Andavano intanto coll'avanzare della primavera sempre più spesseggiando
gli ammalamenti e le morti. I magistrati, come chi al raddoppiar di chiamate, e
al continuo battere della luce, si risenta da un alto sonno, cominciavano a
riandare ciò ch'era accaduto, a guardare ciò che accadeva, a sospettare, quindi
a risolversi che bisognava far qualche cosa. Ordinarono contumacie, bollette,
purghe di merci, fecero porre cancelli alle porte, delegarono nobili che vi
assistessero, intimarono pene a chi trasgredisse gli ordini della Sanità, o
turbasse con minacce o con insulti quegli che gli eseguivano, consultarono sui
mezzi di fornire alle spese sempre crescenti del Lazzeretto, e di tutti gli
altri servizj, e di nutrire una gran parte della popolazione alla quale
cessavano i lavori e i mezzi di sussistenza. Ma la difficoltà era appunto nel
trovare questi mezzi.
Il Marchese Spinola de los Balbasos governatore, stavasi a campo sotto
Casale, occupato nel suo principal mestiere d'eroe. I Decurioni spedirono
deputati a rappresentargli le urgenze dello Stato, l'esaurimento delle casse
municipali, l'impossibilità di aumentare le imposte, quando le correnti non
erano pagate per inabilità, e ad implorare che l'erario reale assumesse queste
spese straordinarie ed inevitabili. Il Marchese accoglieva i deputati con molta
buona grazia. Del resto rispose spiacergli assai di non trovarsi a Milano a
fare ogni uficio per sollevare quella povera città, ma sperare che i Decurioni
avrebbero fatto cose grandi; pensassero essi, da quei bravi uomini che erano,
al modo di far danari; esser questo il tempo di non guardare a spese, di
profondere per la salvezza della patria; tutte le risoluzioni che essi
avrebbero prese a questo fine e in questo senso, egli le avrebbe approvate. Su
le domande, rispose che avrebbe pensato. Più tardi poi, nel maggior fervore
della peste, il governatore pigliò il partito di lavarsene le mani; trasferì
con lettere patenti la sua autorità nel gran cancelliere Ferrer; ed affidò a
lui e agli altri magistrati la fame e la peste, non ritenendo per sè che la
guerra. In quelle angustie i Decurioni, accattavano somme a prestito, ne
chiedevano in elemosina, ponevano contribuzioni particolari ai più facoltosi,
aumentavano i carichi, ne inventavano di nuovi: ma il ricavo non bastava ai
bisogni, e le cose andavano come potevano. La confusione cresceva di giorno in
giorno: quella qualunque azione dei magistrati che nei tempi ordinarj serviva a
mantenere quel qualunque ordine, diveniva ora di giorno in giorno più debole,
più incerta, più intralciata, e in molte parti cessava affatto: e nello stesso
tempo tutti gli elementi di disordine diffusi in quel corpaccio sociale,
acquistavano un nuovo vigore.
I ribaldi sentirono quanto guadagno di licenza e d'impunità poteva
trovarsi per essi nel pubblico turbamento, nello sbalordimento dei magistrati,
e degli uomini quieti, e ne approfittarono. Nè basta; l'autorità publica,
istituita per reprimere quei ribaldi, fu costretta a servirsi di loro, e ad
affidare a quelle mani una porzione spaventosa di forza legale. Convenne
arruolare in fretta e in furia uficiali d'ogni genere pel servizio
straordinario, commissarj, guardie, monatti: così con antica denominazione
milanese erano disegnati gli uomini condotti a trasportare al lazzeretto
gl'infermi, a sotterrare i cadaveri, a purgare ed ardere le robe infette, a
vivere insomma della peste in mezzo alla peste. A questo tristo e pericoloso
uficio, dal quale rifuggivano anche gli uomini avvezzi ai più bassi e penosi,
si offrivano i più sicuri scellerati, pei quali l'attrattiva delle paghe, della
rapina e della licenza era più potente che il timore della morte. Sul principio
fu pure fattibile contenerli entro qualche regola, ma coll'estendersi della
peste andò crescendo la loro licenza; e a grado a grado, le case, le cose, le
persone furono in loro balìa.
I tempi delle scelleratezze straordinarie sono per lo più illustrati da
virtù più solenni, più risolute, straordinarie anch'esse; e di tali non mancò
il tempo di cui parliamo. Si videro esempj di rassegnazione sentita ed animosa,
di liberalità costosa, di carità ardente, e per così dire spensierata, di zelo,
di attività infatigabile; esempj tutti ispirati dalla religione, e dati in gran
parte dai suoi ministri.
Fino dal mese di novembre del 1629, il cardinal Federigo, ragionando dal
pulpito sul pericolo vicino della peste, aveva proferite queste parole: «non
dubitate, fate animo, che né da me, né da miei preti non sarete giammai
abbandonati». Venuto il caso, egli attenne in tutto la promessa.
