S'io avessi ad inventare una storia, e per descrivere l'aspetto d'una
città in una occasione importante, mi fosse venuto a taglio una volta il
partito di farvi arrivare, e girar per entro un personaggio, mi guarderei bene
dal ripetere inettamente lo stesso partito per descrivere la stessa città in
un'altra occasione: che sarebbe un meritarsi l'accusa di sterilità
d'invenzione, una delle più terribili che abbian luogo nella repubblica delle
lettere, la quale, come ognun sa, si distingue fra tutte per la saviezza delle
sue leggi. Ma, come il lettore è avvertito, io trascrivo una storia quale è
accaduta: e gli avvenimenti reali non si astringono alle norme artificiali
prescritte all'invenzione, procedono con tutt'altre loro regole, senza darsi
pensiero di soddisfare alle persone di buon gusto. Se fosse possibile
assoggettarli all'andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne diverrebbe forse
ancor più ameno che non sia; ma non è cosa da potersi sperare. Per questo
incolto e materiale procedere dei fatti, è avvenuto che Fermo Spolino sia
giunto due volte in Milano appunto in due epoche, diversamente singolari, e che
l'una e l'altra volta abbia ricevuta dall'aspetto di quella città una
impressione, che noi dobbiamo pur riferire, trattandosi d'uno dei nostri
protagonisti. Nè in questo solo ma anche fra i due soggiorni di Fermo in
Milano, anche fra le due partenze v'è un principio singolare di somiglianza:
cui ella spiacesse, se la pigli con le cose, che hanno voluto essere a quel
modo.
Per una via deserta, fiancheggiata da campi imboschiti, giunto a piè
delle mura, Fermo sostette pensoso, e preso da quella specie di spavento che si
prova al trovare una vasta, ostinata solitudine in mezzo alle tracce
dell'abitato: tese l'orecchio, girò gli occhi intorno: nessun indizio d'uomini,
nessun segno di vita, nessun movimento; se non che d'in su la mura, ad
intervalli, sorgevano colonne di fumo, che s'allargavano in globi scuri, bigi,
folti, e quindi abbattute dal vento si curvavano, scendevano giù al di fuori,
diradandosi e diffondendosi nell'aria, e si stendevano sul piano esteriore in
nebbia lenta, crassa, fetente. Erano i mucchj di vesti infette, di cenci, di
letti, di spazzature d'ogni sorta che si facevano portare al bastione, e quivi
abbruciare. Tale era il fastidio che quella nebbia diffondeva nell'aria, che
Fermo, benché avvezzo a sensazioni di quel genere si turò le nari, con
ribrezzo; ma ben tosto ritirò la mano, pensando che all'entrare e all'avanzarsi
nella città, non solo il lezzo, ma ogni sorta di fastidio l'avrebbe assalito da
tutte le parti, e che bisognava risolversi ad affrontarlo, non pensare a
ripararsene. Fuori della porta era una capannuccia di legno, stazione delle
guardie e d'un deputato che doveva guardare a chi entrava ed usciva, richiedere
le bollette, escludere i sospetti. Ma in quella comune disperazione ogni
disciplina era dismessa; il deputato a quella porta era caduto di peste il
giorno antecedente, le poche guardie stavano nella capanna, badando più a tener
lontani i passeggieri dalle loro persone che ad esaminarli. Dinanzi alla porta
era un cancello, ma spalancato, e Fermo vi passò senza che alcuno lo chiedesse
di nulla. Procedendo per quel primo spazio della città tra i bastioni, e il
canale chiamato naviglio, spazio occupato da orti (o se volete da ortali, che
sarà più vicino al proprio vocabolo municipale, ortaglie) con entrovi sparso
qualche convento, e qualche casipola, nulla vide Fermo per qualche tempo che desse
indizio esser quello un luogo abitato da uomini. Il primo indizio di persona
viva gli venne, mentre egli passava tutto costernato per quella stradaccia che
dal Ponte di Santa Teresa, correndo tra il naviglio, e alcune casuccie, va alla
piazza di San Marco. Un gemito che si sforzava d'essere una chiamata uscì d'una
