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Alessandro Manzoni
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LIRICHE GIOVANILI

 

VI

[RITRATTO DI SE STESSO]

[l801]

 

                        Capel bruno: alta fronte; occhio loquace:

            Naso non grande e non soverchio umile:

            Tonda la gota e di color vivace:

            Stretto labbro e vermiglio: e bocca esile:

 

5                      Lingua or spedita or tarda, e non mai vile,

            Che il ver favella apertamente, o tace.

            Giovin d'anni e di senno; non audace:

            Duro di modi, ma di cor gentile.

 

                        La gloria amo e le selve e il biondo iddio:

10      Spregio, non odio mai: m'attristo spesso:

            Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.

 

                        A l'ira presto, e più presto al perdono:

            Poco noto ad altrui, poco a me stesso:

            Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

 

VII

A FRANCESCO LOMONACO

[Per la “Vita di Dante]

[1802]

 

                        Come il divo Alighier l'ingrata Flora

            Errar fea, per civil rabbia sanguigna,

            Pel suol, cui liberal natura infiora,

            Ove spesso il buon nasce e rado alligna,

 

5                      Esule egregio, narri: e Tu pur ora

            Duro esempio ne dài, Tu, cui maligna

            Sorte sospinse, e tiene incerto ancora

            In questa di gentili alme madrigna.

 

                        Tal premj, Italia, i tuoi migliori, e poi

10      Che pro se piangi, e il cener freddo adori,

            E al nome voto onor divini fai?

 

                        Sì da' barbari oppressa opprimi i tuoi,

            E ognor tuoi danni e tue colpe deplori,

            Pentita sempre, e non cangiata mai.

 

 

VIII

[ALLA MUSA]

[1802]

 

                        Novo intatto sentier segnami, o Musa,

            Onde non stia tua fiamma in me sepolta.

            È forse a somma gloria ogni via chiusa,

            Che ancor non sia d'altri vestigj folta?

 

5                      Dante ha la tromba, e il cigno di Valchiusa

            La dolce lira; e dietro han turba molta.

            Flora ad Ascre agguagliosse; e Orobia incolta

            Emulò Smirna, e vinse Siracusa.

 

                        Primo signor de l'italo coturno,

10      Te vanta il secol nostro, e te cui dièo

            Venosa il plettro, e chi il flagello audace?

 

                        Clio, che tratti la tromba e il plettro eburno,

            Deh! fa’ che, s'io cadrò sul calle Ascreo,

            Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.

 

IX

[ALLA SUA DONNA]

[1802]

 

                        Se pien d'alto disdegno e in me securo

            Alteramente io parlo e penso e scrivo

            Oltre l'etate e il vil tempo in ch'io vivo,

            E piacer sozzo e vano onor non curo;

 

                        Opra è tua, Donna, e del celeste e puro

5          Foco che nel mio petto accese il vivo

            Lume de gli occhi tuoi, che mi fa schivo

            Di quanto parmi, al tuo paraggio, impuro.

 

                        Piacerti io voglio; né piacer ti posso,

10      Fin ch'io non sia, ne gli atti e pensier miei,

            Mondo così ch'io ti somigli in parte.

 

                        Così per la via alpestra io mi son mosso:

            Né, volendo ritrarmene, il potrei;

            Perché non posso intralasciar d'amarte.

 

 

X

ODE [AMOROSA]

[1802-1803]

 

 

                        Qual su le Cinzie cime

            Alta sovrasta a le minori Oreadi

            Col volto, e col sublime

            D'auree frecce sonante omero Delia,

5          E appar movendo per la sacra riva

            Veracemente Diva;

                        Tal prima a gli occhi miei

            Non ancor dotti d'amorose lagrime

            Appariva costei,

10      Vincendo di splendor l'emule Vergini

            Per mover d'occhi dolcemente grave

            E per voce soave.

                        Da gl'innocenti sguardi

            Che ancor lor possa e gli altrui danni ignorano,

15      Escono accesi dardi,

            Non certi men, né di più leve incendio,

            Se dal fronte scendendo il crine avaro

            Dolce fa lor riparo.

                        Non altrimenti in Cielo

20      Febo sorgendo, di dorata nuvola

            A suoi splendor fa velo,

            Che vincitor superbi indi sfavillano;

            E la terra soggetta in suo viaggio

            Tinge di dubbio raggio.

25                  Oh qual tutta di nove

            Fatali grazie ride allor che l'invido

            Crin col dito rimove,

            E doppio appresta di beltà spettacolo

            Sul picciol fronte trascorrendo lieve

30      Con la destra di neve.

                        Né tacerò la bella

            Bocca gentile, ove s'asconde il candido

            Riso, e l'alma favella,

            E in cui prepara, ahi per chi dunque? Venere

35      Gli accesi baci e le punture ardite

            E le dolci ferite.

                        Me con queste possenti

            Armi assaliva il fanciulletto Idalio

            Mentr'io per le fiorenti

40      Ascree piagge scorrea lungo le Aonie

            Secrete acque, onde a me l'adito schiuse

            Il favor de le Muse.

                        Ahi! né valido usbergo

            Gli aspri precetti di Zenon mi furono,

45      Né dar fuggendo il tergo

            Al lui mi valse, ché trionfo nobile

            Me in suo regno ponea, fatto possente

            Del core e della mente.

                        Né vuol ch'io canti rossa

50      Di sangue Italia, onde ancor pochi godono,

            Né di plebe commossa

            Le feroci vendette ed i terribili

            Brevi furori e i rovesciati scanni

            De’ tremanti Tiranni.

55                  Ma a dir m'insegna, come

            Trasse da’ gorghi del paterno Oceano

            Le rugiadose chiome,

            Sul mar girando i rai lucenti, Venere,

            A la mirante di Nereo famiglia

60      Invidia e meraviglia:

                        E il Zeffiro lascivo,

            Che ne le zone de le incaute vergini

            Scherzar gode furtivo,

            Onde audaci i pastor maligni ridono;

65      E a lor la guancia bella e vergognosa

            Tinge virginea rosa.

 

 

XI

FRAMMENTO

D'UN'ODE ALLE MUSE

[1803?]

 

                        Nove fanciulle d'immortal bellezza,

            Vergini tutte e d'un sol padre nate,

            Di diversa vaghezza

            M'han preso il cor, che fra lor dubbio stassi,

5          Né sa qual segua o lassi;

            Ché varia è in lor, non disugual, beltate:

            Io chiamato le seguo e con lor vivo,

            Di lor sol penso ed ho tutt'altro a schivo.

                        Una sorge tra lor quasi primiera,

10      Signoreggiando con la regia chioma;

            E su la fronte altera

            Si legge ben che suo valor l'è conto;

            E dal passo e dal pronto

            Sguardo e da gli occhi belli, onde si noma,

15      Manda virtù che doppio effetto figlia,

            E amore insieme e reverir consiglia.

                        Ma il crin disciolto e più negletto il manto

            Un'altra porta, e un duolo in fronte ha scolto.

            Ed ha su gli occhi un pianto

20      Tal che letizia fa parer men bella.

            Ma ben di Lei sorella

            L'accusan gli atti e il portamento e il volto

            Che par che dica: io de' miei tristi e negri

            Pensier mi godo; alcun non mi rallegri.

25                  Ecco saltante per la sacra riva,

            Con pie' securo e con allegra faccia,

            Venir la terza Diva,

            Bruna la chioma e bruna la pupilla,

            Dal cui mover scintilla

30      L'ira faceta e il riso e la minaccia,

            Che del vile nel cor mette paura,

            Ed il miglior conforta e rassecura.

 

 

XII

ADDA

Idillio a Vincenzo Monti

[15 settembre 1803]

 

            Diva di fonte umil, non d'altro ricca

            Che di pura onda e di minuto gregge,

            Te, come piacque al ciel, nato a le grandi

            De l'Eridano sponde, a questi ameni

5          Cheti recessi e a tacit'ombre invito.

            Non feroci portenti o scogli immani

            Né pompa io vanto d'infinito flutto

            O di abitati pin; né imperioso

            Innalzo il corno, a le città soggette

10      Signoreggiando le torrite fronti;

            Ma verdi colli e biancheggianti ville

            E lieti colti in mio cammin saluto

            E tenaci boscaglie, a cui commisi

            Contro i villani d'Aquilone insulti

15      Servar la pace del mio picciol regno

            e con Febo alternar l'ombre salubri.

            Né al piangente colono è mio diletto

            Rapir l'ostello e i lavorati campi,

            Ad arricchir l'opposta avida sponda,

20      Novo censo al vicin; né udir le preci

            Inesaudite e gl'imprecanti voti

            De le madri, che seguono da lunge

            Con l'umid'occhio e con le strida il caro

            Pan destinato a la fame de' figli,

25      E la sacra dimora e il dolce letto.

            Sol talor godo con l'innocua mano

            Piegar l'erbe cedenti, e da le rive

            Sveller fioretti, per ornarmi il seno

            E le treccie stillanti. Né gelosa

30      Tolgo a gli occhi profani il mio soggiorno,

            Ma dai tersi cristalli altrui rivelo

            La monda arena; anzi sovente, scesi

            Dai monti Orobj, i Satiri securi

            Tempran nel fresco mio la siria fiamma,

35      Col pie' caprigno intorbidando l'onda.

            Forse, al par d'Aretusa e d'Acheloo,

            Natal divin non vanto e sede arcana,

            Sacra ai congressi de le Aonie suore;

            Pur soave ed umil vassi Aganippe

40      Su la Libetride erba mormorando.

            Ben so che d'altro vanto aver corona

            Pretende il Re de' fiumi, e presso al Mincio,

            Del primo onor geloso, ancor s'ascolta

            Fremer l'onda sdegnosa arme ed amori;

45      E so ch'egli n'andò poi de la molle

            Guarinia corda, or de la tua superbo;

            Ma non vedi con l'irta alga natia

            Splendermi il lauro in su la fronte? Salve,

            Vocal colle Eupilino: a te mai sempre

50      Sul pian felice e sul sacrato clivo

            Rida Bacco vermiglio e Cerer bionda;

            Salve onor di mia riva: a te sovente

            Scendean Febo e le Muse Eliconiadi,

            Scordato il rezzo de l'Ascrea fontana.

55      Quivi sovente il buon Cantor vid'io

            Venir trattando con la man secura

            Il plettro di Venosa e il suo flagello;

            O traendo l'inerte fianco a stento,

            Invocar la salute e la ritrosa

60      Erato bella, che di lui temea

            L'irato ciglio e il satiresco ghigno;

            Seguialo alfine, e su le tempia antiche

            Fea di sua mano rinverdire il mirto.

            Qui spesso udillo rammentar piangendo,

65      Come si fa di cosa amata e tolta,

            Il dolce tempo de la prima etade;

            O de' potenti maledir l'orgoglio,

            Come il Genio natio movealo al canto,

            E l'indomata gioventù de l'alma.

70      Or tace il plettro arguto, e ne' miei boschi

            È silenzio ed orror; Te dunque invito,

            Canoro spirto, a risvegliarmi intorno

            Novo romor Cirreo. A te concesse

            Euterpe il cinto, ove gli eletti sensi

75      E le immagini e l'estro e il furor sacro

            E l'estasi soave e l'auree voci

            Già di sua man rinchiuse. A te venturo

            Fiorisce il dorso Brianteo; le poma

            Mostra Vertunno, e con la man ti chiama.

80      Ed io, più ch'altri di tuo canto vaga,

            Già m'apparecchio a salutar da lunge

            L'alto Eridano tuo, che al novo suono

            Trarrà maravigliando il capo algoso,

            E fra gl'invidi plausi de le Ninfe,

85      Bella d'un inno tuo, corrergli in seno.

 

XIII

IN MORTE DI CARLO IMBONATI

VERSI DI ALESSANDRO MANZONI

A GIULIA BECCARIA SUA MADRE

 

Ch'ambo i vestigi tuoi cerchiam piangendo.

Casa

[Gennaio 1806]

 

            Se mai più che d'Euterpe il furor santo

            E d'Erato il sospiro, o dolce madre,

            L'amaro ghigno di Talia mi piacque

            Non è consiglio di maligno petto.

5          Né del mio secol sozzo io già vorrei

            Rimescolar la fetida belletta,

            Se un raggio in terra di virtù vedessi,

            Cui sacrar la mia rima. A te sovente

            Così diss'io: ma poi che sospirando,

10      Come si fa di cosa amata e tolta,

            Narrar t'udia di che virtù fu tempio

            Il casto petto di colui che piangi;

            Sarà, dicea, che di tal merto pera

            Ogni memoria? E da cotanto esemplo

15      Nullo conforto il giusto tragga, e nulla

            Vergogna il tristo? Era la notte; e questo

            Pensiero i sensi m'avea presi; quando,

            Le ciglia aprendo, mi parea vederlo

            Dentro limpida luce a me venire,

20      A tacit'orma. Qual mentita in tela,

            Per far con gli occhi a l'egra mente inganno,

            Quasi a culto, la miri, era la faccia.

            Come d'infermo, cui feroce e lungo

            Malor discarna, se dal sonno è vinto,

25      Che sotto i solchi del dolor, nel volto

            Mostra la calma, era l'aspetto. Aperta

            La fronte, e quale anco gl'ignoti affida:

            Ma ricetto parea d'alti pensieri.

            Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso

30      Non difficile il labbro. A me dappresso

            Poi ch'e' fu fatto, placido del letto

            Su la sponda si pose. Io d'abbracciarlo,

            Di favellare ardea; ma irrigidita

            Da timor da stupor da reverenza

35      Stette la lingua; e mi tremò la palma,

            Che a l'amplesso correva. Ei dolcemente

            Incominciò: Quella virtù, che crea

            Di due boni l'amor, che sian tra loro

            Conosciuti di cor, se non di volto,

40      A vederti mi tragge. E sai se, quando

            Il mio cor ne le membra ancor battea,

            Di te fu pieno; e quanta parte avesti

            De gli estremi suoi moti. Or poi che dato

            Non m'è, com'io bramava, a passo a passo

45      Per man guidarti su la via scoscesa,

            Che anelando ho fornita, e tu cominci,

            Volli almeno una volta confortarti

            Di mia presenza. Io, con sommessa voce,

            Com'uom, che parla al suo maggiore, e pensa

50      Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,

            Risposi: Allor ch'io l'amorose e vere

            Note leggea, che a me dettasti prime,

            E novissime furo; e la dolcezza

            De l'esser teco presentia, chi detto

55      M'avria che tolto m'eri! E quando in caldo

            Scritto gli affetti del mio cor t'apersi,

            Che non saria da gli occhi tuoi veduto,

            Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo

            Di te nutrissi desiderio, il pensa.

60      E come il pellegrin, che d'amor preso

            Di non vista città, ver quella move;

            E quando spera che la meta il paghi

            Del cammin duro e lungo, e fiso osserva

            Se le torri bramate apparir veggia;

65      E mira più da presso i fondamenti

            Per crollo di tremuoto in su rivolti,

            E le porte abbattute, e fòri e case

            Tutto in ruina inospital converso;

            E i meschini rimasti interrogando,

70      Con pianto ascolta raccontar dei pregi

            E disegnar dei siti; a questo modo

            Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti

            Di retto acuto senno, d'incolpato

            Costume, e d'alte voglie, ugual, sincero,

75      Non vantator di probità, ma probo:

            Com'oggi al mondo al par di te nessuno

            Gusti il sapor del beneficio, e senta

            Dolor de l'altrui danno. Egli ascoltava

            Con voltosuperbomodesto.

80      Io rincorato proseguia: Se cura,

            Se pensier di quaggiù vince l'avello

            Certo so ben che il duol t'aggiunge e il pianto

            Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,

            Te perdendo, ha perduto. E se possanza

85      Di pietoso desio t'avrà condotto

            Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto

            Grondar la stilla del dolor sul primo

            Bacio materno. Io favellava ancora,

            Quand'ei l'umido ciglio e le man giunte

90      Alzando inver lo loco onde a me venne,

            Mestamente sorrise, e: Se non fosse

            Ch'io t'amo tanto, io pregherei che ratto

            Quell'anima gentil fuor de le membra

            Prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo

95      Di Quei, ch'eterna ciò che a Lui somiglia.

            Ché finch'io non la veggo, e ch'io son certo

            Di mai più non lasciarla, esser felice

            Pienamente non posso. A questi accenti

            Chinammo il volto, e taciti ristemmo:

100    Ma per gli occhi d'entrambi il cor parlava.

            Poi che il pianto e i singulti a le parole

            Dieder la via, ripresi: A le sue piaghe

            Sarà dittamo e latte il raccontarle

            Che del tuo dolce aspetto io fui beato,

105    E ridirle i tuoi detti. Ora, per lei

            Ten prego, dammi che d'un dubbio fero

            Toglierla io possa. Allor che de la vita

            Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto

            Di possanza vital feceti a gli occhi

110    Il dardo balenar che ti percosse?

            O pur ti giunse impreveduto e mite?

            Come da sonno, rispondea, si solve

            Uom, che né bramatimor governa,

            Dolcemente così dal mortal carco

115    Mi sentii sviluppato; e volto indietro,

            Per cercar lei, che al fianco mio mi stava,

            Più non la vidi. E s'anco avessi innanzi

            Saputo il mio morir, per lei soltanto

            Avrei pianto, e per te: se ciò non era,

120    Che dolermi dovea? Forse il partirmi

            Da questa terra, ov'è il ben far portento,

            E somma lode il non aver peccato?

            Dove il pensier da la parola è sempre

            Altro, e virtù per ogni labbro ad alta

125    Voce lodata, ma nei cor derisa;

            Dov'è spento il pudor; dove sagace

            Usura è fatto il beneficio, e brutta

            Lussuria amor; dove sol reo si stima

            Chi non compie il delitto; ove il delitto

130    Turpe non è, se fortunato; dove

            Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.

            Dura è pel giusto solitario, il credi,

            Dura, e pur troppo disegual, la guerra

            Contra i perversi affratellati e molti.

135    Tu, cui non piacque su la via più trita

            La folla urtar che dietro al piacer corre

            E a l'onor vano e al lucro; e de le sale

            Al gracchiar voto, e del censito volgo

            Al petulante cinquettio, d'amici

140    Ceto preponi intemerati e pochi,

            E la pacata compagnia di quelli

            Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,

            Segui tua strada; e dal viril proposto

            Non ti partir, se sai. Questa, risposi,

145    Qualsia favilla, che mia mente alluma,

            Custodii, com'io valgo, e tenni viva

            Finor. Né ti dirò com'io, nodrito

            In sozzo ovil di mercenario armento,

            Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto

150    De l'insipida stoppia, il viso torsi

            Da la fetente mangiatoia; e franco

            M'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.

            Come talor, discepolo di tale,

            Cui mi saria vergogna esser maestro,

155    Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso

            Di tanto amor, che mi parea vederli

            Veracemente, e ragionar con loro.

            Né l'orecchio tuo santo io vo' del nome

            Macchiar de' vili, che oziosi sempre,

160    Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro

            L'operosa calunnia. A le lor grida

            Silenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo.

            Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;

            Ond'io lieve men vado a mia salita,

165    Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,

            Se di te vero udii che la divina

            De le Muse armonia poco curasti.

            Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque

            Di chiaro esempio, o di veraci carte

170    Giovasse altrui, fu da me sempre avuto

            In onor sommo. E venerando il nome

            Fummi di lui, che ne le reggie primo

            l'orma stampò de l'italo coturno:

            E l'aureo manto lacerato ai grandi,

175    Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;

            E di quel, che sul plettro immacolato

            Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.

            Cui, di maestro a me poi fatto amico,

            Con reverente affetto ammirai sempre

180    Scola e palestra di virtù. Ma sdegno

            Mi fero i mille, che tu vedi un tanto

            Nome usurparsi, e portar seco in Pindo

            L'immondizia del trivio e l'arroganza

            E i vizj lor; che di perduta fama

185    Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso

            Far di lodi mercato e di strapazzi.

            Stolti! Non ombra di possente amico,

            Né lodator comprati avea quel sommo

            D'occhi cieco, e divin raggio di mente,

190    Che per la Grecia mendicò cantando.

            Solo d'Ascra venian le fide amiche

            Esulando con esso, e la mal certa

            Con le destre vocali orma reggendo:

            Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,

195    E Rodi a Smirna cittadin contende:

            E patria ei non conosce altra che il cielo.

            Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli

            Sopravissuti, oscura e disonesta

            Canizie attende. E tacque; e scosso il capo,

200    E sporto il labbro, amaramente il torse,

            Com'uom cui cosa appare ond'egli ha schifo.

            Gioja il suo dir mi porse, e non ignota

            Bile destommi; e replicai: Deh! vogli

            La via segnarmi, onde toccar la cima

205    Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,

            Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.

            Sentir, riprese, e meditar: di poco

            Esser contento: da la meta mai

            Non torcer gli occhi: conservar la mano

210    Pura e la mente: de le umane cose

            Tanto sperimentar, quanto ti basti

            Per non curarle: non ti far mai servo:

            Non far tregua coi vili: il santo Vero

            Mai non tradir: né proferir mai verbo,

215    Che plauda al vizio, o la virtù derida.

            O maestro, o, gridai, scorta amorosa,

            Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio

            Non mi sia spento; a governar rimani

            Me, cui natura e gioventù fa cieco

220    L'ingegno, e serva la ragion del core.

            Così parlava e lagrimava: al mio

            Pianto ei compianse, e: Non è questa, disse,

            Quella città, dove sarem compagni

            Eternamente. Ora colei, cui figlio

225    Se' per natura, e per eletta amico,

            Ama ed ascolta, e di filial dolcezza

            L'intensa amaritudine le molci.

            Dille ch'io so, ch'ella sol cerca il piede

            Metter su l'orme mie; dille che i fiori,

230    Che sul mio cener spande, io gli raccolgo

            E gli rendo immortali; e tal ne tesso

            Serto, che sol non temeràbruma,

            Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora

            De le sue belle lagrime irrorato.

235    Dolce tristezza, amor, d'affetti mille

            Turba m'assalse; e da seder levato,

            Ambo le braccia con voler tendea

            A la cara cervice. A quella scossa,

            Quasi al partir di sonno io mi rimasi;

240    E con l'acume del veder tentando

            E con la man, solo mi vidi; e calda

            Mi ritrovai la lacrima sul ciglio.

 

XIV

A PARTENEIDE

[1809-1810]

 

            E tu credesti che la vista sola

            Di tua casta bellezza innamorarmi

            Potente non saria, che anco del suono

            Di tua dolce parola il cor mi tenti,

5          Vergine Dea? Col tuo secondo Duca

            Te vidi io prima, e de le sacre danze

            O dimentica o schiva; e pur sì franco,

            Sì numeroso il portamento e tanto

            Di rosea luce ti fioriva il volto,

10      Che Diva io ti conobbi, e t'adorai.

            Ed ei sì lieto ti ridea, sì lieta

            D'amor primiero ti porgea la destra,

            Di sì fidata compagnia, che primo

            Giurato avrei che per trovarti ei l'erta

15      Superasse de l'Alpe, ei le tempeste

            Affrontasse del Tuna, e tremebondo

            Da la mobil Vertigo, e da l'ardente

            Confusion battuto, in sul petroso

            Orlo giacesse. Entro il mio cor fean lite

20      Quegli avversarj che van sempre insieme,

            Riverenza ed Amor: ma pur sì pio

            Aprivi il riso, e non so che di noto

            Mi splendea ne' tuoi guardi, che Amor vinse,

            E m'appressai securo. E quel cortese,

25      Di cui cara l'immago ed onorata

            Sarammi infin che la purpurea vita

            M'irrigherà le vene, a me rivolto,

            Con gentil piglio la tua man levando,

            Fea d'offrirmela cenno. Ond'io più baldo

30      La man ti stesi; ma tremò la mano

            E il cor: ché tutto in su la fronte allora

            Vidi il dio sfolgorarti e tosto in mente

            Chi sei mi corse, ed in che pura ed alta

            Aria nutrita, ed a che scorte avvezza.

35      Mesto allor la tua vista abbandonai;

            Ma l'inquieto immaginar, che sempre

            Benché d'alto caduto in alto aspira,

            Sovra l'aspro sentiero a vol si mosse

            Del tuo viaggio, e a te fidato, al sommo

40      Stette de l'Alpe, e si librò securo

            Sovra i vestigj e i desiderj umani.

            Poi riverito il tuo celeste nido,

            Di pensiero in pensier, di monte in monte,

            Seguitando il desio, ver la mia sacra

45      Terra drizzai le penne, ed i cognati

            Reti giganti valicando, alfine

            Vidi l'Orobia valle. Ivi un portento

            Al mio guardar s'offerse: una indistinta

            Aeria forma or si movea qual pura

50      Nuvoletta d'argento, ed or di neve

            Fiocco parea che un bel cespuglio vesta.

            Ma pur l'immagin bella e fuggitiva

            Tanto con l'occhio seguitai, che vera

            Alfin m'apparve, a te simile alquanto,

55      Vergintoccaveduta ancora,

            E d'immortal concepimento anch'ella.

            Non tenea scettro, non cingea corona

            Se non di fiori; e sol di questi vaga,

            Fra i color mille, onde splendea distinta

60      La verdissima piaggia, or la viola,

            Or la rosa sceglieva, or l'amaranto,

            Tal che Matelda rimembrar mi feo,

            Qual la vide il divin nostro Poeta

            Ne l'alta selva da lui sol calcata.

65      Ed ecco alfin, del mio venire accorta,

            Volger le luci al pellegrin parea

            Piene di maraviglia, e la rosata

            Faccia levando, mi parea guardarlo,

            E sorridere a lui come si suole

70      Ad aspettato. E quando io, de la diva

            Bellezza innebriato e del gentile

            Atto, con l'ali de la mente a lei

            Appressarmi tentai, se udir potessi

            Come in cielo si parla, affaticate

75      Caddero l'ali de la mente, e al guardo

            Tacque la bella vision. Ma sempre

            Da quel momento la memoria al core

            Di lei ragiona. E quando in sul mattino

            Leve lo spirto dal sopor si scioglie

80      (Allor per l'aria de' pensier celesti

            Libero ei vola, e da le basse voglie

            De la vita mortal quasi il divide

            Un deserto d'oblio), sempre in quell'ora,

            Più che mai bella, quella eterea Virgo

85      Mi vien dinnanzi. Or d'oro e d'onor vani

            Nessun mi parli; un solo amor mi regge,

            Sola una cura: degli Orobj dorsi

            Rivisitar l'asprezza, e questa Diva,

            Deh mel consenta!, accompagnar primiero

90      Per le italiche ville pellegrina.

            Che se l'evento il mio sperar pareggia,

            Se né la vita né l'ardir mi falla,

            Forse, più ardito condottier già fatto,

            Te piglierò per mano; e come io valgo,

95      Maraviglia gentile a la mia sacra

            Italia io mostrerotti, a quell’augusta

            D'uomini Madre e d'intelletti, augusta

            Di memorie nutrice e di speranze.

 





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