavano fra di loro non era mai menzionata altrimenti che la Signora
Chitarra. Pretendevano costoro che il suo collo lungo, la sua testa in fuori,
le sue spalle schiacciate, la vita serrata dal busto, e le anche allargate la
facessero somigliare alla forma di quello strumento: e che la sua voce acuta,
scordata, e saltellante imitasse appunto il suono, che esso dà quando è
strimpellato da una mano inesperta.
Esercitava essa sotto gli ordini immediati della padrona la più severa
vigilanza sulle persone che dipendevano da questa, ed era ministra di tutto il
bene ch'ella poteva fare in casa e fuori. Ma quanto alla gente di Don Ferrante,
essa non poteva fare altro che notare tutte le azioni disordinate che essi
commettevano, disapprovare con qualche cenno, o al più con qualche frizzo, e
riferire poi il tutto alla padrona, la quale pure non poteva fare altro che gemere
con lei. Prospero com'è naturale era l'oggetto principale di avversione per
Donna Prassede, ma inviolabile com'egli era, se ne burlava in cuore; non
lasciando però di corrispondere con riverenze profonde agli sgarbi della
padrona, che rendeva poi con usura in tutte le occasioni alla Signora Chitarra.
Benché questi due capi col loro predominio fossero passabilmente incomodi
ognuno alla parte della famiglia che dirigeva, pure l'una parte e l'altra aveva
sposate le passioni e le animosità del suo capo; l'una faceva crocchio a
mormorare dell'altra; quando si trovavano in presenza, si scambiavano visacci,
e talvolta parolacce, cercavano scambievolmente di farsi scomparire e
d'impacciarsi a vicenda nella esecuzione degli ordini ricevuti. Don Ferrante
però aveva appena qualche sentore di questa guerra sorda, perché egli non
osservava molto, e Prospero non si curava di parlargli di malinconie e le
querele della moglie, le attribuiva Don Ferrante ad inquietudine di carattere,
a giuoco di fantasia, come le domande di quattrini.
Lucia si trovava esclusivamente sotto l'autorità di Donna Prassede, la
quale certamente non intendeva di lasciare questa autorità in ozio. Si
proponeva ella a dir vero di farsi ben servire da Lucia nella parte che le
aveva assegnata; ma oltre questo fine, che era semplicemente di giustizia,
Donna Prassede ne aveva un altro di carità disinteressata a suo modo, che le
stava a cuore ancor più del primo, ed era di far del bene a Lucia, o di Lucia,
la quale le pareva averne gran bisogno. Perché tutto ciò che Donna Prassede
nella sua villeggiatura aveva udito, per la voce pubblica, della innocenza di
quella giovane, le affermazioni magnifiche ed energiche di Agnese quando era
venuta a proporle la figlia, il volto, il contegno modesto, la condotta stessa
così irreprensibile di Lucia non bastavano a produrre un pieno convincimento
nella mente di Donna Prassede; e non poteva essa persuadersi che una giovane
contadina avesse levato tanto romore di sè, fosse passata per tanti accidenti,
senza averne cercato nessuno, senza essersi gittata un po' all'acqua, come si
dice, senza essere almeno una testa leggiera.