Dando per supposto, o accennando come cosa già nota che l'esporre la vita
pei fratelli è un obbligo del ministero, egli prescrisse ai parrochi, e a tutti
gli ecclesiastici nuove regole sul modo di amministrare i soccorsi della
religione; indicò le cautele da usarsi, distribuì somme da erogarsi in ajuti
temporali. Corresse severamente e svergognò quelli che si ritiravano
dall'assistere agli infermi: il primo che disertando la sua parrocchia, s'era
rifuggito in campagna, lo richiamò egli con rampogne e con minacce d'interdetto
al suo posto; né trovo che da poi gli sia più convenuto di ricorrere al rigore
per simile motivo. Egli con quella sua consueta composta operosità, attendeva
in casa alla direzione di tutte le opere imposte al clero, non rispingendo mai
chi avesse bisogno di conferire con lui; percorreva la città accompagnato da
uno che portava moneta da distribuirsi in elemosina; fermandosi sotto le
finestre, alle porte dei poverelli per informarsi dei bisogni, e sovvenire, per
ascoltare le querele, e dar consolazioni e coraggio: visitava il lazzeretto,
dava consigli, e colla sola presenza ratteneva per qualche momento almeno la
sfrenatezza dei ribaldi, ed eccitava i ministri publici ad adempire
coraggiosamente agli uficj loro. Rimaso quasi unico superstite di tutta la sua
famiglia vescovile, consigliato, tempestato dagli amici, dai parenti, dai
medici, da uomini potenti, perché non si esponesse a tanti rischj, e si
ritirasse in qualche sua villa, non fu scosso un istante dal suo proposito;
tanto che ne ebbe taccia di ostinato: fatto notabile davvero, e che può esser
di esempio e di consolazione a quegli che si rammaricano di veder censurate le
loro azioni. Rimase egli dunque fino alla fine; ma non per questo lasciò di
trarre profitto dalle sue ville: scelse tra i giovanetti che si educavano al
ministero ecclesiastico alcuni distinti per morigeratezza e per diligenza; e
gli mandò quivi per sottrarli al comune pericolo, e in tanta strage serbare
almeno il meglio ad un migliore avvenire.
La condotta del clero non fu difforme dall'esempio del pastore: non vi fu
appestato che desiderasse invano l'assistenza del sacerdote: preti e frati nel
lazzeretto, nelle case, nelle vie accorrevano al bisogno, ne andavano in cerca;
e il cardinale stesso, e nei pubblici sermoni, e nel suo trattatello della
peste, loda con gratitudine i molti che in quell'opera avevano perduta la vita,
e i superstiti, che non l'avevano però risparmiata.
Fra quel nobile volgo si distinse un uomo che avrebbe un nome storico, se
la storia fosse consecrata a descrivere lo stato delle società nei diversi
tempi, e a segnalare i fatti e i caratteri che più servono a far conoscere la
natura umana. Nei molti cappuccini che si offersero ad assistere gli appestati,
v'era un Padre Felice Casati di grande autorità presso ogni sorta di persone
per la severa santità della vita, per una straordinaria potenza d'animo, e per
fama di sapere. I Decurioni impacciati com'erano, pensarono che un tanto frate
poteva essere impiegato a più vasta opera che egli stesso non pensasse; e lo
scongiurarono d'assumere il governo del lazzeretto. Egli andò a chiedere il
consiglio di Federigo, il quale abbracciatolo a più riprese, lo animò ad
accettare l'incarico. Il Presidente della Sanità, che era più impacciato d'ogni
altro, condusse nel giorno di Pasqua, il Padre Felice con altri capuccini al
lazzeretto, e quivi, chiamati gli uficiali, lo presentò ad essi dicendo:
«questi è il presidente del lazzeretto, anche sopra il presidente». Mirabile
spettacolo! vedere un magistrato, avvezzo alle gare ansiose e agli ostinati
puntigli delle preminenze, abbassarsi volontariamente, discendere al secondo
grado, mettere un altro sopra di sè. Ma vi voleva la peste.
Col crescere della mortalità, col popolarsi del lazzeretto, andavano scemando
le mormorazioni e le beffe del popolo; la parola peste era profferita più
sovente e fuor di scherzo: al vedere infermi condotti al lazzeretto, e case
sequestrate, molti che dapprima avevano schiamazzato contra quei provvedimenti,
cominciavano a trovar ben fatto che si allontanasse da loro ciò che finalmente
sentivano essere un pericolo.
Per qualche tempo il contagio aveva serpeggiato soltanto nelle case dei
poveri; finalmente, dilatandosi, attinse quelle dei nobili; e questi esempj,
perché più esposti alla osservazione, produssero una impressione più generale e
più forte. E più d'ogni altro caso fè specie l'udire che era caduto infermo di
contagio quel Ludovico Settala che lo aveva da tanto tempo segnalato indarno, e
con suo pericolo. Avranno eglino detto allora: «il povero vecchio aveva
ragione»? Probabilmente l'avranno detto quei soli, che fino da principio gli
avevano creduto; perché essi soli potevano dar ragione al povero vecchio, senza
dar torto a se stessi. Il povero vecchio, e un suo figliuolo guarirono: la
moglie, un altro figliuolo, e sette persone di servizio morirono di peste.
A malgrado d'una sì terribile evidenza, v'era ancora alcuni ostinati: per
far capaci anche costoro, il tribunale della Sanità ricorse ad uno strano
espediente, usò un linguaggio tipico, adattato veramente all'intelletto di chi
doveva esser persuaso e di chi voleva persuadere, degno insomma dei tempi. Era
morta di peste una famiglia intera: la Sanità diede ordine che un giorno
festivo in cui il popolo era solito concorrere alla chiesa di San Gregorio
posta dietro il lazzeretto, tutti quei morti vi fossero trasportati sovra un
carro, ignudi. La lurida pompa attraversò la folla; alcuni torcevano con orrore
e con fastidio gli sguardi, altri accorrevano a guatare con ansiosa curiosità;
e questi videro su quei cadaveri i lividori, e i buboni pestilenti, comune
cagione ad una famiglia di quelle comuni esequie. Non restò finalmente chi
dubitasse che il male era contagioso.
Ma il ricredersi fu più fanatico, più funesto che non era stata
l'ostinazione: da una verità riconosciuta cominciò un periodo di demenza e di
atrocità publica, non inaudito certamente nella storia dei traviamenti umani,
ma per durata e per casi, notabile e spaventoso.