di quelle case; Fermo alzò gli occhj, e vide un tapino alla finestra che
scuoteva una funicella alla quale era appeso un sacchetto che scendeva presso
al pavimento della strada. Fermo si fece vicino, e udì una voce fioca: «carità
ai poveri sospetti». Cavò egli una moneta, e la ripose nel sacchetto; ma colui
invece di tirar la fune a sè, disse con un tuono misto di supplica e
d'impazienza: «un po' di pane: ci hanno chiusi in casa come sospetti, e ci
hanno dimenticati; e moriamo di fame». Fermo aveva ancora uno dei pani di
Agnese: lo cavò tosto, e lo legò alla fune. Il rinchiuso, benedicendolo, la
trasse in fretta, e Fermo lo vide afferrare quel pane, con ambe le mani,
porselo a bocca, e addentarlo avidamente. Dopo due passi udì un romore confuso
che si avvicinava, e cominciò a distinguere un cigolar di ruote, un calpestio
di cavalli, uno squillare di cento campanelli, un baccano di grida; guatò
dinanzi a sè, ed ecco in capo alla strada dov'egli camminava spuntare due
uomini a piede (eran chiamati apparitori) che con le mani alzate accennavano, e
ad alta voce gridavano ai passeggeri di ritirarsi. Dietro a questi vide
comparire cavalli che allungando la cervice, e puntando le zampe, avanzavano a
stento; e ad ogni passo le campanelle che essi avevano appese intorno alle
teste e ai colli, mandavano un tintinnio acuto e assordante: e a fianco dei
cavalli, vide monatti in lacere divise rosse, essi pure con le campanelle ai
piedi, che a forza di punte e di flagelli e di bestemmie li forzavano a
camminare, a proseguire la corsa ritardata dal peso crescente dei cadaveri che
raccolti sul passaggio erano gettati sui carri. I cadaveri v'erano ammonticati,
e intrecciati insieme, quasi come un gruppo di serpi che lentamente si svolga
al tepore della primavera: nudi la più parte, o male avviluppati in lenzuola
cenciose. Dopo un carro che attraversò la via, ne venne un altro, e poi un
altro: dieci ne contò Fermo. Di tratto in tratto, si vedevano i cadaveri, ad
una forte scossa, tremolare sconciamente, e scompaginarsi; le gambe, le
braccia, le teste con le chiome arrovesciate si svincolavano dal mucchio, e
spenzolavano dal letto del carro, talvolta involte nelle ruote traevano seco i
cadaveri sotto di quelle, come per mostrare che quello spettacolo poteva
divenire ancor più disonesto e più miserando. Fermo ristette alquanto, fin che
il convoglio fosse passato; e ripresa da poi la via, e giunto in capo a quella
su la piazza di San Marco, presso il ponte che ne piglia il nome, vide di nuovo
per di dietro quel sozzo corteggio, che per la via del pontaccio, si avviava
alla fossa scavata fuori della porta comasina.
Ma un altro spettacolo, su quella piazza, attirò i suoi sguardi, e gli
diede a pensare: erano due travi alzate e infisse nel suolo, e una corda
passava dall'uno all'altro capo fra due carrucole. Fermo riconobbe (ella era
cosa famigliare a quel tempo) l'abbominevole stromento della tortura; ma non
sapeva perché fosse collocato in quel luogo. La sua maraviglia crebbe da poi
quando ne incontrò uno per ogni piazza, in ogni via spaziosa. V'erano posti,
affinché i deputati delle porte e delle parrocchie, muniti a questo d'ogni
facoltà più arbitraria, potessero, immediatamente farvi tormentare chi loro
paresse, o sequestrati che uscissero, o ministri disubbidienti, o violenti di
qualunque sorta. Era uno di quei rimedii immoderati e inefficaci di cui
principalmente in quel tempo si faceva scialacquo: era un dispotismo che non
toglieva l'anarchia. Dopo avere inutilmente guardato su quella piazza, se
potesse scorgere alcuno a cui chiedere conto della via dove abitavano i padroni
di Lucia, il nostro pellegrino si volse a mano manca, e costeggiando il
convento di San Marco, giunse al Ponte al quale Ludovico il Moro diede il nome
di Beatrice sua moglie; e per quello entrò nella città propriamente detta.
Quale città! Non istropiccìo di passeggeri, non romore di carrozze, non grida
di venditori, né stridore di officine, ma in quella vece gemiti, lamenti, urli
che uscivano dalle case, strepito di carri funebri, bestemmie, minacce, o quel
che dava un suono ancor più atroce, il baccano festoso, e la ilarità infernale
dei monatti. Lo spazzo sparso e talvolta ingombro di mobili, di coltrici, di
vesti, di strame appestato, di cenci, di fasce saniose e sanguinate; e a quando
a quando di cadaveri abbandonati! Radi per le vie si vedevano camminare i
cittadini che qualche necessità faceva uscire di casa: una parte era fuggita;
un'altra parte, al numero circa di quattordici mila, abitava, o moriva nel
lazzeretto; un'altra languiva nelle case; e forse cento venti mila erano i
morti a quell'ora; prima della peste la popolazione della città era stimata
dugento mila persone; numero al quale non risalì mai più dopo quel disastro.
Andavano quei pochi, scompagnati, in silenzio, con la faccia lurida, coi
capegli lunghi ed incolti, con le barbe arruffate, perché da quando nella casa
dell'infelice barbiere Giangiacomo Mora s'era creduto scoprire la fucina
principale delle unzioni, ognuno fuggiva i barbieri divenuti tutti sospetti.
Andavano quei viandanti succinti in farsetto, deposte le cappe, le toghe, le
cocolle, ogni ampio vestimento che svolazzando, potesse moltiplicare coi casi
di contatto, i rischj della contagione. Ognuno cercava di tenere il mezzo della
via; si aveva orrore delle pareti che potevano esser unte; si temeva che dalle
finestre si gettassero sui passeggeri polveri venefiche; e troppo spesso
realmente si gettavano i letti, le vesti, le suppellettili dei morti di
contagio; talvolta, orribil cosa! i morti stessi; talvolta gli infermi
trasportati dalla frenesia del morbo, o spinti dalla disperazione, si gettavano
da sè. Nessuno che parlasse, nessuno che stesse a musare: non v'era creatura
ferma fuor che i cadaveri. Il solo vivente che il nostro pellegrino vedesse
immoto nella via presso al muro, fu un uomo che sedeva a canto ad una porta in
atto di chi assorto in qualche cura non badi a ciò che accade intorno a lui.
Era un prete che posato sur un trespolo, udiva, dalla porta socchiusa la
confessione d'un appestato. I viandanti portavano per lo più in mano certe
palle crivellate di piccioli fori con entro spugne intinte di aceti medicati,
di spiriti, e ad ogni momento le fiutavano; e si aveva gran fiducia in quei
preservativi: tenevano nell'altra mano un bastone, non tanto per appoggiarsi,
come per rimuovere chi avesse troppo voluto accostarsi; alcuni perfino tenevano
invece del bastone, una pistola, accennando ai sopravvegnenti che dessero
luogo; con quello stromento atto ad ottenere una più certa e più pronta
obbedienza. Se due amici s'incontravano a caso, il saluto era uno stringersi
nelle spalle, un alzar delle mani, un sospiro, una occhiata quasi di
maraviglia, che voleva dire: — voi siete ancor vivo! — ogni altra più intima
accoglienza era dismessa, e in due mesi non accadde forse mai che due mani si
stringessero ad espressione di amicizia. I medici, i chirurghi si distinguevano
per un capuccio che portavano come da disciplinati, per calarlo sul volto
quando s'appressassero ad un infermo, avevano guanti alle mani per preservarle
nel toccare dei polsi, nel medicare; e sospeso a cintola un fiaschetto d'aceto
per lavarsi ad ogni visita, e per lavare i danari che erano loro dati in
mercede, e che molti con crudele avarizia imponevano esorbitante, non volendo
toccare un polso a meno d'uno zecchino. Su quelle poche facce che si vedevano
in volta era per lo più scolpito, compenetrato, e come divenuto fisonomia,
l'accoramento, lo stupore, la sfidanza; le forme irrigidite, e come stagnanti
in una trista quiete; e gli sguardi non avevano vita che dal terrore e dal
sospetto. Pochissimi però fra quei pochi andavano con passo più alacre, e
mostravano una fronte men costernata: erano i guariti dalla peste; altri che
portavano al collo o amuleti dai quali speravano d'esser preservati, o una
boccetta di vetro con entro argento vivo, persuasi che questo metallo avesse la
virtù di assorbire ogni influsso maligno; altri che prima d'uscire avevan
mangiata una noce, due fichi secchi, e un po' di ruta, che da essi era riputato
efficacissimo preservativo. E pur troppo tutti questi rimedii producevano un
effetto; ma era di crescere la mortalità, rendendo men guardinghi in tutto il
resto coloro che avevan fede nell'uno o nell'altro di essi. Fermo, benché
ansioso di giungere al luogo dov'era, dov'egli sperava ancor tremando che fosse
colei per cui sola aveva intrapreso quel viaggio, desideroso anche di
abbreviare il più che fosse possibile un così tristo cammino, non aveva mai
però scorto un volto che gli facesse animo ad interrogare. Finalmente essendo
capitato in uno di costoro, si risolse di rivolgersi a lui, e fece atto di
accostarglisi. Ma costui, che a malgrado del preservativo, era però dei cauti,
levò il suo bastone che terminava in uno spiedo, e appuntandolo in dirittura alla
pancia di Fermo, disse con voce risoluta: «lontano!» Fermo non si mosse; ma a
quella distanza pregò il cittadino che volesse udire una parola, soltanto una
parola; e gli chiese dove fosse la tal via, la tal casa. Non era molto lungi di
là; e il cittadino diede brevemente a Fermo l'indirizzo ch'egli desiderava; ma
quando questi, dopo averlo ringraziato, si mosse per andare innanzi, l'uomo
cauto ripetè: «lontano»; girò il bastone descrivendo intorno a sè un quarto di
cerchio a mezz'aria, e segnando così a Fermo la giravolta che doveva fare per
non passargli troppo vicino. Fermo proseguì il suo cammino con un'ansia e con
una sospensione d'animo cresciuta dal saper vicino il termine dov'egli sarebbe
uscito d'un terribil forse. Ma per quanto la sua mente tendesse a ricadere in
quel pensiero, ne era pure ad ogni momento stirata via dagli oggetti fra i
quali egli doveva scorrere. Dove che i suoi sguardi cadessero non incontravano
che dolore e ribrezzo. Le porte o chiuse per guardia, o spalancate per
desolazione; molte segnate d'una croce rozzamente tirata col carbone: quei
segni eran posti dai commissarii della Sanità, per indicare ai monatti che vi
eran morti da prendere. Dove lo sgombro era già fatto, le croci si vedevano
cancellate; e mettevano ancor più ribrezzo le tracce del segno di salute e di
morte, guaste e confuse con le tracce delle palme impure dei monatti, o dei
sozzi arredi che egli avevano adoperato a quell'uso. Qualcheduno pur si
mostrava alle finestre, qualche voce si udiva; erano guai di languenti, o urla
di frenetici; erano chiamate e suppliche ai monatti, perché venissero a
togliere qualche cadavere. Nei principii della peste, il terrore di vedersi in
casa quegli uomini senza legge, aveva fatto che molti nascondessero i cadaveri,
gli seppellissero negli orti, nelle cantine, dove, come che fosse; ma poi
crescendo il funesto da farsi, e il fastidio vincendo il terrore, si
desideravano i monatti per liberarsi da uno spettacolo intollerabile, da una
infezione talvolta invecchiata. E quegli scellerati che da prima usavano
introdursi a forza dove non erano richiesti, ora negavano talvolta di entrare
pregati, se alle preghiere non si aggiungeva la ricompensa. Posto il piede
nelle case, vi si portavano non da padroni, da guastatori: ma era venuto il tempo
che delle ribalderie e delle nefandità loro, già temute più della peste, non si
faceva più caso: la disperazione aveva ottuso nei più ogni altro sentimento.
Pure, dinanzi a qualche casa, dove la sciagura non aveva estinto affatto ogni
coraggio, né confusi tutti i pensieri, stavano distesi cadaveri, deposti ivi ad
aspettare il passaggio del carro funebre; e alcuni pur piamente composti,
ravvolti in qualche lenzuolo e celati al ribrezzo dei passeggieri. E tali
depositi, che, in tempi ordinarii, farebbero altrui torcere il guardo, erano
allora quasi un conforto pel guardo, troppo offeso dallo spettacolo di altri
corpi, che pure avevano ricettata un'anima immortale, e giacevano gettati
brutalmente dalle finestre, travolti dalle cadute, o caduti dai carri, mostrando
tutte le più diverse e dolorose immagini della morte, salvo l'immagine del
riposo.
Aveva Fermo già scorse due vie, e passata la metà del viaggio, quando
presso alla rivolta d'un canto, udì un frastuono, e vide due o tre che
camminavano dinanzi a lui, dare addietro l'un dopo l'altro, e riprendere la
strada donde erano usciti. Giunto al canto, guardò che fosse la cagione di
questi lor pentimenti, e vide nel mezzo di quella via quattro carri fermati; e
come in un mercato di grani si vede un andare e venire di gente dai mucchj ai
carri, un caricare, un rovesciare di sacca; così era la pressa in quel luogo;
monatti che entravano nelle case, monatti che uscivano recandosi un carico su
le spalle; e lo ponevano su l'uno o su l'altro carro: talvolta ripigliavano il
peso già deposto, sul carro degli infermi, e lo gettavano su quello dei morti;
era uno che preso semivivo su le loro spalle, aveva esalato l'ultimo respiro su
quel letto abbominato. Alle finestre, o presso ai carri si vedeva qualche
congiunto pio e animoso piangere i suoi morti che partivano, o dare un tristo
addio agli infermi. Il resto della via era sgombro, e muto; se non che da
qualche finestra partiva di tratto in tratto una voce sinistra: «qua monatti»:
e con suono ancor più sinistro da quel lurido e affaccendato bulicame si
sentiva venire per l'aria morta un'aspra voce di risposta: «adesso».
Fermo a quello spettacolo, stette in forse se dovesse egli pure tornare
indietro; ma egli era presso al termine della via, d'una via che a stento aveva
potuto farsi indicare; se l'abbandonava, chi sa quando avrebbe trovato chi
volesse rimetterlo su quella, e chi sa quali inciampi dello stesso genere
avrebbe trovati anche in tutt'altra: con questi pensieri e con animo già
agguerrito a tali viste, egli proseguì. Giunto a paro del convoglio, accelerava
il passo, e cercava di non guardar quegli orrori se non quanto era necessario
per cansarli; ma il suo sguardo vagabondo si abbattè in un oggetto dal quale
usciva una pietà che invogliava l'animo a contemplarlo; e quasi senza
avvedersene egli rallentò il passo. Sur una di quelle soglie stavasi ritta una
donna il cui aspetto annunziava una giovinezza matura ma non trascorsa; e vi
traspariva una bellezza velata ed offuscata da un lungo patire, ma non
iscomposta; quella bellezza molle e delicata ad un tempo, e grandiosa, e, per
così dire, solenne, che brilla nel sangue lombardo. I suoi occhi non davano
lagrime, ma portavan segno di averne tante versate; come in un giardino antico
e trasandato, una fonte di bianchissimi marmi che inaridita, tien tuttavia i
vestigi degli antichi zampilli. V'era in quel dolore un non so che di pacato e
di profondo, che raffigurava al di fuori un'anima tutta consapevole, e presente
a sentirlo, e quel solo aspetto sarebbe bastato a rivolgere a sè gli sguardi
anche fra tanta miseria; ma non era il solo aspetto della donna che ispirasse
una sì rara pietà. Tenevasi ella in braccio una fanciulletta di forse nove
anni, morta, ma composta, acconcia, con le chiome divise e rassettate in su la
fronte, ravvolta in una veste bianca, mondissima, come se quelle mani
l'avessero ornata per una festa promessa da tanto tempo, e concessa poi come un
premio. Nè era tenuta a giacere in abbandono, ma sorretta fra le braccia, col
petto appoggiato a petto, come se vivesse; se non che il capo posava su le
spalle della madre con un abbandono più forte del sonno: della madre, perché se
anche la somiglianza di quei volti non ne avesse fatto fede, l'avrebbe detto
chiaramente l'affetto che si dipingeva su quello che era ancora animato. Fermo
ristette senza quasi avvedersene con gli occhi fissi in quello spettacolo. Ed
ecco un turpe monatto avvicinarsi alla donna, e far vista di prendere dalle sue
braccia quel peso; ma pure con una specie d'insolito rispetto, con una esitazione
involontaria. Ma la donna, ritraendosi alquanto, in atto però che non mostrava
né sdegno né dispregio: «no», disse, «non la mi toccate per ora; io, deggio
comporla su quel carro: prendete». E così dicendo, aperse una mano, mostrò una
borsa, e la lasciò cadere nella mano che il monatto le tese. Poscia continuò:
«promettetemi di non torle un filo dattorno, né di lasciar che altri s'attenti
di farlo, e di porla sotterra così. L'avrei ben posta io; ma ella deve
riposarsi nel luogo santo; né io posso portarvela, v'è lassù chi mi aspetta».
Mentre la donna parlava il monatto, divenuto ubbidiente forse più per una nuova
riverenza, che pel guadagno, aveva fatto sul carro un po' di luogo al picciolo
cadavere. La donna diede un ultimo bacio alla figlia, la collocò ivi come sur
un letto, ve la compose; e rivolta al monatto disse: «ricordatevi: Dio vedrà se
mi tenete la promessa; e ripassando di qua sta sera, salite a prender me pure,
e non me sola».
Così detto rientrò in casa, e un momento dopo comparve alla finestra, con
un'altra più tenera fanciulla nelle braccia viva, ma coi segni della morte in
volto. Stette a contemplare la figlia giacente sul carro, fin che il carro si
mosse, finché rimase in vista; e allora ritiratasi depose sul letto quell'altra
cara innocente, e vi si sdrajò poi al suo fianco a morire insieme; come la
pianta s'inchina col fiore appena sbucciato, al radere della falce che, dove
passa, agguaglia tutte l'erbe del prato.
Fermo si mosse pur egli, più altamente compunto che non fosse mai stato
in tutto quel viaggio, e per la prima volta, molle di lagrime. «O Signore!»
diss'egli, «esauditela! pigliatela con voi, sarà una ventura per quella
travagliata l'uscire di tanti guai... Una ventura! E Lucia!» Con questa parola
in sul cuore egli s'affrettò su quella via, alla quale, se il cittadino lo
aveva bene indirizzato, metteva capo quell'altra a cui egli agognava e tremava
di arrivare. Ed ecco, da quella parte appunto venire un frastuono sordo, poi
più risuonante, ma confuso, un suono diverso di voci alte, brevi, e imperiose,
di fiochi lamenti, di guai lunghi, di singhiozzi femminili, di garriti
fanciulleschi.
A quel suono, al pensiero del luogo donde partiva, Fermo si sentì colpito
d'una tristezza più nera che mai, d'una tristezza sospettosa, atterrita, tanto
che non potè tenersi, e quasi smarrito andò a corsa verso il crocicchio che
faceva la via nella quale egli si trovava con quella a cui era avviato. Quando
fu presso, vide nella via a mano diritta, per quella appunto ov'egli doveva
entrare, una torma di gente guidata o cacciata al lazzeretto da un commissario,
e da molti monatti.
A misura che quella trista processione passava dinnanzi a Fermo, il suo
occhio inquieto, quasi appannato, correva e ricorreva per la moltitudine,
trasceglieva e spiava con terrore ogni volto femminile, si spingeva verso
quelli che arrivavano, tornava a quegli che erano passati... Lucia non v'era.
Fermo su le prime respirò come uscito d'un grande spavento; ma tosto ricadde
nella sua ambascia, pensando che egli andava non a veder forse, ma ad udire di
peggio. Erano languidi che si strascinavano a stento, alcuni sostenuti dalle
braccia di figli, di padri, di fratelli, di mogli, che per pietà o per
disperazione sprezzavano il pericolo del contatto; alcuni spinti a forza,
resistenti in vano, gridanti in vano che volevano morire sul loro letto, e
rispondendo bestemmie impotenti alle bestemmie imperiose dei conduttori; altri
che, appoggiati ad un bastone, andavano in silenzio dove erano comandati, senza
dolore, senza speranza, insensati; donne coi pargoli in collo; fanciulli
spaventati dalle grida, da quei comandi, da quello spettacolo più che dal
pensiero oscuro della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre, e le
sue braccia fidate, e di restare nel noto soggiorno. Ahi! e forse la madre, che
essi credevano d'aver lasciata addormentata sul suo letto, vi s'era gittata
oppressa tutt'ad un tratto dal morbo, priva di senso, per esser portata sur un
carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro giungeva più tardi. Talvolta, oh
sciagura degna di lagrime ancor più amare! la madre tutta occupata dei suoi
patimenti, si stava dimentica d'ogni cosa, anche dei figli, e non aveva più che
un amore: di morire in riposo. Pure in tanta confusione si vedeva ancora
qualche esempio di costanza; e di pietà: parenti, fratelli, figli, consorti che
sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto; né adulti
soltanto, ma garzoncelli, ma giovinette appena adolescenti che facevano scorta
a fratellini più teneri; e con senno e con misericordia virile li confortavano
ad essere obbedienti, promettevano di accompagnarli in luogo ove si terrebbe
conto di loro per farli guarire.
Quando Fermo vide la processione quasi tutta passata, e sgombra la sua
via, si volse ad uno dei monatti che chiudeva il corteggio, e gli chiese conto
della casa di Don Ferrante. Il monatto non rispose se non: «va in malora,
tanghero». Fermo aveva tutt'altro in testa che di risentirsi, e non replicò:
guardò al commissario, gli parve un volto più cristiano; fece a lui la stessa
inchiesta; e il commissario, accennando con un bastone la via dalla quale egli
veniva disse: «l'ultima casa nobile, a destra»; e passò.
Quelle parole per sè indifferenti, e che non esprimevano se non la nuda
notizia che Fermo aveva desiderata, lo colpirono però, come se fossero una
sentenza ambigua e temuta. Egli impallidì dopo d'averle intese, e tremò d'esser
giunto al termine che aveva tanto bramato, pel quale aveva intrapreso quel
viaggio doloroso, e sostenuto di passare per tanta gramezza. S'avanzò per
quella via a passo interrotto, giunse dinanzi alla casa, la distinse tosto fra
le case vicine più umili, e più disadatte, si appressò alla porta che era
chiusa, pose la mano al martello, ve la tenne sospesa, come avrebbe fatto se la
tenesse in un'urna, prima di cavarne la polizza dove fosse scritta la sua vita,
o la sua morte. Finalmente alzò il martello, e bussò.
Si apre una finestra, e vi compare una donna: era la signora Ghita, che
guardò con sospetto se fossero monatti, malandrini, qualche cosa di tristo, di
quello che girava in quel tempo: vide quello sconosciuto, e prima ancora
d'intendere che egli volesse, disse, o rispose: «Qui non c'è niente».
«Signora», disse Fermo con voce tremante, «sta qui una forese, che si
chiama Lucia Mondella?»
«Non c'è più; andate», rispose la Signora Ghita.
«Non c'è più!» gridò Fermo, spaventato da quella ambigua risposta. «Dov'è
ella? per amor del cielo».
«Al lazzeretto grande».
«Con la peste!»
«Con la peste: che maraviglia? andate».
«Da quando v'è ella? e come si può trovarla? Oh Dio! era ella molto
aggravata?»
«Non è tempo da rispondere a tante cose», disse col suo tuono agro la
signora Ghita. «V'ho detto anche troppo pel tempo che corre. Vi replico,
andate». E così dicendo, fece vista di chiudere la finestra.
«No, no», disse Fermo: «che carità è questa? voglio saper nuove di questa
creatura; non parto di qui se prima...» Ma mentre egli parlava, la finestra era
stata chiusa.
«Quella signora! una parola, una parola!» gridò Fermo, ma non ebbe
risposta.
Costernato da un tale annunzio di sventura, smanioso del non aver potuto
né pur conoscere quanta ella fosse, incerto qual fosse il più pronto mezzo per
trovar conto di Lucia, se insister quivi con preghiere o con minacce, o andare
a dirittura al lazzeretto, Fermo stava appoggiato alla porta, tenendo la mano
sul martello, talvolta lo alzava, per picchiare alla disperata, poi pentito, lo
riteneva, lo stringeva nella mano come se volesse storcerlo, come per isfogare
la sua passione. In questa agitazione, egli per quell'istinto che in qualunque
angustia muove l'uomo a cercar soccorso all'uomo, si rivolse alla strada, per
vedere se mai gli cadesse sott'occhio qualche vicino, a cui chiedere
informazione, indirizzo, consiglio. Ma quel che vide fu una vecchia, dietro a
lui forse a venti passi, la quale con un volto che esprimeva terrore, odio,
impazienza e malizia, sbarrando la bocca come se volesse gridare, ma tenendo
anche il respiro, sollevando due braccia scarne, allungando e ritirando due
mani grinze e adunche, come s'ella traesse a sè qualche cosa, accennava
manifestamente di voler chiamar gente in modo che un qualcheduno non ne fosse
avvertito. Alla guardatura della vecchia, Fermo s'accorse tosto ch'egli era
quel tale; e più stupito che atterrito dal vedersi oggetto di tante passioni,
voleva gridare: «che diamine...», quando la vecchia, vedendo ch'egli s'era
accorto di lei, e disperando di poterlo sorprendere, lasciò uscire il grido che
aveva compresso fin allora: «Ajuto! Ajuto! L'untore! L'untore! dalli! dalli!»
«Taci, bugiarda strega», sclamò Fermo alla vecchia, e le si mosse
incontro per farle paura e metterla in fuga. Ma nello scostarsi dalla porta
vide che la fuga diveniva necessaria per lui: lo strillo della vecchia era
stato inteso, e dalla parte verso la quale ella lo aveva mandato, usciva gente,
e guardava dove fosse l'untore, gente, che forse a qual fosse più pietoso
chiamar di soccorso non sarebbe uscita dalle tane dove si stava rimpiattata per
paura; ma per graffiare e per prendere un untore era pronta; tanto era il furore
contra quegli che si credevano la cagione primaria di tanti mali. Nello stesso
istante s'aperse di nuovo la finestra, e di quivi la signora Ghita gridava a
testa: «cacciate quel garritore, che dev'essere un di quei ghiotti, che vanno
facendo le poltronerie alle porte e alle muraglie».
Alcuni cominciavano già a correre verso Fermo, urlando: «piglia, piglia,
dalli, dalli». Fermo vide la mala parata; per buona sorte il lato della strada
dove stava la vecchia, era quasi sgombro d'altra gente: uno che era accorso per
di là volle gittarglisi addosso, ma egli lo stramazzò a terra d'un urto; e a
gambe. Allora la folla vie più ad inseguirlo. E non era ancora giunto al capo
della via che già sentiva quelle grida amare risuonar più forti all'orecchio,
sentiva appressarsi il calpestio dei più leggieri ad inseguirlo. In
quell'estremo, egli che sapeva, come ognuno lo sapeva, qual fosse la sorte di
chi cadeva nelle mani del popolo o dei giudici col nome di untore, risolse di
non lasciarsi pigliare alle spalle da quei furibondi, ma di rivolgersi, di
mostrar loro il viso, e di difendere disperatamente la sua vita.