Donna Prassede teneva per regola generale che a voler far del bene
bisogna pensar male: la sua voglia di dominare, di operare su gli altri, che
anche ai suoi occhi proprj prendeva la maschera di carità disinteressata, era
come il ciarlatano, che non dice mai a chi viene a consultarlo: «voi state
bene»; perché allora a che servirebbe l'orvietano? Oltracciò, l'aver
ricoverata, sottratta al pericolo d'una infame persecuzione una povera giovane
era un'opera certamente non senza gloria; però in questo Donna Prassede non era
più che uno stromento quasi passivo, e la parte che le era toccata non
domandava altro che un po' di buona volontà, senza efficacia di azione, e senza
esercizio di senno, era più un assenso che una impresa. Ma dopo aver ricoverata
la povera giovane, emendare anche il suo cervello un po' balzano, rimetterla
sulla buona strada, questo sarebbe stato non solo compire, ma rassettare
l'opera del Cardinale Federigo; il quale era a dir vero un degno prelato, un
uomo del Signore, dotto anche sui libri, ma quanto ad esperienza di mondo, a
discernimento di persone, non ne aveva molto: questa insomma sarebbe stata
gloria; e perché Donna Prassede potesse ottenerla, era necessario che Lucia
avesse il cervello un po' balzano, e avesse fatto almeno qualche passo su una
cattiva strada. Per averne qualche prova positiva, Donna Prassede richiese qua
e là informazioni intorno a quel Fermo a cui Lucia era stata promessa, e sulle
avventure, sulla fuga del quale Donna Prassede aveva intese in villa voci
confuse, discordi, ma tutte poco buone. Le informazioni furono quali dovevano
essere: che quel giovane era un facinoroso, venuto a Milano per metterlo
sossopra, per fare il capopopolo, ch'era stato nelle mani dei birri, a un pelo
dalla forca; e se ora respirava tuttavia in paese straniero, lo doveva alla sua
audacia nel resistere alla giustizia, e alla celerità delle sue gambe. Questa
notizia confermò il giudizio di Donna Prassede, e le diede materia per le sue
operazioni. Dimmi con chi tratti e ti dirò chi sei, è un proverbio; e come
tutti i proverbj, non solo è infallibile, ma ha anche la facoltà di rendere
infallibile l'applicazione che ne fa chi lo cita. Lucia aveva dunque
infallibilmente, non già tutti i vizj, che sarebbe stato dir troppo, ma una
inclinazione ai vizj di Fermo: questo fu il giudizio di Donna Prassede. E il
bene da farsi era non solo d'impedire che Lucia ricadesse mai nelle mani di
Fermo, ch'ella avesse con lui la menoma corrispondenza; bisognava andare alla
radice, al più difficile, guarire Lucia, farle far giudizio, togliere da quel
cervellino l'attacco per colui; attacco che a dir vero era il solo vizio
essenziale di Lucia. Questa allora sarebbe divenuta al tutto una buona
creatura; e chi avrebbe avuto tutto il merito dell'impresa? Donna Prassede.
La prima parte di questo disegno, la parte materiale, la vigilanza
esteriore sopra Lucia era particolarmente affidata alle cure di Ghita. Doveva
essa tenerle sempre gli occhi addosso, accompagnarla alla Chiesa, spiare s'ella
parlava a qualcheduno, se qualcheduno le faceva un cenno, osservare
attentamente che qualche messo nascosto non le si accostasse. Compresa e piena
dell'uficio che le era imposto, Ghita nella via andava sempre con gli occhi
sbarrati, e sospettosi; e siccome il volto di Lucia attraeva spesso e fermava
gli sguardi, così la guardiana si trovava spesso nel caso di fare il viso
dell'arme ai guardatori, o almeno di far loro intendere ch'ella vegliava, e che
la loro mina era sventata: e quando s'avvedeva che la sua aria di sospetto e di
minaccia femminile, invece di stornare i tentativi, avrebbe provocata
l'insolenza, pericolo comunissimo a quei tempi, allora accelerava il passo, e
lo faceva accelerare a Lucia. In Chiesa poi, se uno di quegli che si trovavano
sui banchi vicini aveva guardato attentamente a Lucia, o aveva tossito, Ghita,
continuando a mormorare le sue orazioni, non pensava più che a guardare il suo
deposito. Aveva inoltre l'incarico di frugare, quando lo poteva senza essere
scoperta, nelle tasche di Lucia, per vedere se mai ella ricevesse qualche
lettera. Questa precauzione avrebbe potuto sembrare inutile, giacché, (e qui
dobbiamo apertamente confessare una cosa che finora si è appena indicata e
lasciata indovinare) la nostra eroina non sapeva leggere: ma Ghita pensava che
le precauzioni non sono mai troppe. Quello poi che in questo procedere vi
poteva essere d'indelicato, non riteneva Ghita per nulla; essa non vi
sospettava nemmeno nulla di simile; non conosceva né la parola né l'idea; anzi
la parola in questo senso non esiste neppure ai nostri giorni nella lingua
pura, e noi adoperandola sappiamo d'essere incorsi in un brutto neologismo.