Riconosciuta una volta l'esistenza del contagio in Lombardia, non pare
che si dovesse scrutiniar molto, andar molto lontano a cercarne la causa:
ell'era in pronto, immediata, naturale, manifesta; la calata delle truppe
alemanne. Ma non fu così. Quegli uomini avevano disputato, riso, e sbuffato per
sei mesi; non avevano mai voluto ammettere, né sofferire che altri supponesse
relazione tra la venuta dell'esercito, e il nuovo malore che regnava in
Lombardia: confessare ora finalmente questa relazione, sarebbe stato un
confessare d'essere stati bestialmente ostinati e ciechi. Non vollero quindi né
ricordarsi, né parlare, né udir parlare di quella circostanza; e rifiutando la
causa naturale, ne immaginarono, come suole avvenire, una stravagante, una che
sarebbe ridicola, se quella immaginazione non avesse avute conseguenze, che
udite o lette, rendono altrui ritroso al riso, per qualche tempo ancora da poi
che il racconto è cessato. S'immaginarono che la peste fosse disseminata con
unguenti, non so, né essi pur sapevano quali, da uomini perversi, collegati
sotto qualche capo potente e nascosto, e tutti in società di patti col demonio.
A diffondere questa insana credenza contribuiva la disposizione universale a
supporre cause soprannaturali, che ammesse una volta spiegano tutto senza
difficoltà, stornando gli ingegni dall'esame delle cose e delle relazioni
reali, il quale fa nascere dubbj spinosi da ogni parte. E fra queste cause
soprannaturali una che più facilmente si ammetteva era l'intervenzione del
demonio: ogni fenomeno che uscisse dalla sfera angusta delle cognizioni, e
della esperienza comune, era opera del demonio, non solo nel male, ma nelle
cose innocue, ma nelle pregevoli, ma nelle buone: del che rimane tuttavia un
vestigio in più d'un dialetto e d'una lingua che, per dinotare un uomo di
abilità straordinaria in qualunque genere, hanno tuttavia questa formola: egli
è un diavolo; ha il diavolo addosso. Contribuiva l'opinione universale,
congenere a questa che abbiam detta, sulla esistenza, sulla frequenza delle
streghe e degli stregoni: opinione che applicata poi a tanti infelici, faceva
nascere dei sospetti che nella persuasione divenivano fatti, e davano così alla
opinione stessa la forza e l'autorità della esperienza. Contribuiva la facilità
a credere delitti enormi, strani, intenzioni e disegni di una perversità
infernale, gratuita capricciosa: facilità nata in parte da una esperienza
troppo reale: non eran rari gli uomini che a forza di conceder delitti alle
passioni loro eran giunti a segno, di farsi una passione e una gloria del
delitto stesso. Dei veleni poi l'uso era tanto frequente, come attesta il
cardinal Federigo in un suo trattatello su quella peste il quale si conserva
manoscritto nella biblioteca ambrosiana, che ne eran comuni gli artefici e le
officine.
L'ignoranza e l'irriflessione portavano poi leggiermente una tale
corrività a creder misfatti, al di là delle nozioni dell'esperienza; e
specialmente in ciò che risguardava le nazioni straniere; l'orgoglio, una
stolta rivalità, talvolta una infame politica facevano inventare alla giornata
le più atroci imputazioni, o le interpretazioni più assurde di fatti reali:
queste erano gettate in mezzo ad una popolazione che non aveva né le notizie di
fatto, né le idee generali necessarie per farvi sopra un esame, né l'abitudine
di esaminare: erano credute, ripetute, e disponevano le menti a crederne altre,
formavano un criterio publico falso, corrivo, ed avventato. Contribuivano certe
tradizioni confuse, ma ridette con asseveranza fra il popolo, di simili trame
scoperte nella peste del 1576, e in altri tempi d'eguale sciagura.
Contribuivano le stolte, e ancor più inescusabili erudizioni di molti dotti
d'allora, che andavano a pescare nelle storie, e in narrazioni ancor più
favolose, ogni menzione di pesti propagate con sortilegj, e con veleni, o come
dicevano manofatte: materia pur troppo abbondante; giacché da quella peste che,
al dir di Tucidide, gli Ateniesi supponevano cagionata da veleni gettati nei
loro pozzi dai Peloponesi, fino alla peste di Roma che nel consolato di P.
Cornelio Cetego, e di M. Bebio Tamfilo, cominciò, al dir di Livio, da un pianto
del simulacro di Giunone Lacinia in Lanuvio, e da altri simili avvenimenti, non
vi fu peste, quasi fino ai nostri giorni, della quale il popolo che la pativa
non desse cagione in gran parte a frodi umane, o a prodigj superstiziosi. Ma
quello che fissò ad un punto d'errore questa vagabonda ed inquieta credulità,
fu una lettera sottoscritta dal re Don Filippo Quarto, spedita fino dall'anno
antecedente al Marchese Ambrogio Spinola, nome ancor celebre per le spedizioni
di Fiandra, che era stato surrogato al Cordova nel governo di Milano. In quella
lettera si dava avviso al governatore che quattro Francesi sorpresi nell'atto
di spargere unguenti pestiferi nella Corte di Madrid, erano sfuggiti, né dove
si sapeva: dovesse egli quindi stare all'erta se mai fossero capitati a Milano.
