Ai
giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni
accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che
orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella
sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizion
della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio
s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione
che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non
s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.
In
una parte dello scritto antecedente, l'autore aveva manifestata l'intenzione di
pubblicarne la storia; ed è questa che presenta al pubblico, non senza
vergogna, sapendo che da altri è stata supposta opera di vasta materia, se non
altro, e di mole corrispondente. Ma se il ridicolo del disinganno deve cadere
addosso a lui, gli sia permesso almeno di protestare che nell'errore non ha
colpa, e che, se viene alla luce un topo, lui non aveva detto che dovessero
partorire i monti. Aveva detto soltanto che, come episodio, una tale storia
sarebbe riuscita troppo lunga, e che, quantunque il soggetto fosse già stato
trattato da uno scrittore giustamente celebre ("Osservazioni sulla
tortura", di Pietro Verri), gli pareva che potesse esser trattato di
nuovo, con diverso intento. E basterà un breve cenno su questa diversità, per
far conoscere la ragione del nuovo lavoro. Così si potesse anche dire
l'utilità; ma questa, pur troppo, dipende molto più dall'esecuzione che
dall'intento.
Pietro
Verri si propose, come indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavar
da quel fatto un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva
potuto estorcere la confessione d'un delitto, fisicamente e moralmente
impossibile. E l'argomento era stringente, come nobile e umano l'assunto.
Ma
dalla storia, per quanto possa esser succinta, d'un avvenimento complicato,
d'un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente
potersi ricavare osservazioni più generali, e d'un'utilità, se non così
immediata, non meno reale. Anzi, a contentarsi di quelle sole che potevan
principalmente servire a quell'intento speciale, c'è pericolo di formarsi una
nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa, prendendo per cagioni di esso
l'ignoranza de' tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi
come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore dannoso
da dove si può avere un utile insegnamento. L'ignoranza in fisica può produrre
degl'inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non
s'applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all'efficacia
dell'unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le
avessero messe in opera; come dell'esser la tortura in vigore non era effetto
necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a
cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere
sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che
dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar
questa dipende il giudicar rettamente quell'atroce giudizio. Noi abbiam cercato
di metterla in luce, di far vedere che que' giudici condannaron degl'innocenti,
che essi, con la più ferma persuasione dell'efficacia dell'unzioni, e con una
legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che
anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni
momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com'ora,
come sempre, dovettero fare continui sforzi d'ingegno, e ricorrere a espedienti,
de' quali non potevano ignorar l'ingiustizia. Non vogliamo certamente (e
sarebbe un tristo assunto) togliere all'ignoranza e alla tortura la parte loro
in quell'orribile fatto: ne furono, la prima un'occasion deplorabile, l'altra
un mezzo crudele e attivo, quantunque non l'unico certamente, né il principale.
Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che
furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?
Dio
solo ha potuto distinguere qual più, qual meno tra queste abbia dominato nel
cuor di que' giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro
pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le
veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla
falsa; aveva detto: "finalmente!" e non voleva dire: "siam da
capo"; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e
puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor
di mancare a un'aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di
parer meno abili se scoprivano degl'innocenti, di voltar contro di sé le grida
della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors'anche di gravi pubblici
mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente
perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e
veramente sapiente, di commetter l'ingiustizia. Dio solo ha potuto vedere se
que' magistrati, trovando i colpevoli d'un delitto che non c'era, ma che si
voleva1, furon più complici o ministri d'una moltitudine che, accecata,
non dall'ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i
precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace. Ma la
menzogna, l'abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note
e ricevute, l'adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si posson
riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson
riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; né, per ispiegar
gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più
naturali e di men triste, che quella rabbia e quel timore.
