Ritto sul mezzo dell'uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e
la barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto
di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica; stava con la
bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi occhi
nei quali si dipingeva ad un punto l'attenzione e la disensatezza; dal volto
traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine
di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non
si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire. Ma in quello sfiguramento
Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri
due. Quell'infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato
gittato, e dove era rimasto tutti quei giorni languente e fuor di sè, aveva
veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il Padre Cristoforo; senza esser veduto
da loro. Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente sconvolta l'antico
furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto tempo, e insieme un
certo spavento, e con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare
distintamente con la vista quelle immagini odiose che le erano come sfumate
dinanzi. In una tal confusione di passioni, o piuttosto in un tale delirio
s'era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto dietro da lontano a
quei due. Ma quando essi uscendo dalla via s'internarono nelle capanne, il
frenetico non aveva ben saputa ritenere la traccia loro, né discernere il punto
preciso per cui essi erano entrati in quel labirinto. Entratovi anch'egli da un
altro punto poco distante, non vedendo più quegli che cercava, ma dominato
tuttavia dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna,
tanto che s'era trovato a quella in cui mettendo il capo su la porta aveva
rivedute in iscorcio quelle figure. Quivi ristando stupidamente intento, udì
quella voce ben conosciuta che nel suo castello aveva intuonata al suo orecchio
una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva
però lasciata nel suo animo una impressione che s'era risvegliata nel tristo
sogno precursore della malattia. Quella voce lo teneva immobile a quel modo che
altre volte si credeva che le biscie stessero all'incanto; quando Lucia
s'accorse di lui. Dopo la sorpresa il primo sentimento di quella poveretta fu
una grande paura; il primo sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo: bisogna
dirlo a loro onore, fu una grande compassione. Entrambi si mossero verso
quell'infermo stravolto per soccorrerlo, e per vedere di tranquillarlo; ma egli
a quelle mosse, preso da un inesprimibile sgomento, si mise in volta, e a gambe
verso la strada di mezzo; e su per quella verso la chiesa. Il frate e il
giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo:
dopo una breve corsa, egli s'abbattè presso ad un cavallo dei monatti che
sciolto, con la cavezza pendente, e col capo a terra rodeva la sua profenda: il
furibondo afferrò la cavezza, balzò su le schiene del cavallo, e percotendogli
il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagna, e
spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta carriera. Un
romore si levò all'intorno, un grido di «piglia, piglia»; altri fuggiva, altri
accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal demente, e spaventato
da quei che tentavano di avvicinarglisi, s'inalberava, e scappava vie più verso
il tempio.
I due dei quali egli era stato altre volte nemico tornarono tutti
compresi alla capanna, dove Lucia stava ancora tutta tremante.
«Giudizii di Dio!» disse il padre Cristoforo: «preghiamo per
quell'infelice». Dopo un momento di silenzio, il pensiero che venne a tutti fu
di concertare insieme quello che era da farsi: e i concerti furon questi: che
Fermo partirebbe tosto, giacché ivi non v'era ospitalità da offerirgli,
cercherebbe un ricovero per la notte in qualche albergo, e all'indomani si
rimetterebbe in via pel suo paese, porterebbe ad Agnese le nuove della sua
Lucia, andrebbe poi a Bergamo a disporre la casa dove intendeva di stabilirsi
con la moglie e con la suocera; e tornerebbe poi ad aspettare Lucia nel suo
paese, dove dovevano celebrarsi le nozze: ne avvertirebbe intanto Don Abbondio,
il quale era da sperarsi che invece di frapporre nuove difficoltà, sarebbe
vergognoso di quelle che aveva frapposte altra volta. Quanto a Lucia, ella
protestò prima d'ogni cosa che non si staccherebbe dalla sua buona compagna,
finché questa non fosse affatto guarita, e ristabilita nella sua casa. Il Padre
la lodò, Fermo non v'ebbe nulla a ridire, e la vedova tutta commossa, promise
che accompagnerebbe essa Lucia a casa, e la consegnerebbe a sua madre.