Al primo divolgarsi di quell'avviso non vi si badò più che tanto: ma il
contagio che nelle credule menti, era stato associato alla idea di quelle
unzioni come un effetto di esse, comparendo ora realmente, risvegliò tosto la
ricordanza della sua immaginata cagione; l'idea di unzioni venefiche, che era
rimasta infeconda, mise radici, si svolse, fruttificò, come un germe maligno
profondamente sepolto, se il vomero lo solleva, e lo appressa alla superficie
del terreno. Unguenti, polveri, comete, malie, trame, congressi, demonio, erano
le parole che tornavano in tutti i discorsi. Si venne tosto a sapere che il
demonio aveva pigliata a pigione una casa in Milano; si disegnava il quartiere,
si ripeteva il nome del locatore. Che più? Un uomo e si diceva chi, fermatosi
un giorno su la piazza del duomo aveva veduto giungere in carrozza a tiro sei
con gran corteggio un gran signore col volto fosco ed abbronzato, cogli occhi
infiammati, coi capegli ritti, col labro superiore teso alla minaccia, un viso
insomma di quei che il buon milanese non aveva mai veduti. Mentre questi
guatava, il cocchio era ristato, e a colui fatto invito di salire: egli aveva
condisceso; e dopo un certo giro il cocchio s'era fermato a quella tal casa, ed
ivi egli era smontato con gli altri. La casa era degna del fittajuolo:
andirivieni, deserti, luce, tenebre, là solitudine, qui larve sedute a
consiglio, amenità di giardini, e orrore di caverne. Quivi al galantuomo erano
stati mostrati grandi tesori, e promessi, se volesse servire a quel signore
nella grande impresa ch'egli macchinava. Ma il galantuomo, avendo ricusato, era
stato rimesso nel cocchio, e ricondotto alla piazza del duomo. Questa storia
non fu soltanto creduta in Milano dov'era nata, ma si diffuse per tutta Europa,
e in Germania se ne incise un disegno. L'arcivescovo elettore di Magonza chiese
per lettera al cardinale Federigo Borromeo che fossero tutti codesti portenti
che si narravano di Milano: il buon cardinale riscrisse che erano sogni e
delirj.
Quand'ecco, il mattino del 17 maggio i primi che uscirono di casa alle
loro faccende, videro le muraglie sparse di macchie viscide, giallastre,
ineguali, come impresse da spugne lanciate; le porte pure imbrattate della
stessa materia, e intrisi i martelli. Per quanto sia da diffidare delle
affermazioni di quel tempo, questo fatto però sembra indubitabile; giacché i
contemporanei lo riferiscono come testimonj di veduta; e nessuno lo pone in
dubbio; e fra que' testimonj si trova il Ripamonti il quale non poteva essere
illuso dalla prevenzione, poiché da tutte le sue parole traspare chiaramente
ch'egli non partecipava alla persuasione comune. D'altronde è ovvia una
spiegazione naturale di quel fatto. V'ha in ogni tempo degli uomini pei quali
il terrore pubblico è un divertimento; e che studiano le occasioni di crearlo,
o di accrescerlo; e ve n'aveva una trista abbondanza a quei tempi, in cui gli
animi erano esercitati singolarmente ad ogni cosa ostile, avvezzi a cercare una
superiorità propria nell'abbattimento altrui, una gloria nel fare il male con
destrezza, con audacia, e con pericolo. È probabile che uomini di questa bella
indole abbiano vegliata una notte a quelle gloriose pitture, per vedere nel
giorno l'effetto che produrrebbero sulle fantasie dei loro concittadini, e per
ridere sicuramente d'una paura, della quale essi conoscevano l'illusione. E in
quel trattatello del Cardinal Federigo è scritto che alcuni ebbero poi a
confessare di avere unti più luoghi per farsi beffe della gente. È poi anche
probabile che le fantasie insospettite ingrandissero la realtà, e vedessero
unzioni artificiali e recenti in ogni macchia, anche in quelle sulle quali più
volte prima di quel giorno saranno passati i loro sguardi distratti e inavvertiti.
I primi scopritori delle macchie chiamarono tosto altri ad osservarle: in
un momento le vie brulicarono di gente che accorreva, e si addensava innanzi a
quelle macchie come ora ai quadri più lodati in una esposizione publica. Il
terrore e lo sdegno invasero tutti gli animi: il sospetto, errante ed incerto
alla prima, si determinò tosto a varie certezze; giacché la moltitudine si
accontenta bensì dell'indeterminato nei ragionamenti; ma nei fatti vuole del
positivo, e lo vuol tosto. Per alcuni il capo degli untori (il bisogno
creò allora il vocabolo) era senza dubbio il tal principe, che voleva far
morire gli abitanti del ducato, per impossessarsene a man salva; per altri era
il Cordova che voleva vendicarsi degli urli e dei fischj con che nel suo partire
l'aveva accomiatato il popolo memore della fame durata nel suo governo; altri
nominava D. Giovanni Padilla figlio del Castellano di Milano; altri il duca di
Friedland, Vallenstein; altri disegnava un nobile che si trovava a Roma; e
questa voce crebbe tanto, che fu detto e creduto che egli era stato preso, ed
era mandato a Milano per subirvi il supplizio: l'universale lo aspettava con
ansietà, i parenti tremando e nascosti; e tutto era un sogno. Alcuni
disegnavano altri nobili come complici, alcuni disegnavano uomini sconosciuti;
alcuni accertavano che tutto veniva dai Francesi. Il furore era al colmo,
nessun supplizio si stimava troppo crudele pel capo e pei complici. Nè è da
farsene maraviglia; un tal sentimento è troppo facile a nascere in un popolo il
quale crede che v'abbia degli uomini che tentano di avvelenarlo in massa. Dal
che si vede, che a volere impedire gli effetti talvolta tanto iniqui e tanto
crudeli di simili esacerbazioni popolari, è scarso, e tardo rimedio
l'intercedere, il predicare la moderazione, il perdono, quando gli animi sono
persuasi della realtà dell'attentato; bisogna cercare di prevenire la
persuasione, e sopra tutto guardarsi dal secondarla ripetendo ciecamente i
primi romori publici. Ho detto si vede, e dovetti dire: si dovrebbe vedere;
giacché osservando le piaghe dei nostri maggiori non dobbiamo chiuder gli occhi
alle nostre; e questa corrività a credere senza prova attentati contra il
publico, contra una parte di esso, ad attribuire alle persone fatti e parole
immaginarie è una piaga viva tuttodì; e dico viva nei popoli più colti, e dico
anche negli uomini più colti di questi popoli. È cosa strana e trista che nelle
cose contemporanee anche molti uomini colti si accontentino di ragioni che gli
farebbero ridere applicate in una storia ad avvenimenti lontani. Nei nostri
tempi in cui i fatti si sono affoltati con una terribile celerità, è
incredibile l'influenza che hanno avuta in essi queste opinioni così
leggermente ricevute: le più inverisimili son divenute spesso norma infallibile,
impulso potente di condotta e di azioni: effetti terribili di cause
immaginarie, furono poi cagioni di azione pur terribile, vasta, e prolungata.