Finalmente, doveva Ghita cercare di scovare nei discorsi di Lucia se mai ella
avesse qualche speranza, se qualche pratica fosse ordita, farla ciarlare
artificiosamente su tutti quegli incidenti che avevano dato a Ghita qualche
sospetto.
Ebbene, signori miei, tutta questa gran macchina di cure e di operazioni,
tutto questo lavorare sott'acqua non dava quasi nessun incomodo a Lucia; o per
dir meglio ella non se ne avvedeva; e benché non potesse a meno di non sentire
qualche cosa di minuto e di pettegolo nella sollecitudine continua di Ghita,
pure lo attribuiva alla indole di lei, e non mai a un disegno profondo, e
comandato. I pensieri di Lucia, quel pensiero ch'era divenuto lo scopo
principale della sua vita, la portavano alla ritiratezza, ad astenersi da ogni
comunicazione; e quindi ella non era avvertita dolorosamente di ciò che altri
facesse per rivolgerla ad un punto al quale ella tendeva naturalmente. In altri
tempi quella situazione così nuova, così opposta alle sue abitudini, così
lontana dalle sue affezioni, le sarebbe stata penosissima, ma la facilità
ch'ella vi trovava di ottenere quel suo scopo faceva ch'ella vi stesse con
rassegnazione, e quasi vi riposasse se non con piacere, almeno col desiderio di
farsela piacere. E il suo scopo era tuttavia quello di cui abbiamo già parlato:
scordarsi di Fermo. Si studiava ella quindi di rinchiudere tutte le sue idee
nella casa dove era stata allogata, di ristringerle alle sue occupazioni, si
metteva con grande intensione a tutte le cose che le erano comandate, si
rallegrava tutte le volte che vedeva dinanzi a sè molti doveri che occupassero
tutta la sua giornata, che non le dessero agio di correre con la mente a
desiderj vani e colpevoli, di smarrirsi nelle memorie d'un passato
irreparabile.
Le memorie tornavano però sovente a tormentarla; l'immagine della madre
era, sempre la prima a presentarsi; e mentre Lucia si fermava a contemplarla
con sicurezza, con una mesta affezione, l'immagine di Fermo che le stava dietro
nascosta, si mostrava. Lucia voleva rispingerla tosto; ma l'immagine che non
voleva andarsene aveva un buon pretesto, ed era sempre lo stesso, per obbligare
Lucia a trattenerla almeno un momento: le ricordava in aria trista e non senza
rimprovero i pericoli che Fermo aveva corsi, e quelli che forse gli
soprastavano ancora, le rimostrava che quando anche un nuovo dovere può far
rinunziare ad un affetto, già così lecito, già così caro, non deve, non vuol
però togliere la pietà, la sollecitudine, la carità del prossimo. Lucia
combatteva, rivolgeva la mente ad altre immagini, ma tutte erano tinte di quella
prima, tutte la richiamavano. I luoghi, le persone: Don Abbondio avrebbe dovuto
pronunziare quelle parole, per cui ella sarebbe stata di Fermo: i consigli, le
cure, del Padre Cristoforo per chi erano? per Lucia e per Fermo: fino il
monastero di Monza, fino il Castello del Conte, fino il cardinale Federigo,
tutto si legava a Fermo, e molte volte Lucia ripensando a tutto questo, si
accorgeva ch'ella si era immaginata di raccontar tutto a Fermo. Con tutto ciò,
ella combatteva, e la guerra sarebbe stata, se non sempre vinta, pure meno
aspra e meno dolorosa; Lucia avrebbe potuto, se non ottenere lo scopo almeno
andargli sempre da presso, se questo scopo non fosse stato anche quello di
Donna Prassede.