«E voglio farle il corredo», aggiunse all'orecchio del Padre a cui aveva
fatto cenno di avvicinarsi.
«Dio vi benedica», le rispose il buon vecchio.
«E tu», disse poi a Fermo, «che stai qui tardando? il tempo, come vedi,
si fa più nero, e la notte si avvicina: affrettati di cercare un ricovero».
Convien dire ancora ad onore di Fermo, che in quel momento non gli doleva
tanto lo staccarsi da Lucia appena trovata, è vero, ma ch'egli contava di
riveder presto, quanto dal Padre Cristoforo, che restava lì a morire.
«Ci rivedremo, padre?» disse il buon giovane.
«Se Dio vorrà, e quando Egli vorrà» rispose il frate, vincendo una
commozione che andava crescendo. «Va, va che non c'è tempo da perdere».
Fermo, disse con voce accorata; riverisco, al Padre che lo benedisse, e
gli strinse la mano: disse addio a Lucia e alla vedova, sopprimendo un: — a
rivederci presto —, che gli veniva su le labbra; poi spiccatosi in fretta,
partì.
«Vi raccomando l'una all'altra, buone creature», disse, il frate; e fece
atto pure di andarsene: ma nel dare a Lucia uno sguardo di commiato, vide
nell'aspetto di lei mista alla commozione una grande inquetudine; s'avvisò
tosto di ciò che poteva esserne la cagione, e disse: «Di che state inquieta?»
«Quell'uomo...!» disse Lucia.
«Poveretto!» rispose il frate, «non è più in caso di far paura a nessuno:
non lo vedrete più, siatene certa. Pure», soggiunse, dopo d'aver pensato un
momento, «per ogni altro evento, sarà meglio ch'io vi raccomandi a qualcheduno
dei nostri».
Così detto, uscì, girò un poco in ronda, finché trovò un capuccino, e
condottolo alla capanna, gli mostrò le due donne, e gli disse: «sono due
derelitte; vi prego di averne una cura particolare. Vi lascio con Dio», disse
poi alle donne, e uscì dalla capanna. Lucia lagrimando lo seguiva, ed egli le
imponeva che tornasse, e così si trovarono entrambi sulla grande strada, dove
videro una folla di monatti, che accorreva in tumulto, gridando «aspetta,
aspetta», ad altri monatti che guidavano un carro verso la porta. Il carro si
fermò quasi davanti ai nostri due amici: quei monatti sopraggiunsero tosto
ansanti; e due che portavano un morto lo gittarono sul carro, dicendo un
d'essi: «mettetelo bene in fondo costui, che non torni a cavallo, a farci
tribolare».
«Che diavolo è stato», disse più d'uno di quei carrettieri.
«Il diavolo», rispose il monatto, «l'aveva in corpo costui: è andato su e
giù finch'ebbe fiato: se durava ancora, faceva crepare il cavallo: ma è crepato
egli, e allora per amore o per forza ha dovuto scendere».
Il Padre Cristoforo, rivolto allora a Lucia le disse: «ricordatevi di
pregare per questa povera anima voi, e vostro marito, per tutta la vita, e di
far pregare i vostri figliuoli, se Dio ve ne concede. Tornate alla vostra
compagna. Iddio sia sempre con voi». Dette queste parole, prese in fretta il
viale, per andarsene alla sua stazione; Lucia, compunta di quella separazione,
e atterrita dallo spettacolo, tornò a capo basso e col petto ansante alla sua
capanna; e Don Rodrigo su la cima d'un tristo mucchio, fra lo strepito e le
bestemmie, usciva dal lazzeretto per andarsene alla fossa.
Usciamone una volta anche noi; e teniam dietro a Fermo, il quale alloggiò
la notte come potè, il giorno seguente benché la pioggia venisse a secchie si
rimise in cammino, e si condusse fin presso al suo paese, dove giunse il terzo
dì, molle, affaticato, sciupato, ma pure più lieto che non fosse stato da un
gran pezzo. Il rivedersi di lui e d'Agnese, la gioja di questa alle novelle che
gli eran date, sono di quelle cose che i narratori passano in silenzio, nel
supposto ragionevole, che il lettore se le può immaginare. Con Don Abbondio le
cose non furono così chiare. Prima di tutto egli si fece pregare alquanto prima
di aprire la porta a Fermo; anzi non vi si ridusse che allorquando la voce di
questo gli parve un po' alterata, e le parole tinte un po' di minaccia.