Su questa corrività non posso trattenermi dal trascrivere alcune parole d'oro
da un libro d'un uomo singolarmente osservatore, il quale si trovò ravvolto in
avvenimenti d'una terribile complicatezza: «Si je ne l'avois pas vu
moi-meme, et plusieurs fois, je ne le croirois pas: il a été fait par des
hommes de bien à des hommes atroces, des inculpations qui n'ètoient ni vraies
ni vraisemblables.»
Tornando al nostro proposito, v'ebbe pure alcuni i quali pensarono, e
dissero che tutto quell'infardamento doveva essere una burla; e l'attribuirono
a scolari dello studio di Pavia. Ma questa opinione non fece presa: quella che
supponeva una intenzione più rea, una intenzione atroce era troppo conforme
alle altre idee dell'universale: e del resto nelle grandi sciagure gl'ingegni
si pascono volentieri di supposizioni orribili. Quegli che opinavano per la
burla non osarono troppo insistere, per non esser presi essi stessi in sospetto
di complici o di fautori dell'attentato. Dal non credere un delitto
all'approvarlo il salto è grande; ma la logica delle passioni è agile, e sa
farne senza difficoltà anche dei maggiori. Il suo modo di procedere in questo
caso è tale. Quando a persone inebbriate d'odio e di indegnazione contra il
supposto autore d'una grande iniquità contra il pubblico, voi negate che quegli
ne sia colpevole, l'idea che rimane nei vostri uditori è che voi intendete di
scusarlo. Ora nelle menti loro, atrocità del delitto, certezza del delitto,
reità del tale o dei tali sono idee affatto indivisibili; e quindi scusare la
persona è per essi scusare la cosa. Scusare poi, approvare, favorire, esser
complice, esser capo, sono salterelli, che la logica fa quasi senza
avvedersene.
Ma ciò che reca maraviglia anche a chi avendo letti i libri di quel tempo
ha potuto avvezzarsi al ragionare dei loro autori, si è l'udire taluno di quei
medici stessi che avevano sostenuto, insegnato, osservato alla giornata come il
contatto trasmettesse e diffondesse rapidamente la peste, udirli dico poi
attribuirne la diffusione alle unzioni. Ai 19 di Maggio, il tribunale della
sanità con publica grida, offerse premio ed impunità a chi rivelasse gli autori
delle unzioni. Altre consimili furono poi publicate d'ordine del governatore e
del senato.
In mezzo alle suspicioni, ai furori, alle accuse avventate e crudeli, in
mezzo pure alla licenza che né le sventure, né le ire avevano frenata, sorse
una smania generale di placare la collera di Dio con una processione publica
nella quale si portasse per la città il corpo di San Carlo. Il Vicario e i
Dodici di Provvisione, i sessanta decurioni fecero di ciò richiesta al
Cardinale Federigo; il quale ricusò da prima, adducendo motivi, che da un tal
labbro pare che dovessero portare la persuasione; ma talvolta la
ragionevolezza, o l'opportunità delle parole toglie ogni forza anche alla
autorità. Allegava l'uomo savio che il popolo aspettava da quella supplicazione
solenne la liberazione dalla peste, non con una speranza condizionata e
rassegnata, ma con una certezza superstiziosa; e che a questa, quando fosse
delusa, succederebbe una incredulità egualmente superstiziosa, una indegnazione
empia. Un altro motivo da lui addotto era anche conforme ai più cari pregiudizj
del publico: e pur non valse. «Una tale ragunata di popolo», diceva egli,
«potrà essere una troppo comoda occasione per questi untori, quando sia pur
vero che ve n'abbia». Giacché Federigo, quantunque fosse lontano dall'ammettere
tutte le ragioni che persuadevano su quel punto la maggior parte dei suoi
contemporanei, quantunque anche in iscritto abbia mostrato la frivolezza, e
l'illusione di alcune, e segnate le cagioni e i modi dell'errore, pure
sbalordito da tante grida, sopraffatto da tante testimonianze non ebbe il
coraggio di pensare che il delitto era tutto immaginario: e con tutta la nostra
riverente propensione per quell'uomo, non possiamo dargli una tal lode, che pur
fu meritata da alcuni suoi contemporanei, dei quali non già i nomi, ma una
memoria confusa ci è stata conservata dagli scrittori. E, cosa singolare! tutti
quegli scrittori, meno il Ripamonti, insorgono contra quei pochi increduli; di
modo che se noi posteri sappiamo che alcuni uomini furono esenti da un funesto
errore comune, lo sappiamo soltanto per l'accusa di cecità e di stranezza che
gli scrittori credettero di portare contro di quelli al nostro riverito
tribunale.