Ora,
tali cagioni non furon pur troppo particolari a un'epoca; né fu soltanto per
occasione d'errori in fisica, e col mezzo della tortura, che quelle passioni,
come tutte l'altre, abbian fatto commettere ad uomini ch'eran tutt'altro che
scellerati di professione, azioni malvage, sia in rumorosi avvenimenti
pubblici, sia nelle più oscure relazioni private. "Se una sola tortura di
meno", scrive l'autor sullodato, "si darà in grazia dell'orrore che
pongo sotto gli occhi, sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e
la speranza di ottenerlo mi ricompensa2". Noi, proponendo a
lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti,
crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il
ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e
principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi,
né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste,
col riconoscerle ne' loro effetti, e detestarle.
E
non temiamo d'aggiungere che potrà anche esser cosa, in mezzo ai più dolorosi
sentimenti, consolante. Se, in un complesso di fatti atroci dell'uomo contro
l'uomo, crediam di vedere un effetto de' tempi e delle circostanze, proviamo,
insieme con l'orrore e con la compassion medesima, uno scoraggimento, una
specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente
al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno
perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno
accorgersi. Ci pare irragionevole l'indegnazione che nasce in noi spontanea
contro gli autori di que' fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e
santa: rimane l'orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro
cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare
tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla. Ma
quando, nel guardar più attentamente a que' fatti, ci si scopre un'ingiustizia
che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le
regole ammesse anche da loro, dell'azioni opposte ai lumi che non solo c'erano
al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d'avere,
è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non
volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere,
e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser
forzatamente vittime, ma non autori.
Non
ho però voluto dire che, tra gli orrori di quel giudizio, l'illustre scrittore
suddetto non veda mai, in nessun caso, l'ingiustizia personale e volontaria de'
giudici. Ho voluto dir soltanto che non s'era proposto d'osservar quale e
quanta parte c'ebbe, e molto meno di dimostrare che ne fu la principale, anzi,
a parlar precisamente, la sola cagione. E aggiungo ora, che non l'avrebbe
potuto fare senza nocere al suo particolare intento. I partigiani della tortura
(ché l'istituzioni più assurde ne hanno finché non son morte del tutto, e
spesso anche dopo, per la ragione stessa che son potute vivere) ci avrebbero
trovata una giustificazione di quella. - Vedete? - avrebbero detto, - la colpa
è dell'abuso, e non della cosa. - Veramente, sarebbe una singolar
giustificazione d'una cosa, il far vedere che, oltre all'essere assurda in ogni
caso, ha potuto in qualche caso speciale servir di strumento alle passioni, per
commettere fatti assurdissimi e atrocissimi. Ma l'opinioni fisse l'intendon
così. E dall'altra parte, quelli che, come il Verri, volevano l'abolizion della
tortura, sarebbero stati malcontenti che s'imbrogliasse la causa con
distinzioni, e che, con dar la colpa ad altro, si diminuisse l'orrore per
quella. Così almeno avvien d'ordinario: che chi vuol mettere in luce una verità
contrastata, trovi ne' fautori, come negli avversari, un ostacolo a esporla nella
sua forma sincera. È vero che gli resta quella gran massa d'uomini senza
partito, senza preoccupazione, senza passione, che non hanno voglia di
conoscerla in nessuna forma.
In
quanto ai materiali di cui ci siam serviti per compilar questa breve storia, dobbiam
dire prima di tutto, che le ricerche fatte da noi per iscoprire il processo
originale, benché agevolate, anzi aiutate dalla più gentile e attiva
compiacenza, non han giovato che a persuaderci sempre più che sia assolutamente
perduto. D'una buona parte però è rimasta la copia; ed ecco come. Tra que'
miseri accusati si trovò, e pur troppo per colpa d'alcun di loro, una persona
d'importanza, don Giovanni Gaetano de Padilla, figlio del comandante del
castello di Milano, cavalier di sant'Iago, e capitano di cavalleria; il quale
poté fare stampare le sue difese, e corredarle d'un estratto del processo, che,
come a reo costituito, gli fu comunicato. E certo, que' giudici non s'accorsero
allora, che lasciavan fare da uno stampatore un monumento più autorevole e più
durevole di quello che avevan commesso a un architetto. Di quest'estratto, c'è
di più un'altra copia manoscritta, in alcuni luoghi più scarsa, in altri più
abbondante, la quale appartenne al conte Pietro Verri, e fu dal degnissimo suo
figlio, il signor conte Gabriele, con liberale e paziente cortesia, messa e
lasciata a nostra disposizione. È quella che servì all'illustre scrittore per
lavorar l'opuscolo citato, ed è sparsa di postille, che sono riflessioni
rapide, o sfoghi repentini di compassion dolorosa, e d'indegnazione santa.