Apertogli, lo accolse con quella cera che un uomo imbrattato di debiti mostra
ad un creditore che vorrebbe sapere mille miglia lontano, ma che pure non
vorrebbe irritare al segno che quegli gli desse un libello.
«Siete qui voi!» disse Don Abbondio.
«Son qui», rispose Fermo, «grazie a Dio, e sono ad avvertirla che presto
sarà qui anche Lucia Mondella, con la quale ella avrebbe dovuto sposarmi, è un
anno e dieci mesi, e con la quale ora ella mi sposerà. Meglio tardi che mai».
«Oh santo Dio benedetto!» sclamò Don Abbondio.
«Signor curato», ripigliò Fermo: «quel signore che diede tanto fastidio a
noi poveretti ed anche a lei, non ne darà più a nessuno».
«Che vuol dire?» chiese Don Abbondio.
«Vuol dire», rispose Fermo, «che Don Rodrigo a quest'ora debb'esser
all'altro mondo».
«Chi lo dice? chi lo dice?»
«Lo dico io», rispose Fermo, «che l'ho veduto al Lazzeretto, col male
addosso, acconciato pel dì delle feste, che faceva pietà».
«Eh figliuolo! si guarisce, si guarisce dalla peste. Siam guariti anche
noi».
«Le dico, che a quest'ora sarà morto sicuro».
— Se fosse la vacca d'un pover'uomo, — disse Don Abbondio fra sè e sè.
«Basta», soggiunse Fermo con quel tuono risoluto che spiaceva tanto al
suo ascoltatore; «basta, quel che è stato, è stato, ma finalmente quel che si
doveva fare prima s'ha a fare ora, e si farà».
«Ma un parere, un parere d'amico», disse con una amabile modestia Don
Abbondio, «non ha da potervelo dare un vecchio, che vi vuol bene?»
«Che parere?»
«Con quella cattura che avete su le spalle, compatitemi, non vi conviene
star qui: maritatevi altrove; e Dio vi benedica».
«Le torno a dire che nessuno pensa né alla cattura, né a me: ho girato il
mondo, e so anch'io che impicci porta, e che tempo domanda il maritarsi lontano
da casa sua: qui abbiamo le nostre case, qui si può concluder tutto in un
momento, senza impicci; basta che ella voglia; e le dico io ch'ella vorrà».
«Ma figliuolo, ma figliuolo...»
«La riverisco», rispose il figliuolo, e lasciando Don Abbondio in quei
pensieri che il lettore conosce, gli volse le spalle; e se ne andò a Bergamo a
disporre le sue faccende, e la casa per la sposa.
Questa frattanto, guarita la vedova, era uscita con essa dal lazzeretto,
il quale di giorno in giorno si andava spopolando. Perché come abbiamo
accennato, dopo quella dirotta, il contagio mollò, come suol dirsi,
repentinamente; e così venne a cessare la trista trasmigrazione della
cittadinanza al lazzeretto; quei che v'erano, in poco tempo morirono, o
risanarono. La vedova trovò la sua casa intatta, v'entrò con Lucia: ivi
stettero insieme a fare un po' di quarantena; deposero ed arsero i panni della
malattia; il fondaco somministrò la materia dei nuovi vestimenti: e la vedova
attenendo quello che aveva promesso al padre Cristoforo volle ad ogni costo
provvedere Lucia d'un bel fornimento d'abiti, con tutto il lusso contadinesco;
e vi lavorarono insieme per tutto quel tempo che stettero rinchiuse. Il giorno
stesso dell'arrivo in casa, la vedova per servire alle giuste premure della sua
ospite mandò ai capuccini a chieder conto del Padre Cristoforo. Come il lettore
l'avrà indovinato, il nostro buono e caro amico, era morto al lazzeretto.