Un'altra ragione, e savia davvero, allegava il buon vescovo: che un
pericolo ben più certo, e ben più funesto sarebbe la frequenza, l'addensamento,
e la mistura di tante persone: e che era troppo da temersi che un mezzo cercato
per ottenere la liberazione della peste, ne divenisse un terribile propagatore.
Ma le insistenze, le importunità furono tali ch'egli acconsentì. Su di che noi
non osiamo né assolvere, né censurare la sua memoria: perché non possiamo
sapere quali sarebbero state le conseguenze d'una ripulsa diffinitiva. Quegli
uomini avrebbero potuto fare a furore la loro processione senz'altro permesso;
e farla meno ordinata e di più funesto effetto, avrebber potuto fare Dio sa
che. A chi volesse giudicare a rigore il nostro Federigo, noi non auguriamo di
aver mai a competere con un qualche migliajo di furiosi ostinati.
Tre giorni furono spesi in preparamenti: si ornarono in fretta le vie per
cui doveva passare la processione: i ricchi cavarono fuori le più preziose
suppellettili; le fronti delle case povere furono addobbate dai vicini
doviziosi, o per cura del publico. Il tribunale della sanità bandì che nessuna
persona di terra sospetta potesse entrare quel giorno in Milano; anzi per
accertare l'esecuzione del bando, fece chiudere le porte della città. E
parimenti, perché nessuno dei cittadini infetti o sospetti potesse in quel
giorno uscire e mischiarsi alla folla, fece inchiodare le porte delle case già
sequestrate. Con questi ordini si credette che fosse bastantemente ovviato ai
pericoli di una accolta così numerosa. Un momento di riflessione avrebbe dovuto
bastare a sbandire una tale fiducia da qualunque intelletto umano: e tanto più
fa stupore come ell'abbia potuto prevalere in coloro i quali avevano dovuto
vedere e sperimentare quanto rapidi, facili, moltiplici fossero i modi per cui
il contagio si comunicava; e quanto scarsi in paragone i mezzi di riconoscere
tosto le persone, le cose a cui si era comunicato. Certo non potevano nutrire
la pazza lusinga di aver saputo discernere e sequestrare tutti gli infetti;
dovevano anzi tenersi pur troppo certi che molti giravano liberamente, molti si
sarebbero trovati in quella folla i quali avevano già nei loro corpi, o nelle
vesti appiccato il contagio; non ignoravano che un solo di questi sarebbe
bastato ad infettare una città intera: e si fidarono a quei loro provvedimenti.
All'alba del giorno 11 di giugno, festivo a quei tempi nella diocesi
milanese pel nome di San Barnaba, il clero e il popolo, ragunatosi parzialmente
nelle diverse chiese, convenne in drappelli al Duomo, donde tutti poi insieme
si mossero a processione. Andava innanzi una gran troppa di popolo misto di
età, di condizione, e di sesso; quali portando un cero, quali un rosario; molti
in segno di penitenza, scalzi. Venivano quindi con ceri le confraternite
vestite di fogge varie di colori e di forme, poi le arti distinte, e precedute
ognuna dal suo confalone; poi le varie congregazioni dei frati, neri, bigi, e
bianchi, poi il clero secolare, distinto in parrocchie e in capitoli, con varie
divise; quindi fra lo splendore di folti ceri, e tra un nembo incessante
d'incenso, portata da quattro canonici, l'arca dove giacevano le reliquie
invocate di San Carlo. Dai cristalli che chiudevano i lati traspariva il corpo
coperto di splendidi abiti pontificali, e il teschio mitrato, in cui fra lo
squallore delle vuote occhiaje, del ringhio spolpato, delle forme mutilate,
della cute abbronzata, aggrinzata su l'ossa, traluceva ancora qualche vestigio
della faccia antica, esplorato con angosciosa venerazione dai vecchj che
avevano veduto vivo il santo pastore. Gli altri cercavano di raffigurare in
quelle reliquie una immagine più presente e più reale di quella faccia che
dalla infanzia avevano osservata e venerata nelle imitazioni dell'arte. Dietro
le spoglie del morto pastore, veniva il suo cugino ed imitatore Federigo,
consunto egli pure e pallido di vecchiezza, di penitenza, e di accoramento, in
quell'aspetto di compunzione che nessuna ipocrisia può contraffare, poiché è
l'effetto involontario d'un sentimento che non conosce i modi pei quali si
esprime. Le affezioni temporali pel parente, appena si facevano sentire in
quell'animo, assorbite dalla riverenza del santo, e dalla invocazione
all'intercessore; il nome comune, tutte le memorie dei tempi vissuti insieme,
si perdevano nella fede: non era più che un vescovo che pregava l'uomo vivente
presso Dio perché pregasse pel suo popolo. Colui che aveva cercato di stornare
quella cerimonia, vi portava ora forse l'animo il più fervente: le ragioni che
l'avevano renduto ritroso ad approvare una risoluzione imprudente non venivano
ora a distrarre con ricordi superbi e dispettosi la sua mente dall'intento
ragionevole e santo di quella risoluzione: il culto, e la preghiera. Perché,
egli era di quei pochi che adoperano le loro ragioni sol tanto quanto possono
sperare di ottenere con esse una utile persuasione; avuto o disperato questo
intento non le vanno più rivangando con un inquieto brontolamento: rodersi, o
insuperbirsi d'essere stati saggi indarno, non pare ad essi un esercizio
ragionevole dell'intelletto; far vedere, e far confessare agli altri che essi
avevano meglio pensato di loro, non pare ad essi uno scopo. Certo anche quei
pochi sono soggetti all'errore; ma di quanto scemerebbero in numero gli errori,
e quanto meno sarebbero funesti nell'effetto quegli che rimarrebbero, se tutti
gli uomini osservassero le cose con una mente disinteressata d'orgoglio.