Porta per titolo: "Summarium offensivi contra Don Johannem Cajetanum de
Padilla"; ci si trovan per esteso molte cose delle quali nell'estratto
stampato non c'è che un sunto; ci son notati in margine i numeri delle pagine
del processo originale, dalle quali son levati i diversi brani; ed è pure
sparsa di brevissime annotazioni latine, tutte però del carattere stesso del
testo: "Detentio Morae; Descriptio Domini Johannis; Adversatur
Commissario; Inverisimile; Subgestio", e simili, che sono evidentemente
appunti presi dall'avvocato del Padilla, per le difese. Da tutto ciò pare
evidente che sia una copia letterale dell'estratto autentico che fu comunicato
al difensore; e che questo, nel farlo stampare, abbia omesse varie cose, come
meno importanti, e altre si sia contentato d'accennarle. Ma come mai se ne
trovano nello stampato alcune che mancano nel manoscritto? Probabilmente il
difensore poté spogliar di nuovo il processo originale, e farci una seconda
scelta di ciò che gli paresse utile alla causa del suo cliente.
Da
questi due estratti abbiamo naturalmente ricavato il più; ed essendo il primo,
altre volte rarissimo, stato ristampato da poco tempo, il lettore potrà, se gli
piace, riconoscere, col confronto di quello, i luoghi che abbiam presi dalla
copia manoscritta.
Anche
le difese suddette ci hanno somministrato diversi fatti, e materia di qualche
osservazione. E siccome non furon mai ristampate, e gli esemplari ne sono
scarsissimi, non mancherem di citarle, ogni volta che avremo occasion di
servircene.
Qualche
piccola cosa finalmente abbiam potuto pescare da qualcheduno de' pochi e
scompagnati documenti autentici che son rimasti di quell'epoca di confusione e
di disperdimento, e che si conservano nell'archivio citato più d'una volta
nello scritto antecedente.
Dopo
la breve storia del processo abbiam poi creduto che non sarebbe fuor di luogo
una più breve storia dell'opinione che regnò intorno ad esso, fino al Verri,
cioè per un secolo e mezzo circa. Dico l'opinione espressa ne' libri, che è,
per lo più, e in gran parte, la sola che i posteri possan conoscere; e ha in
ogni caso una sua importanza speciale. Nel nostro, c'è parso che potesse essere
una cosa curiosa il vedere un seguito di scrittori andar l'uno dietro all'altro
come le pecorelle di Dante, senza pensare a informarsi d'un fatto del quale
credevano di dover parlare. Non dico: cosa divertente; ché, dopo aver visto
quel crudele combattimento, e quell'orrenda vittoria dell'errore contro la
verità, e del furore potente contro l'innocenza disarmata, non posson far altro
che dispiacere, dicevo quasi rabbia, di chiunque siano, quelle parole in
conferma e in esaltazione dell'errore, quell'affermar così sicuro, sul
fondamento d'un credere così spensierato, quelle maledizioni alle vittime,
quell'indegnazione alla rovescia. Ma un tal dispiacere porta con sé il suo
vantaggio, accrescendo l'avversione e la diffidenza per quell'usanza antica, e
non mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare, e, se ci si lascia
passar quest'espressione, di mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle
volte quello che gli ha già dato alla testa.
A
questo fine, avevam pensato alla prima di presentare al lettore la raccolta di
tutti i giudizi su quel fatto, che c'era riuscito di trovare in qualunque
libro. Ma temendo poi di metter troppo a cimento la sua pazienza, ci siam
ristretti a pochi scrittori, nessuno affatto oscuro, la più parte rinomati:
cioè quelli, de' quali son più istruttivi anche gli errori, quando non posson
più esser contagiosi.
|