Lasceremo pure che il lettore s'immagini il dolore di Lucia; e senza più
perderci in lungaggini, diremo che un bel giorno ella giunse alla sua casetta,
in compagnia della vedova, in una delle più belle carrozze che usassero i
mercanti d'allora. In quel frattempo, il contagio era cessato quasi da
pertutto, e tutte le precauzioni erano dismesse. Agnese non istette dunque alla
lontana dalla figlia, come aveva fatto con Fermo, ma le gettò le braccia al
collo, e fece tosto una grande amicizia con la vedova. Fermo che era tornato e
che stava quivi aspettando l'arrivo desiderato, si trovava in casa d'Agnese in
quel momento. Le accoglienze, il tripudio di tutti non è da dirsi, e i
discorsi, i racconti non sono da ripetersi: son cose che il lettore in parte
sa, in parte può immaginarsi. Il giorno seguente, andarono tutti e quattro da
Don Abbondio, il quale al tocco della porta accorse alla finestra, e veduta
quella brigata, scese gemendo, e grattandosi in capo, ad aprire.
Le accoglienze furon fredde, e imbarazzate: e a dir vero faceva proprio
rabbia a vedere quella faccia svogliata e soffusa per dir così d'un mal umore e
d'una stizza repressa, in mezzo a tanti aspetti allegri. Ma Fermo che conosceva
il male del pover uomo, gli amministrò tosto la medicina con queste parole:
«Quel signore è poi morto davvero». Don Abbondio non si abbandonò alla gioja da
spensierato, ma volle sapere con che fondamento si affermasse una tale...
notizia.
«L'ho veduto io pur troppo», disse Lucia, raccapricciando ancora al
ricordarsene. Don Abbondio volle sentire il racconto, si fece ripetere molte
circostanze, e quando fu ben certo che Don Rodrigo era veramente passato
all'altra vita, mise un gran respiro, i suoi occhi s'animarono, tutti i
lineamenti del suo volto si spiegarono come un fiore che sbuccia al raggio di
primavera.
«È morto!» sclamò egli: «Oh provvidenza! provvidenza! Ecco se Domeneddio
arriva certa gente. È morto senza successione, per un giusto giudizio, e anche
per un gran benefizio della provvidenza; perché se colui avesse lasciato gente
della sua razza, bisognerebbe dire: è morto un buon cavaliere: peccato! un
degno gentiluomo. Così, si può finalmente dire il suo cuore. Ah! Non c'è più
quel burbero, quel soperchiatore, quello spaventacchio. Questa pestilenza è
stata un flagello, figliuoli, un flagello; ma è stata anche una scopa: ha
spazzato via certa gente, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più:
birboni, freschi, verdi, vigorosi, che sperare di far loro le esequie, sarebbe
stata una prosunzione peccaminosa; si sarebbe detto che il prete destinato ad
asperger loro la cassa stava ancora facendo i latinucci; e in un batter
d'occhio sono iti: requiescant. Ah!... Ma, che facciamo noi qui»,
soggiunse poi, come ravvedendosi, «qui in piedi, in questo andito? venite
figliuoli, venite nella mia saletta; venga signora mia, ben venuta in queste
parti; andiamo a sedere, e a discorrere tranquillamente dei fatti nostri.
Perché», continuò egli camminando, «quello che s'ha da fare voglio che lo
facciamo presto; che è troppo giusto. Non mi piace, vedete, far penare la
gente. E principalmente voi, figliuoli cari»,: e qui eran giunti nella sala, e
fatti sedere da Don Abbondio, che proseguì: «principalmente voi, ai quali ho
sempre voluto bene. Ma che volete? Alle volte bisogna far bella cera a quegli
che si vorrebbero veder lontani le mille miglia, e cera brusca a quelli che si
amano: si pare amici dei birboni, e nemici dei galantuomini; ma, santo cielo!
bisogna vestirsi dei panni d'un povero galantuomo. Basta; è finita; veniamo a
noi. Figliuoli, non bisogna perder tempo; oggi, che giorno è?... Venerdì:
posdomani rinnoveremo le pubblicazioni; perché quelle altre già fatte, dopo
tanto tempo, non valgono più nulla; e poi voglio avere io la consolazione di
maritarvi; e subito subito, voglio darne parte a Sua Eminenza».
«Chi è Sua Eminenza?» domandò Agnese.
«Il nostro arcivescovo», rispose Don Abbondio, «quel degno prelato: non
sapete che il nostro santo padre Urbano ottavo, che Dio conservi, fino dal mese
di Giugno, ha ordinato che ai cardinali si dia il titolo di Eminenza?»
«Ed io», replicò Agnese, «che gli ho parlato, come parlo a Vossignoria,
ho inteso che tutti gli dicevano: Monsignore illustrissimo».
«E se gli aveste a parlare ora», replicò Don Abbondio, «dovreste dirgli:
Eminenza, sotto pena di passare per malcreata, o per ignorante. Così ha voluto
il papa: è ben vero che alcuni principi sono in collera, e non vorrebbero
questa novità: ma, tra loro magnati se la strighino: io povero pretazzuolo non
ho di questi affanni. Torniamo al fatto nostro. Voglio che stiamo allegri:
abbiamo avuto tanto tempo di malinconia. Farete un po' di banchetto: eh?»
«Da poveri figliuoli», rispose Fermo.
«Ed io verrò a stare allegro con voi; verrò, vedete», disse Don Abbondio.
«Oh signor curato», rispose Fermo, «intendevamo bene di pregarla...»
«Ed io vi ho prevenuti», riprese Don Abbondio, «per farvi vedere che vi
sono amico; che vi voglio bene, quantunque m'abbiate dato anche voi qualche
travaglio: non parlo di te che sei un malandrinaccio», disse rivolto a Fermo,
sorridendo, «ma anche voi con quell'aria di quietina»: e qui rivolto a Lucia, e
alzata la mano con l'indice teso, e stretto il rimanente del pugno la moveva
verso di essa in atto di amichevole rimbrotto; e continuò: «bricconcella, anche
voi mi avete voluto fare un tiro: quella sera: quella sorpresa: quel
clandestino: basta non ne parliamo più; quel ch'è stato è stato: non è colpa
vostra; è un mio destino, che tutti più o meno debbano darmi qualche fastidio:
tutto è finito: pensiamo a stare allegri».
Lucia sorrise; Agnese stava per aprir la bocca ad argomentare contra Don
Abbondio, e provargli che il torto era suo; ma Fermo le fece cenno di tacere; e
rispose egli in vece con un complimento al curato; e con qualche altro
complimento, il congresso finì con universale soddisfazione.
Il tempo che scorse tra le pubblicazioni e le nozze, fu impiegato dagli
sposi ai preparativi pel traslocamento a Bergamo, e pel trasporto colà del loro
modico avere, e Agnese, la quale come il lettore se n'è avveduto, pareva sempre
voler dominare nei discorsi, ma in fatto, povera donna, viveva per gli altri, e
faceva a modo dei suoi figlj, anche in questo caso si arrabbattò per la causa
comune: la vedova anch'essa non lasciava di dare una mano.
Forse taluno di quegli che credono di veder meglio negli affari altrui, a
prima giunta, che non vegga colui di chi sono gli affari, dopo avervi molto
pensato, domanderà per qual motivo quella famiglia volesse abbandonare il luogo
natale, la sua casuccia, il suo picciol fondo, ora che era tolto di mezzo colui
che gl'impediva di posarvisi tranquillamente. Per tre ragioni principalmente.
La prima: quantunque Fermo allora non ricevesse alcuna inquietudine per quella
sua impresa di Milano, e la cattura fosse un titolo inoperoso; pure un
sospetto, una reminiscenza, un mal uficio, poteva far risorgere l'antica
querela, e rimetterlo in Dio sa quale impiccio.
La seconda, è una di quelle ragioni che nel parlare astratto non si
contano quasi per nulla, ma che nel caso concreto sono più potenti a
determinare che molte altre. Ciò che Fermo aveva sofferto, e temuto nel suo
paese, gliel'aveva reso spiacevole: il suo paese gli ricordava le angherie d'un
soverchiatore, i pericoli della prigione, e di peggio, poi il furore del
popolo, che lo cercava a morte. Memorie di questo genere disgustano l'uomo dai
luoghi che le richiamino, e se quei luoghi sono la patria, ne lo disgustano
tanto più, appunto perché gli guardava prima con fiducia, e con affezione.
Anche il bambolo riposa volentieri sul seno della nutrice, rifugge a quello da
tutti i terrori, cerca con avidità la poppa che lo ha nutricato fin allora, e
s'accheta quando l'ha presa: ma se la nutrice, per divezzarlo, intinge la poppa
d'assenzio, il bambino torce con dolore e con pianto il labbro da quella nuova
amaritudine, e desidera un cibo diverso.
Finalmente, i nostri sposi erano entrambi lavoratori di seta: triste
circostanze gli avevano costretti a dismettere per molto tempo la loro
professione; ma né l'uno né l'altro aveva amore all'ozio; e il loro disegno era
di ripigliare tosto il lavoro per vivere tranquillamente e onestamente, e per
nutrire ed allevare i figliuoli che speravano, come tutti gli sposi fanno. Ora
l'industria della seta, come tutte le altre era già decaduta spaventosamente
nel milanese, prima di quelle recenti sciagure; e queste le avevan poi dato
l'ultimo crollo. Non è questo il luogo di descrivere quello stato di cose, e di
toccarne le cagioni. Già molte nemiche d'ogni industria e d'ogni prosperità
appajono anche troppo in questa lunga storia: chi volesse conoscere le più
immediate legga, se non le ha lette, le belle memorie storiche del conte P.
Verri sulla economia pubblica dello Stato di Milano; e se vuol conoscere più a
fondo, frughi nei documenti originali, da cui quel valentuomo ha cavate le sue
memorie. Basti a noi il dire che l'uomo il quale aveva abilità e voglia di
lavorare, stentava nel Milanese, e che nel Bergamasco, come in altri stati
vicini si offerivano esenzioni, privilegii, ed altri incoraggiamenti ai
lavoratori che volessero trasportarvisi. Questa differenza fece uscire una
folla di operaj, e rivivere in quegli stati molte manifatture che perirono nel
milanese dove avevano fiorito. Differente per conseguenza era anche l'aspetto
dei due paesi. In Bergamo (non vogliam dire che fosse il paradiso terrestre)
dopo la pestilenza, si vedevano tuttavia i tristi segni, e i tristi effetti di
quella: la spopolazione, le terre incolte, l'ardire cresciuto nei ribaldi, le
abitudini dell'ozio, e del vagabondare: ma in quella petulanza stessa v'era una
certa aria di allegria nata se non dalla abbondanza, almeno dalla sufficienza
dei mezzi e dei capitali: quegli poi che avevano voglia di far bene trovavano
in quei capitali una facilità grande e pronta. Ma nel Milanese una cagione viva
e incessante di miseria sopravviveva alle miserie della peste; un sistema che
onorava l'orgoglio ozioso, che favoriva la soverchieria perturbatrice, che
alimentava tutti gli studj del raggiro, e delle ciarle, un sistema oppressivo e
impotente, insensato e immutabile, un sistema di rapine e di ostacoli, impediva
l'industria, la pace, e l'allegria.
Scelta dunque un'altra patria, i nostri eroi, erano però impacciati del
come convertire in danaro i pochi beni che dovevano lasciare nel paese dove
erano nati: ma la fortuna — non osiamo dire la provvidenza — la fortuna che
voleva favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar lietamente
una storia inventata per ozio, trovò un ripiego anche a questo. I beni di Don
Rodrigo erano passati per fedecommesso ad un parente lontano; il quale era un
uomo di ben diverso conio; un galantuomo, un amico del cardinal Federigo. Prima
di andare a prender possesso di quella eredità, trovandosi egli col cardinale
gliene parlò. «Avrete forse una occasione di far del bene e di riparare il male
che ha fatto Don Rodrigo», gli disse il cardinale, e gli raccontò in succinto
la persecuzione fatta da quello sgraziato ai nostri sposi, e il danno di ogni
genere che ne avevan patito. «Se son vivi tuttora», soggiunse, «non vi prego di
far loro del bene, che con voi non fa bisogno; ma di darmi notizia di loro, e
di dire a quella buona giovane ch'io mi ricordo sempre di lei, e mi raccomando
alle sue orazioni». Il galantuomo, appena giunto al castellotto, si fece
indicare il villaggio degli sposi, e si presentò al curato. Don Abbondio al
vedere il nuovo padrone di quella altre volte caverna di ladroni, umano,
cortese, affabile, rispettoso verso i preti, voglioso di far del bene, non si
può dire quanto ne fosse edificato. E quando quel signore lo richiese di Fermo
e di Lucia, e gli manifestò le sue intenzioni benevole, Don Abbondio, non solo
si prestò volentieri, a secondarle, ma lo fece con una ispirazione molto
felice.
«Signor mio», diss'egli «questa buona gente è risoluta di lasciar questo
paese; e il miglior servizio ch'ella possa render loro è di comperare quei
pochi fondi che tengono qui. A lei potrà convenire di aggiungerli ai suoi
possessi; e quella gente si troverà fuori d'un grande impiccio».
Il signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don Abbondio
se non sarebbe dispiaciuto di condurlo a vedere quei fondi, e insieme a
conoscere quella brava gente.
«È un onore immortale», disse Don Abbondio facendo una gran riverenza; e
andò in trionfo alla casa di Lucia con quel signore, il quale fece la proposta,
che fu molto gradita. Il prezzo fu rimesso a Don Abbondio, a cui il signore
disse all'orecchio, che lo stabilisse molto alto. Don Abbondio così fece; ma il
signore volle aggiungere qualche cosa: e per interrompere i ringraziamenti dei
venditori, gli invitò a pranzo nel suo castello pel giorno dopo quello delle
nozze.
Quel giorno benedetto venne finalmente: gli sposi promessi, furono marito
e moglie; il banchetto fu molto lieto. Il giorno seguente ognuno può
immaginarsi quali fossero i sentimenti degli sposi e quelli di Don Abbondio,
entrando non solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale ed onorevole nel
castello, che era stato di Don Rodrigo: a render compiuta la festa, mancava il
Padre Cristoforo: ma egli era andato a star meglio.
Non possiamo però ommettere una circostanza singolare di quel convito: il
padrone non vi sedè; allegando che il pranzare a quell'ora non si confaceva al
suo stomaco. Ma la vera cagione fu (oh miseria umana!) che quel brav'uomo non
aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani: egli, che si
sarebbe recato ad onore di prestar loro i più bassi servigi, in una malattia.
Tanto anche a chi è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il
vincere una picciola abitudine di pregiudizio, quando un dovere inflessibile e
chiaro non comandi la vittoria.
Il terzo giorno, la buona vedova con molte lagrime, e con quelle promesse
di rivedersi, che si fanno anche quando s'ignora se e quando si potranno
adempire, si staccò dalla sua Lucia, e tornò a Milano: e gli sposi con la buona
Agnese che tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato da Don Abbondio,
diedero un addio, che non fu senza un po' di crepacuore ai loro monti, e
s'avviarono a Bergamo. Avrebbero certamente divertito dalla loro strada, per
far una visita al Conte del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste
contratta nell'assistere ai primi appestati.
La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con
la buona condotta. Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno,
e a cui dare dei baci chiamandolo «cattivaccio». Ella visse abbastanza per
poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamare
bella giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo
figliuolo. Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e
aggiungeva sempre: «d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che
gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra». Lucia
però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che
qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di
pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: «Ed io, che debbo io
avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a
cercarmi. Quando tu non volessi dire», aggiunse ella soavemente sorridendo,
«che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te».
Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse
che le scappate attirano bensì ordinariamente de' guai: ma che la condotta la
più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono,
o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende
utili per una vita migliore. Questa conclusione benché trovata da una
donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come
il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di
terminare con essa la nostra storia.
17 settembre 1823