Dopo l'arcivescovo venivano i magistrati, e i nobili, quali rivestiti di
ricche divise, come a dimostrazione solenne di culto, quali in segno di
penitenza a piè nudo, coperti di sacco coi cappucci rovesciati sul volto,
forati come a finestra dinanzi agli occhi, e cadenti in acuta punta sul petto.
Quindi ancora un'altra gran frotta di popolo; e alla coda i vecchj stanchi, le
donne rimaste addietro coi fanciulli, gli attratti, i zoppi, i deboli; molti
ritardati dal fermento della peste che già covavano senza saperlo, o senza
volerlo sapere, e che toglieva loro a grado a grado le forze.
La processione sboccata dalla porta maggiore del Duomo, s'incamminò per
la via de' cappellaj, al crocicchio detto il Bottonuto, dove allora era una
croce, e quindi con un giro interno, toccando tutti i quartieri, e sostando a
tutti i crocicchj dove erano allora le croci, alcune delle quali rimangono
tuttavia, tornò al Duomo per la piazza dei mercanti. Tutta la via era adombrata
da una striscia perpetua di tele, sostenuta da pali e da correnti composti come
a pergolato; i pali rivestiti di rami frondosi tagliati di fresco; e tra
gl'intervalli, drappelloni di varie stoffe rannodati e pendenti; le pareti
tutte coperte di tappeti, di strati, di quadri; i davanzali delle finestre
ornati di fiori o a mazzi, o vegetanti nei vasi, e di arredi antichi, o
preziosi, e da per tutto ceri ardenti che restituivano la luce esclusa da quei
folti adornamenti. Fra tanta pompa si vedevano alle finestre molti di quei
poveri sequestrati, alcuni scarnati, e coi segni della morte in volto, tendere
a stento le braccia supplichevoli all'arca che passava. Da quelle case usciva
un ronzio di voci che accompagnavano gli inni dei passeggeri; e di tratto in
tratto un risalto di gemiti, uno sclamar di preghiere che terminavano in
singhiozzi ed in guaj. Nè alle finestre soltanto, ma sui tetti delle case
vicine e soprastanti si vedevano di quegli spettatori ai quali non era stato
concesso di mescersi alla supplicazione comune; e sur alcuni tetti si
distinguevano all'abito drappelli di monache ivi tirate dalla curiosità e dalla
divozione. Gli altri quartieri della città deserti, muti, se non dove giungeva
a poco a poco il mormorio della processione che passava non lontano, e pure a
poco a poco diveniva più fievole, e moriva. Quegli abitanti tendevano
l'orecchio appoggiati alle finestre, o sollevati sul letto mortale; per
distinguere il suono della preghiera nella quale erano ricordati anch'essi,
quasi per udire in quel muto abbandono un romore che gli assicurasse che altri
pure viveva e si moveva in quella città di cui non vedevano che la solitudine.
La processione tornò al duomo dopo un giro di dodici ore. L'arca rimase esposta
sull'altare maggiore del duomo per otto giorni.
Il tristo presagio del Cardinal Federigo non tardò ad avverarsi. Prima
della processione le case chiuse erano intorno a cinquecento; pochi giorni
dopo, si notavano quelle dove il contagio non fosse entrato. V'era due mille
persone nel lazzeretto; in breve crebbero a dodici mila: non bastando le stanze
e i portici, furono in fretta, costruite capanne di legno nel vasto ricinto: né
quelle pure bastando furono eretti tre altri lazzeretti in diversi punti fuora
delle mura della città. La mortalità comune che era prima di cento trenta
persone alla giornata, per rapidi salti venne a mille ottocento. Due fosse
erano state scavate pei cadaveri, ampie, si diceva, enormi, quasi per lusso di
previdenza; sperando che in giorni non lontani, lieti per un gran timore
cessato, quella stessa terra, che ne era stata cavata servirebbe in gran parte
a ricolmarle: ma i cadaveri deposti, poi ammucchiati, poi gettati a fascio,
venivano rapidamente adeguandosi al terreno: convenne scavarne cinque altre.
La cagione d'un così subito e portentoso aumento del male fu data a voce
di popolo agli untori: si disse con asseveranza, e si ripetè con furore,
che quegli uomini congiurati allo sterminio della città, prendendo il destro
della processione, che l'aveva posta tutta unita per così dire in loro balìa,
avevano unti in quel giorno quanti avevano potuto, e sparso tutto il cammino di
polveri venefiche, per le quali il contagio s'era appiccato alle vesti, ai
piedi scalzi, anche alle scarpe dei divoti e inavvertiti pellegrinanti.