La brava signora, per toglier Fermo dall'animo di Lucia, non aveva
trovato mezzo migliore che di parlargliene spesso. La faceva chiamare a sè, e
seduta sur una gran seggiola con le mani posate e distese sui bracciuoli di qua
e di là dei quali pendevano le maniche della zimarra di dammasco rabescato a
fiori, che era stato l'abito di moda nei bei giorni di Donna Prassede, nel
tempo in cui v'era buona fede e semplicità, in cui tutti, fino i giovani, erano
savj ed onesti, col volto imprigionato tra un cappuccio di taffetà nero che
copriva la fronte, e una enorme lattuga che girava intorno alla gola e sul
mento, Donna Prassede ricominciava la sua predica per provare a Lucia ch'ella
non doveva più pensare a colui. La povera Lucia protestava da principio con
voce angosciosa, e timida, ch'ella non pensava a nessuno. Donna Prassede non
voleva mai stare a questa ragione, e ne aveva molte da opporre: «So come vanno
le cose», diceva ella, «conosco il mondo: so come son fatte le giovani: se v'è
un ribaldo, è sempre il più accetto. Fate che per qualche accidente non possano
sposare un galantuomo, un uomo di giudizio, si rassegnano tosto; ma se è uno
scavezzacollo: non se lo possono cavar dal cuore. Eh figlia mia, non basta
dire: — non penso a nessuno —: vogliono esser fatti, fatti e non parole». Così
seguendo una sua idea, che è anche quella di molti altri, che per far passare
in una testa ripugnante i proprj sentimenti, bisogna esprimerli con molta
efficacia, adoperare i termini i più forti ed anche esagerati, Donna Prassede
non risparmiava i titoli al povero assente, lo nominava come un oggetto
d'orrore, di schifo, faceva sentire che sarebbe stata cosa inconcepibile,
mostruosa, che alcuno potesse avere interessamento, e peggio inclinazione per
colui.
Così ella otteneva appunto l'intento opposto a quello ch'ella si
proponeva. Lucia cercava di dimenticar Fermo; ma quando una parola sgraziata, e
nemica glielo voleva a forza rimettere nella mente in un aspetto odioso e
spregevole, allora tutte le antiche memorie si risvegliavano ed accorrevano per
rispingere una immagine tanto diversa dalla immagine in cui quella mente era
stata avvezza a compiacersi. Il disprezzo con che il nome di Fermo era
proferito faceva ricordare a Lucia la condotta, il contegno, il buon nome di
Fermo, tutte le ragioni per cui ella lo aveva stimato; l'odio faceva risorgere
più risoluto l'interesse; l'idea confusa dei pericoli ch'egli aveva corsi,
anche dei falli ch'egli poteva aver forse commessi, pericoli e falli che Donna
Prassede rinfacciava a Lucia con eguale amarezza come un egual motivo di
avversione, suscitavano più viva e più profonda la pietà, e da tutti questi
sentimenti rinasceva quell'amore, che Lucia si studiava tanto di estinguere.
L'amore, acconsentito o combattuto, che sia, dà a tutti i discorsi una forza e
un vigore suo proprio. Lucia diventava coraggiosa, e giustificava Fermo: e
Donna Prassede approfittava di quelle parole come d'una confessione per provare
a Lucia che non era vero ch'ella non pensasse più a lui. E con questa prova in
mano lavorava sempre più animosamente sull'animo di Lucia, facendole vedere chi
era colui ch'ella ardiva pure di difendere. E che doveva ringraziare il cielo
che la cosa fosse finita a quel modo, altrimenti le sarebbe toccato un bel
fiore di virtù. Buon per lui che le gambe lo avevano servito bene, altrimenti,
avrebbe fatto una bella figura, avrebbe tenuta compagnia a quei quattro altri
galantuomini... Quando la grossolana signora toccava tasti d'un suono così
orribile, la povera Lucia non poteva più fare altro che prendere con la
sinistra il grembiale, portarlo al volto per nasconderlo, e per ricevere le
lagrime che le sgorgavano dirottamente.
Se Donna Prassede avesse parlato così per un odio antico, per fare
vendetta di qualche affronto crudele, l'aspetto del dolore che producevano le
sue parole gliele avrebbe forse fatte morire in bocca o cangiare in parole più
dolci; ma Donna Prassede parlava per fare il bene, e non si lasciava smuovere:
a quel modo che un grido supplichevole, un gemito di terrore potrà ben fermare
l'arme d'un nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatte ingojare a Lucia tutte
le amare parole ch'ella credeva necessarie pel bene di lei, Donna Prassede, che
non era trista in fondo, la rimandava con qualche parola di conforto e di lode,
e rimaneva sempre soddisfatta di avere acconciato un po' il cuore di quella
giovane. Acconciato come una gala di mussolo, stirata da un magnano. La povera
Lucia riconoscendo la buona intenzione pregava però caldamente che queste prove
d'interessamento le fossero risparmiate.
Donna Prassede aveva nel fondo del suo cuore un altro disegno sopra
Lucia, che sarebbe stato il compimento dell'opera. Silietta si compiaceva molto
nella compagnia di quella giovane che era la sola in casa che le desse retta, e
la lasciasse parlare; e Donna Prassede pensava che si sarebbe fatto un gran benefizio
a Silietta e a Lucia stessa, se si fosse potuto farle nascere la vocazione di
andar conversa nel monastero dove Silietta doveva esser monaca.
Quivi Lucia sarebbe stata fuori d'ogni pericolo per sempre, e la buona
opera di Donna Prassede sarebbe stata più evidente, più conosciuta; Lucia
sarebbe divenuta un monumento parlante della sapiente benevolenza della sua
padrona. Non ne aveva però fatta la proposizione a Lucia, ma con quell'arte
sopraffina che possedeva, cercava tutte le occasioni per far nascere
spontaneamente nel cuore di Lucia questo desiderio.
A poco a poco queste insinuazioni divenivano più frequenti e più chiare;
e Lucia, cominciava a comprenderle, ma però senza che le cominciasse la voglia
di acconsentirvi. V'era nulladimeno per essa un gran vantaggio, che Donna
Prassede cadeva meno spesso, e con meno impeto su quel primo, più doloroso
argomento, tanto più doloroso, perché Lucia non aveva con chi esilararsi della
tristezza angosciosa che quei discorsacci le cagionavano. La nostra Agnese era
lontana, a casa sua, dove pensava sempre a Lucia; e andava spesso alla villa di
Donna Prassede per saper le nuove di Lucia; e le nuove le erano sempre date
ottime, coi saluti della figlia. La buona donna si struggeva di rivederla, ma
andar fino a Milano! In quei tempi, con quelle strade, con quella scarsezza di
comunicazioni, coi bravi, coi boschi, quella era quasi una impresa di
cavalleria errante; e Agnese si rassegnava all'idea di esser lontana da sua
figlia, come ai nostri giorni farebbe una madre della condizione di Agnese, che
avesse una figlia collocata in Inghilterra.
La povera donna aveva un'altra faccenda su le braccia: la corrispondenza
con Fermo. Quantunque egli non trovasse bel paese quello dove non era Lucia,
pure, sapendo com'egli stava sui registri di Milano, non ardiva scostarsi
dall'asilo. Faceva scrivere ad Agnese, per chiedergli nuove della figlia; dico,
faceva scrivere, perché i nostri eroi, simili in ciò a quelli d'Omero, non
conoscevano l'uso dell'abbicì. Agnese si faceva leggere e interpretare le
lettere, e incaricava pure altri della risposta. Chi ha avuto occasione di
veder mai carteggi di questa specie, sa come son fatti e come intesi. Colui che
fa scrivere, dà al segretario un tema ravviluppato, e confuso; questi parte
frantende, parte vuol correggere, parte esagerare per ottener meglio l'intento,
parte non lo esprimere come lo ha inteso; quegli a cui la lettera è indiritta,
se la fa leggere; capisce poco; il lettore diventa allora interprete, e con le
sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l'altro aveva
afferrato: di modo che le due parti finiscono a comprendersi fra loro come due
filosofi trascendentali. Il peggio è quando la situazione della quale si vuol
render conto è complicata, e i disegni e le proposte che si voglion fare, sono
contingenti e condizionate. Tale era il caso di Fermo. Il suo disegno era di
stabilirsi a Bergamo, di viver quivi della sua professione, e di farsi con
quella anche un po' di scorta, di preparare un buon letto a Lucia, e che allora
essa venisse a Bergamo con la madre ed ivi si concludessero le nozze. Ma i
tempi non erano propizii: l'amore, che dipinge le cose facili, bastava bensì a
persuadere a Fermo che il suo disegno si sarebbe potuto eseguire in seguito; ma
non poteva nascondergli che per allora era ineseguibile.
Bisognava adunque che Fermo facesse intendere ad Agnese questo miscuglio
di speranze fondate anzi certe, e di impaccio attuale, di sì nell'avvenire, e
di no nel presente. Agnese ricevette la lettera dopo il ritorno da Monza,
intese e fece rispondere come potè. Il ratto di Lucia fece tanto strepito, che
la voce ne giunse a Fermo, ma per buona ventura insieme con quella della
liberazione. Pure ognuno può immaginarsi quali fossero le sue angustie. Se
Lucia fosse rimasta nel suo paese, Fermo certamente non si sarebbe tenuto
dall'andarvi: di nascosto, di notte, travestito, per balze, per greppi, come
che fosse, vi sarebbe andato. Ma egli seppe anche che Lucia era partita per
Milano; e in tale circostanza non solo il pericolo diventava per Fermo
incomparabilmente maggiore, ma il tentativo incomparabilmente più difficile, e
l'evento quasi disperato. Dovette egli dunque contentarsi di chiedere
schiarimenti ad Agnese. La buona donna trovò il mezzo di fargli avere per mezzo
d'un mercante quei cento scudi che Lucia aveva destinati a lui, ed una lettera,
nella quale v'era l'intenzione di metterlo al fatto di tutto l'accaduto. Ma
questa lettera non isgombrò le inquietudini, e le ansietà di Fermo; anzi i
cento scudi le accrebbero: — giacché —, pensava egli, — ora che Lucia per una
ventura inaspettata possiede tanto che basta perché noi possiamo viver qui
marito e moglie, perché non viene ella, e mi manda invece questi denari, come
un dono, come una elemosina, come... (e qui Fermo si sentiva scoppiare)... come
un congedo? Voglio io denari da lei? E se ella non è mia, pensa ch'io possa da
lei ricevere qualche cosa? — Per quanto Agnese avesse cercato di fargli scriver
chiaro che Lucia dallo spavento in poi si trovava quale egli l'aveva lasciata,
Fermo alla vista di quei denari, e dati a quel modo, era assalito da mille
dubbi torbidi e strani. Le lettere che egli faceva scrivere a Lucia, cadevano
tutte in mano di Donna Prassede, la quale certo non le consegnava a cui erano
indiritte, ma pel meglio, le leggeva, e si regolava su le notizie che ne
ricavava. Fermo sempre più inquieto chiedeva ad Agnese la spiegazione di quei
dubbii e del silenzio di Lucia. Quand'anche Agnese avesse saputo scrivere non
avrebbe potuto soddisfare il poveretto, perché la cagione del silenzio le era
ignota, ed essa pure non capiva bene il contegno di Lucia con Fermo. La
spiegazione di tutto era nel voto fatto da Lucia, e che essa non aveva
confidato né meno alla madre. La corrispondenza andava sempre più imbrogliandosi
fin che essa fu interrotta dagli avvenimenti che racconteremo nel volume
seguente.