L'opinione delle unzioni che fino allora non aveva prodotta che una vaga
inquietudine, e ciarle, dopo questo, ch'ella prendeva per un gran fatto,
cominciò a partorire ben altri effetti. Due principali furono distinti, e
notati dal Ripamonti, uomo, che in molti punti liberandosi, e segregandosi
dalla opinione publica dei suoi tempi, volse la mira delle sue osservazioni
alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno avvertiva, esaminò quella
opinione stessa, mutò sovente i termini della questione, fu solo a discernere e
a dire molte verità, e fece intendere che molte ancora ne dissimulava, molte ne
indeboliva per non irritare il giudizio pubblico, il quale, come traspare
chiaramente dalla sua storia, gli faceva una gran paura e una gran compassione
nel tempo stesso. Un effetto fu che i magistrati, tutti i potenti, ingolfati in
ispeculazioni politiche, divagati e avviluppati colla mente nei segreti delle
corti, per arzigogolare quale dei principi, quale dei re stranieri potesse
essere il capo della trama, non pensavano a quello che era da provvedersi nelle
urgenti congiunture della peste; e spaventati poi dalla vastità supposta, e
dalla oscurità stessa delle insidie si abbandonavano sempre più a quella stanca
trascuratezza che è compagna della disperazione. L'altro effetto più
deplorabile, atroce, fu di estendere, di facilitare, di irritare i sospetti e
di giustificare di santificare, tutte le offese più crudeli che quei sospetti
potevano suggerire. Non solo dallo straniero, dal nimico, dalla via publica si
temeva, ma si guardava alle mani dell'amico, del servo, del congiunto, ma si
poneva il piede con sospetto per la casa, ma orribil cosa! si tremava al
contatto della mensa, del letto nuziale. Il viandante straniero che non ben
sapendo fra che uomini si trovava, si rallentasse a baloccare sul cammino, o
che stanco si sdrajasse per riposare, il mendico che per città si accostava
altrui tendendo la mano, colui che inavvertentemente toccasse la parete d'una
casa, l'affrettato che urtasse altri per via, erano untori; al terribile
grido d'accusa accorrevano quanti avevan potuto udirlo; l'infelice era
oppresso, straziato, talvolta morto dalle percosse, o strascinato alle carceri
tra gli urli e sotto le battiture, benediceva nel suo cuore affranto quelle
porte, e vi entrava come dalla tempesta nel porto. E quante volte saranno
accorsi alle grida, avranno partecipato al furore comune, di quegli stessi che
più tardi poi dovevano esser vittime d'un simile furore.
Così l'irreligione esacerbava la sciagura che una applicazione falsa ed
arbitraria della religione aveva estesa ed accresciuta. Dico l'irreligione,
perché se l'ignoranza e la falsa scienza delle cose fisiche, e tutte le altre
cagioni di cui abbiamo parlato di sopra poterono far ricevere comunemente
l'opinione astratta di unzioni e di congiure, furono certamente le disposizioni
anti-cristiane di quel popolo corrotto che rendettero quella opinione attiva, e
feroce nell'applicazione. Nessuna ignoranza avrebbe bastato a così orrendi
effetti, quando fosse stata congiunta con quel sentimento pio che dispone gli
animi alla tranquillità ed alla riflessione, che avverte a pensar di nuovo
quando il pensiero diventa un giudizio, una azione su le persone; se fosse
stata insomma congiunta con quella carità che è paziente, benigna, che non
s'irrita, che non pensa il male, che tutto soffre. Ma l'intolleranza della
sventura, la disistima e l'obblio delle speranze superiori a tutte le sventure
del tempo, l'orrore pusillanime e furioso della morte, erano le cagioni che
mantenevano negli animi una irritazione avida di sfogo e di vendetta, e quindi
sempre in cerca di fatti che ne dessero l'occasione, quindi ancora pronta a
trovar questi fatti ad ogni momento.
Il Ripamonti riferisce due esempj di quel furor popolare, avvertendo bene
i suoi lettori di averli trascelti, non già perché fossero dei più atroci fra
quegli che accadevano alla giornata, ma perché di quei due egli fu testimonio.
Tre giovani francesi, un letterato, un pittore, e un meccanico in mal
punto venuti per istudio, e per guadagno, stavano contemplando il duomo al di
fuori. «È tutto marmo», dicevano; e come per accertarsi, stesero la mano a
toccare la liscia superficie. Bastò! la folla agglomerata in un istante
gl'involse; furono stretti, tenuti, percossi con tanto più di furore, perché le
vesti, la chioma, il volto, le grida stesse gli accusavano stranieri, e quel
che era peggio, francesi. A calci, a pugni, a strascichi, furono menati in
carcere. Per buona sorte le carceri eran vicine, e vi giunsero vivi; e per una
sorte ancor più felice, i giudici gli trovarono innocenti, e gli rilasciarono.
L'altro caso fu più funesto. Un giorno solenne, nella chiesa di Sant'Antonio,
frequente di popolo quanto poteva comportare quel tempo, un vecchio più che
ottogenario aveva orato lungamente ginocchioni. E forse, pensando agli anni
suoi, e al contagio che minacciava ogni persona, egli avrà offerto a Dio il
sacrificio d'una vita ormai tanto caduca. Ma un destino più maturo della
vecchiezza, più sollecito della peste, il furore degli uomini gli stava sopra.
Stanco egli volle sedersi; e prima con la cappa spolverò alquanto la panca. «Il
vecchio unge le panche!» gridarono alcune donne che videro quell'atto. Il
vecchio! e a quel nome che richiama pensieri di compassione e di riverenza, il
sospetto in quel momento non lasciò associare altre idee che di una più fredda
malizia, d'una perversità incallita. Il grido passò di bocca in bocca; tutti si
levarono; una turba fu addosso al vecchio. Lo presero, gli stracciarono i
capegli bianchi, gli acciaccarono di pugni il volto e le membra: avrebbero
ficcati i pugnali in quel corpo quasi esanime; se un furore più pensato non gli
avesse consigliati di serbarlo alle carceri, ai giudici, alle torture. «Io lo
vidi, così strascinato», dice il Ripamonti, «né altro seppi della fine; ma
stimo ch'egli sia tosto morto dagli strazj. E alcuni» aggiunge questo
scrittore, «che mossi a pietà di così indegno caso, chiesero contezza
dell'essere di quello sventurato, riseppero che egli era un uomo dabbene».
I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell'iniquo
furore, lo imitarono e lo sorpassarono con giudizj motivati e ponderati al pari
di quei popolari che abbiam riferiti, con carnificine più lente, più studiate,
più infernali. Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe ommettere una
parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli
ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero.
Gli abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa
storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero.