TOMO
SECONDO
CAPITOLO I
DIGRESSIONE. LA SIGNORA
Avendo posto in fronte a questo scritto il titolo di storia, e fatto
creder così al lettore ch'egli troverebbe una serie continua di fatti, mi trovo
in obbligo di avvertirlo qui, che la narrazione sarà sospesa alquanto da una
discussione sopra principj; discussione la quale occuperà probabilmente un buon
terzo di questo capitolo. Il lettore che lo sa potrà saltare alcune pagine per
riprendere il filo della storia: e per me lo consiglio di far così: giacché le
parole che mi sento sulla punta della penna sono tali da annojarlo, o anche da
fargli venir la muffa al naso.
La discussione viene all'occasione della osservazione seguente che mi fa
un personaggio ideale.
— I protagonisti di questa storia, — dic'egli, — sono due innamorati;
promessi al punto di sposarsi, e quindi separati violentemente dalle
circostanze condotte da una volontà perversa. La loro passione è quindi passata
per molti stadj, e per quelli principalmente che le danno occasione di
manifestarsi e di svolgersi nel modo più interessante. E intanto non si vede
nulla di tutto ciò: ho taciuto finora ma quando si arriva ad una separazione
secca, digiuna, concisa come quella che si trova nella fine del capitolo
passato, non posso lasciare di farvi una inchiesta: — Questa vostra storia non
ricorda nulla di quello che gl'infelici giovani hanno sentito, non descrive i
principj, gli aumenti, le comunicazioni del loro affetto, insomma non li
dimostra innamorati?
— Perdonatemi: trabocca invece di queste cose, e deggio confessare che
sono anzi la parte la più elaborata dell'opera: ma nel trascrivere, e nel
rifare, io salto tutti i passi di questo genere.
— Bella idea! e perché, se v'aggrada?
— Perché io sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve
scrivere d'amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa
passione.
— Poffare! nel secolo decimonono, ancora simili idee! Ma i vostri
riguardi sono tanto più strani, in quanto l'amore dei vostri eroi è il più
puro, il più legittimo, il più virtuoso; e se poteste descriverlo in modo di
eccitarne il consenso, non fareste che far comunicare altrui ad un sentimento
virtuoso.
— Armatevi di pazienza, ed ascoltate. Se io potessi fare in guisa che
questa storia non capitasse in mano ad altri che a sposi innamorati, nel giorno
che hanno detto e inteso in presenza del parroco un sì delizioso, allora
forse converrebbe mettervi quanto amore si potesse poiché per tali lettori non
potrebbe certamente aver nulla di pericoloso. Penso però, che sarebbe inutile
per essi, e che troverebbero tutto questo amore molto freddo, quand'anche fosse
trattato da tutt'altri che dal mio autore e da me; perché quale è lo scritto
dove sia trasfuso l'amore quale il cuor dell'uomo può sentirlo? Ma ponete il
caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d'una vergine non più
acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n'abbia), e di
anguste fortune, la quale perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va
campucchiando, quietamente, e cerca di tenere occupato il cuor suo coll'idea
dei suoi doveri, colle consolazioni della innocenza e della pace, e colle
speranze che il mondo non può dare né torre; ditemi un po' che bell'acconcio
potrebbe fare a questa creatura una storia che le venisse a rimescolare in
cuore quei sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti. Ponete il caso
che un giovane prete il quale coi gravi uficj del suo ministero, colle fatiche
della carità, con la preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli
anni pericolosi che gli rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non
cadere, e non guardando troppo a dritta né a sinistra per non dar qualche
stramazzone in un momento di distrazione, ponete il caso che questo giovane
prete si ponga a leggere questa storia: giacché non vorreste che si pubblicasse
un libro che un prete non abbia da leggere: e ditemi un po' che vantaggio gli
farebbe una descrizione di quei sentimenti ch'egli debbe soffocare ben bene nel
suo cuore, se non vuole mancare ad un impegno sacro ed assunto volontariamente,
se non vuole porre nella sua vita una contraddizione che tutta la alteri.
Vedete quanti simili casi si potrebber fare. Concludo che l'amore è necessario
a questo mondo: ma ve n'ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la
briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne
nascere dove non fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha
bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po' più
negli animi: come sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la
dolcezza, l'indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v'ha mai
eccesso; e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po' più nelle
cose di questo mondo: ma dell'amore come vi diceva, ve n'ha, facendo un calcolo
moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione
della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente l'andarlo
fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso; che se un bel giorno per un
prodigio, mi venissero ispirate le pagine più eloquenti d'amore che un uomo
abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea sulla carta:
tanto son certo che me ne pentirei.
— Ma queste sono idee meschine, pinzocheresche, claustrali, e peggio;
idee che tendono a soffocare ogni slancio d'ingegno, e ben diverse dalle idee
grandi della vera religione...
— La religione ha avuto scrittori del genio il più ardito ed elevato,
pensatori profondi, e pacati ragionatori d'una esattezza scrupolosa, e tutti
tutti questi senza una eccezione hanno disapprovate le opere in cui l'amore è
trattato nel modo che voi vorreste. Oh ditemi di grazia come mai io posso
persuadermi che tutti questi non han saputo conoscere quel che si voglia la
vera religione, e che voi avete trovata senza fatica la verità, dov'essi con
uno studio di tutta la vita non hanno saputo pescare che un errore grossolano?
— Così voi condannate tutti gli scritti...?
— Sono i giudici che condannano: per me vi dico solo il perché io abbia
esclusi tutti quei bei passi da questa storia. Ma se volete dei giudizj, e
delle condanne, voi ne troverete nei casi in cui è lecito anzi bello il
condannare, cioè quando uno giudica se stesso. Vedete quello che hanno pensato
dei loro scritti amorosi quegli scrittori (del cristianesimo intendo) i quali
si sono acquistata fama di grandi, e nello stesso tempo di più castigati.
Vedete per esempio, il Petrarca e Racine.
— Il Petrarca viveva in tempi...
— Non parliamo del Petrarca, perché io spero che leggeremo presto intorno
a lui il giudizio d'un uomo il quale ne dirà, quello che né voi né io non
giungeremmo a trovare. Vi tratto, come vedete, senza cerimonie, perché siete un
personaggio ideale.
— Ebbene, Racine. Non è ella cosa convenuta fra tutti gli uomini che
hanno due dita di cervello, e che non sono un secolo indietro dagli altri, che
il pentimento che Racine provò per le sue tragedie è una debolezza degli ultimi
suoi anni, debolezza indegna di quel grande intelletto, debolezza che fa
compassione?
— Vi sono stati due Giovanni Racine. Uno per aver la grazia dei potenti,
adulò in essi apertamente il vizio, ch'egli conosceva per tale, e per
giustificare appunto le sue tragedie, beffò degli uomini pei quali aveva in
cuor suo un rispetto sentito, e sostituì gli scherni personali ai ragionamenti
per evitare la quistione: punse acerbamente quanto potè ed umiliò con epigrammi
stizzosi certi tali, che non la natura certo, ma il giudizio di una gran parte
del pubblico aveva fatti suoi emoli; e nello stesso tempo si rose internamente,
si accorò, perdette la sua pace ad ogni critica che sentiva fare delle sue
opere: tormentato e tormentatore pei meschini interessi della letteratura, e
della sua letteratura. Questi è quel Giovanni Racine che scriveva rime d'amore.
L'altro, viveva ritirato tranquillamente nel seno della sua famiglia: se
non si allontanò affatto dai potenti, almeno parlò ad essi (caso raro, quasi
unico in quei tempi) delle miserie degli uomini che essi avrebbero dovuto
sollevare, o non creare: non solo non cercava più gli applausi, non solo non
provocava le lodi degli amici, ma le sentiva con dolore: non solo non si
arrovellava ad ogni critica; ma quando un uomo non provocato lo fece segno ad
un pubblico insulto, non se ne lagnò, e invece di ricevere scuse, rispose con
ringraziamenti. Egli che era stato cortigiano nella sua giovinezza, rifiutò di
sedere alla mensa di un principe per non privare i suoi figli della sua
compagnia. In pace con sè, col genere umano, e coi letterati, egli trascorse
vent'anni libero da quelle passioni che avevano agitata la sua prima età, e non
si può proprio dire per questo che fosse rimbambito, poiché scrisse «Atalia».
Questi è quel Giovanni Racine, che si pentiva di avere scritte rime d'amore.
Che di questi due uomini il debole fosse il secondo, si può certamente dire, se
ne dicono tante! ma per me, non posso persuadermene.
— Dunque secondo voi, aveva ragione di pentirsi: dunque se non fosse
rimasto che un esemplare delle tragedie amorose di Racine, se questo esemplare
fosse stato in vostra mano, se Racine ve lo avesse chiesto per abbruciarlo, per
privare la posterità d'un tale monumento d'ingegno, voi avreste...? non ardisco
quasi interrogarvi.
— Io glielo avrei dato subito perché quel brav'uomo potesse aver la
soddisfazione di gettarlo sul fuoco. Come! voi credete che si sarebbe dovuto
esitare a togliergli dal cuore questa spina? Gliel avrei dato subito, perché il
dispiacere ragionato, serio, riflessivo, nobile di Racine era un sentimento più
importante, che non sia stato e non sia per essere il piacere che hanno dato e
che sono per dare le sue tragedie fino alla consumazione dei secoli.
— Queste sono ciarle; ma avete pensato che con questi stralci voi vi
andate scemando sempre più il numero de' lettori; e che se avrebbero potuto
essere centinaja, sa il cielo se li conterete a dozzine?
— Voi mi ci fate pensare; ma, a dir vero, non arrivo a sentire la forza
di questo inconveniente.
— Ma voi volete privarvi volontariamente dei mezzi più potenti di dilettare,
di quei mezzi che anche in mano della mediocrità possono talvolta produrre un
grande effetto?
— Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe
d'uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la
più servile, l'ultima delle professioni. E vi confesso che troverei qualche
cosa di più ragionevole, di più umano, e di più degno nelle occupazioni di un
montambanco che in una fiera trattiene con sue storie una folla di contadini:
costui almeno può aver fatti passare qualche momenti gaj a quelli che vivono di
stenti e di malinconie; ed è qualche cosa. Ma, per non ingannarvi, avvertite
che in tutte queste ciarle che abbiam fatte finora, non abbiam detto nulla o
quasi nulla sul fondo della quistione. Voi non lo avete toccato; ed io sono
rimasto, rispondendovi, in quella sfera dove vi siete posto: abbiam ciarlato di
fuori, come si usa. Che se volete veder qualche cosa sul fondo della quistione,
andate di grazia a quegli scrittori di cui abbiam fatto cenno; o pure pensateci
un po' seriamente voi stesso.
— Pensarci? Per giungere a queste belle conseguenze? Sappiate che, a
porre insieme le idee di un Vandalo e d'una donnicciuola...
— Sparisci; e torniamo alla storia.
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Dove siamo? Il nostro autore non lo dice, anzi protesta di non volerlo
dire. Abbiam già avvertito che delle due classi fra le quali era divisa la
società al suo tempo, di circospetti cioè e di facinorosi, d'uomini che
avevano, e d'uomini che facevano paura, egli apparteneva alla prima. La sua
timida discrezione raddoppia però a questo punto della narrazione: e il
progresso della narrazione stessa ne fa vedere il motivo. Le avventure di Lucia
nel suo novello soggiorno si trovano implicate con intrighi tenebrosi,
rematici, misteriosi, terribili, di persone che deggiono essere state potenti,
e imparentate assai: e l'autore si scopre impacciato tra il desiderio di
raccontare quello che sa, e il terrore di offendere di quelle famiglie il
mormorare contra le quali era un peccato punito in questo mondo. Quindi egli va
col calzare del piombo, e narrando i fatti, sopprime tutte le indicazioni che
potrebbero servir di filo a trovar le persone, e fra queste indicazioni anche
quella del luogo. Ma in questa parte almeno egli non è stato destro abbastanza,
e noi possiamo annunziare senza timore d'ingannarci il luogo dove si è fermata
Lucia: poiché l'autore senza avvedersene ci ha dato un filo che condurrebbe
alla scoperta anche un ragazzo. Egli dice in un passo del suo racconto che
Lucia giunse ad un borgo nobile e antico al quale di città non mancava che il
nome; altrove parla del Lambro che vi scorre: altrove ancora dice che v'era un
arciprete: con queste indicazioni non v'ha in Europa uomo che sappia leggere e
scrivere, il quale tosto non esclami: Monza.
La madre e la figlia si trovavano dunque, dopo la partenza di Fermo,
solette in una osteria di Monza, senza alcuna pratica del paese, senza alcuna
conoscenza, non avendo in così alto mare altra bussola che la lettera del Padre
Cristoforo. La lettera era diretta al Padre Guardiano dei Cappuccini. Agnese
chiese conto del convento alla moglie dell'albergatore; la quale non lo diede
che dopo aver tentata ogni via per avere un pagamento anticipato di un così
picciol servizio, in tante informazioni, sul nome e sulla qualità delle donne,
sui motivi del loro viaggio, sugli affari che potevano avere col Padre
Guardiano. Ma le donne, alle quali era stato dal loro protettore raccomandata
la discrezione, seppero ingannare le ricerche della ostessa, la quale fu
obbligata di insegnar loro gratuitamente la via del convento. Si mossero quindi
tosto benché dovessero risentirsi del travaglio della notte e del giorno
antecedente: la lepre cacciata non sente la stanchezza che quando ha trovato un
ricovero.
Agnese a cui l'aspetto di Monza non era nuovo perché v'era passata molti
anni addietro, né imponente perché aveva soggiornato a Milano, camminava
francamente guidando e incoraggiando Lucia, la quale andava rasente il muro
tutta sospettosa. Girando di via in via, e ad ogni rivolta di canto trovando
ancora vie e case, era Lucia colpita da una maraviglia mista di non so quale
afa, come chi vede una brutta grandiosità. Ma il sentimento predominante di
accoramento e di terrore non le dava campo di esprimere quello che allora
provava, né di provarlo distintamente e con forza. Giunte alla porta del
convento, tirarono il campanello, e al portinajo che sopravvenne chiesero del
padre guardiano al quale avevano una lettera da consegnare. Quando Lucia vide
una tonaca cappuccinesca le parve di essere in paese conosciuto, e si riebbe
alquanto. Il padre guardiano non si fece aspettare, salutò le donne, prese la
lettera dalle mani di Agnese, e veduta la soprascritta, disse con una voce che
annunziava la compiacenza: «Oh! il mio Padre Cristoforo». Il Padre Cristoforo
era stato suo collega nel noviziato; e d'allora in poi essi avevano contratta
una amicizia da chiostro, voglio dire una amicizia cordiale, intima più che
fraterna, simile a quelle che si narrano di qualche pajo d'uomini
dell'antichità, di quelle che si formano in tutte le società separate con
vincoli particolari dalla società universale degli uomini. Queste frazioni,
questi crocchj creano fra tutti i membri che li compongono un vincolo
particolare d'interessi, di amor proprio comune e di benevolenza, vincolo
talvolta debole assai e che non basta ad impedire odj accaniti e mortali, ma
forte però abbastanza per contenere gli odj nell'interno della picciola
società, e per dare a quegli stessi che si odiano una apparenza, e una condotta
da amici ogni volta che essi si trovino in contrasto cogli estranei. Quando poi
una conformità di sentimenti e di inclinazioni, crea fra due individui di
queste società una benevolenza particolare ella è tanto più forte quanto più
essi si sono scelti in un picciol numero già separato dal resto degli uomini.
Il padre guardiano aperse la lettera, e di tempo in tempo alzava gli
occhj dal foglio e guardava Lucia e la madre con aria di compassione e
d'interessamento.
Quand'ebbe terminato, crollò alquanto il capo, pensò, passò la mano sul
mento barbuto, e quindi sulla fronte, e disse, come chi spera di aver trovato
quello di che aveva bisogno: «Non c'è altri che la Signora: se la Signora vuol
pigliarsi l'impegno...» Fece quindi a bassa voce ad Agnese alcune
interrogazioni alle quali ella soddisfece, indi domandò: «Volete seguirmi? Io
spero di aver trovato ove collocare in sicuro questa buona ragazza». Le donne
si disser pronte a far tutto ciò che sarebbe da lui suggerito: e il padre:
«venite con me» disse; «statemi soltanto alcuni passi addietro; perché, vedete,
il paese è maligno, e Dio sa quante storie si farebbero se si vedesse il padre
guardiano con una bella giovane, voglio dire con donne per la via». Lucia
arrossì, e con la madre tenne dietro al guardiano alla distanza ch'egli aveva
indicata. Giunti al monastero, il guardiano si fermò sulla soglia, le aspettò,
e raccomandatele alla moglie del fattore la quale le introdusse in una
stanzetta che dava sulla via, progredì nel cortile promettendo di tornare a
momenti.
L'interrogatorio della fattora fu come doveva essere, più imperioso, più
astuto, più pressante d'assai che non fosse stato quello dell'albergatrice; e
Agnese schermendosi a stento, andava già componendo una filastrocca nella sua
mente, perché vedeva di non potersi sbrigare senza raccontar qualche cosa,
quando per buona sorte, ritornò il padre guardiano con faccia giuliva ad
annunziare alle donne che la Signora si degnava riceverle. La fattora le lasciò
partire guardando con dispetto il guardiano ch'era venuto a farle fuggir di
mano una preda che stava per cadere nel laccio.
Attraversando il cortile, il guardiano addottrinò le donne sul modo da
tenersi colla Signora: «Siate umili, e riverenti, raccomandatevi alla sua
protezione, rispondete con semplicità alle interrogazioni ch'ella sarà per
farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me».
Agnese e Lucia stavano in grande aspettazione, mista di speranza, e di
pensiero di questa Signora: ma non ardirono nemmeno domandare al padre chi ella
fosse: probabilmente un lettore di questi tempi non sarà così modesto, e per
prevenire la sua impazienza è forza dirgli chi fosse la Signora; ma, come si
usa con chi vuol troppo pressare, si potrà dargli una risposta, la quale
sembrando soddisfare a tutta la sua inchiesta, contenga però solo quel tanto
che non si potrebbe tacere.
Era la Signora una giovane donna, uscita di sangue principesco che era
stata posta dall'adolescenza in quel monistero, e vi aveva assunto il velo, e
fatta la professione. Aveva essa l'incarico di vegliare sulle fanciulle che
erano nel monistero per educazione, e il suo titolo sarebbe stato, maestra
delle educande; ma per la sua nascita, per le parentele, e per la superiorità
che queste le davano sulle altre sorelle, non era chiamata con altro nome che
di Signora; ed era da tutte riguardata, come la protettrice, la donna principe
del monistero; e con una distinzione unica, due suore erano destinate ai suoi
servigi ed abitavano seco lei in un picciolo quartiere ch'ella teneva invece di
cella.
La sua protezione e la sua influenza si estendeva fuori delle mura del
monistero; e i cappuccini i quali di generazione in generazione, o per meglio
dire di vestizione in vestizione, erano ab immemorabili in rapporto di
amicizia col monistero, godevano essi pure di questa protezione. Ecco perché il
padre guardiano fece tosto assegnamento su la Signora, ed ecco perché Lucia è
condotta ora dinanzi a lei.
Dal cortile si entrò in una stanza terrena, e da questa si passava al
parlatorio; prima di porvi il piede il guardiano, accennando la porta aperta
disse sottovoce alle donne: «qui è la Signora», come per farle rissovenire di
tutti gli avvertimenti che dovevano seguire. Lucia non aveva mai veduto un
monistero: ponendo tutta timorosa il piede sulla soglia del parlatorio, si
guardò intorno per vedere dove fosse la Signora a cui si doveva fare l'inchino,
e non iscorgendo persona, stava come smemorata, quando osservando il padre che
andava ritto verso una parte, e Agnese che lo seguiva, guatò, e vide un
pertugio alto la metà d'una finestra, e largo quasi il doppio con una doppia
grata la quale togliendo ogni passaggio alla stanza vicina, la lasciava però
quasi tutta vedere, e presso alla grata vide la Signora in piedi, e le
s'inchinò profondamente come avevano già fatto gli altri due.
L'aspetto della Signora, d'una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e
direi quasi un po' conturbata, ma singolare, poteva mostrare venticinque anni.
Un velo nero teso orizzontalmente sopra la testa scendeva a dritta e a manca
dietro il volto, sotto il velo una benda di lino stringeva la fronte, al mezzo;
e la parte che si vedeva diversamente ma non meno bianca della benda sembrava
un candido avorio posato in un nitido foglio di carta: ma quella fronte liscia
ed elevata si corrugava di tratto in tratto quando due nerissimi sopracigli si
riavvicinavano per tosto separarsi con un rapido movimento. Due occhi pur
nerissimi si fissavano talvolta nel volto altrui con una investigazione
dominatrice, e talvolta si rivolgevano ad un tratto come per fuggire: v'era in
quegli occhi un non so che d'inquieto e di erratico, una espressione istantanea
che annunziava qualche cosa di più vivo, di più recondito, talvolta di opposto
a quello che suonavano le parole che quegli sguardi accompagnavano. Le guance
pallidissime, ma delicate scendevano con una curva dolce ed eguale ad un mento
rilevato appena come quello d'una statua greca. Le labbra regolarissime,
dolcemente prominenti, benché colorate appena d'un roseo tenue, spiccavano pure
fra quel pallore; e i loro moti erano, come quelli degli occhi, vivi,
inaspettati, pieni di espressione e di mistero. Una gorgiera bianca, increspata
lasciava intravedere una striscia di collo bianco e tornito: la nera cocolla
copriva il rimanente dell'alta persona, ma un portamento disinvolto, risoluto,
rivelava o indicava, ad ogni rivolgimento, forme di alta e regolare
proporzione. Nel vestire stesso v'era qua e là qualche cosa di studiato, o di
negletto, di stranio insomma che osservato in uno colla espressione del volto
dava alla Signora l'aspetto di una monaca singolare. La stoffa della cocolla e
dei veli era più fine che non s'usasse a monache, il seno era succinto con un
certo garbo secolaresco, e dalla benda usciva sulla tempia manca l'estremità
d'una ciocchetta di nerissimi capegli; il che mostrava o dimenticanza o
trascuraggine di tener secondo la regola, sempre mozze le chiome già recise
nella cerimonia solenne della vestizione.
Questa stessa singolarità si faceva osservare nei moti, nel discorso nei
gesti della Signora. S'alzava ella talora con impeto a mezzo il discorso, come
se temesse in quel momento di esser tenuta, e passeggiava pel parlatorio;
talvolta dava in risa smoderate, talvolta levando gli occhi, senza che se ne
intendesse una cagione, prorompeva in sospiri; talvolta dopo una lunga e
manifesta distrazione, si risentiva, ed approvava con negligenza ragionamenti
che la sua mente non aveva avvertiti.
Queste cose non si facevano scorgere a Lucia non avvezza a scernere
monaca da monaca, e neppure ad Agnese: l'occhio del padre guardiano era
certamente più esercitato, ma perciò appunto era avvezzo ad osservare senza
maraviglia nei grandi sempre qualche cosa di straordinario; e quindi s'era già
da molto tempo addomesticato all'abito e ai modi della Signora. Ma ad un
viaggiatore che l'avesse veduta per la prima volta ella avrebbe potuto parere
non molto dissimile da una attrice ardimentosa, di quelle che nei paesi
separati dalla comunione cattolica facevano le parti di monaca in quelle
commedie dove i riti cattolici erano soggetto di beffa e di parodia caricata.
In quel momento ella era, come abbiamo detto, ritta in piedi, presso la
grata, appoggiata ad essa mollemente con una mano, intrecciando le bianchissime
dita nei fori di quella, e colla faccia alquanto curvata osservando quelli che
si presentavano, e specialmente Lucia.
«Reverenda madre, e signora illustrissima», disse il padre guardiano
colla fronte bassa, e con la destra tesa sul petto; «ecco quella innocente
derelitta, per la quale imploro la valida sua protezione». E sulle ultime parole
accennava alle donne che accompagnassero con atti e con inchini la sua
supplicazione; la povera Agnese dopo d'aver fatto al padre un cenno del volto
che voleva dire: — so quel che va fatto — raddoppiava gl'inchini,
rannicchiandosi, e risorgendo come se una molla interna la facesse muovere, e
Lucia s'inchinò pure, da inesperta, ma con una certa grazia che la bellezza, la
giovinezza, e la purità dell'animo danno a tutti i movimenti. La Signora curvò
leggermente il capo verso il padre guardiano, fece alle donne cenno della mano
che bastava, e ch'ella gradiva i loro complimenti, fece a tutti cenno di
sedersi, sedette e sempre rivolta al padre, rispose: «Ho appreso dai miei
antenati a non negare la mia protezione a chiunque la meriti: io non ho da essi
ereditato che il nome; e son lieta che anche questo possa almeno essere buono a
qualche cosa. È una buona ventura per me il potere render servizio a' nostri
buoni amici i padri cappuccini». Queste parole furono accompagnate da un
sorriso che ad altri avrebbe potuto parere di compiacenza, ad altri di scherno.
Il Padre guardiano si faceva a render grazie, ma la Signora lo interruppe: «Non
mica complimenti, padre guardiano; i servigj fatti agli amici hanno con sè il
loro guiderdone; e del resto ad ogni evento io non dubiterei di far conto sul
ricambio dei nostri buoni padri. Il mondo è pieno di tristi e d'invidiosi: e
nessuno può assicurarsi che non venga un momento in cui possa aver bisogno di
una buona testimonianza, e d'ajuto».
Il guardiano rispose premurosamente con una frase di gesti: la prima
parte della quale significava che la Signora non avrebbe mai bisogno di
nessuno, e la seconda che i padri avrebbero tenuta a guadagno ogni occasione di
far cosa grata alla Signora. Questa proseguì: «Ma via; mi dica un po' più
particolarmente il caso di questa giovane, e così si vedrà meglio che si possa
fare per essa».
Lucia arrossò tutta, e chinò la faccia sul seno. «Deve sapere, reverenda
madre», cominciò Agnese, «che questa mia povera figliuola, perché io sono sua
madre...»
Il guardiano le gittò un'occhiata e interruppe.
«Questa giovane, signora illustrissima, mi è raccomandata da un mio
confratello: essa ha bisogno per qualche tempo di un asilo nel quale possa
stare sconosciuta, o nel quale nessuno ardisca toccarla; e questo per sottrarsi
a dei gravi pericoli».
«Pericoli!» disse la Signora. «Quali pericoli? di grazia, padre
guardiano. Mi dica la cosa per minuto: ella sa che noi altre monache siamo
vaghe d'intendere storie».
«Sono», rispose il padre, «pericoli dei quali la reverenda madre, non
conosce nemmeno il nome, beata lei! e parlarne più distintamente sarebbe
offendere le purissime vostre orecchie, e contristare l'illibatezza dei vostri
pensieri, signora illustrissima».
«Oh! certamente!» rispose precipitosamente la signora, senza molto badare
all'aggiustatezza della risposta; e si fece tutta di porpora. Era verecondia?
Chi avesse osservata una subitanea ma viva espressione di scherno e di dispetto
che accompagnò quel rossore avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se lo avesse
paragonato con quello che di tratto in tratto saliva sulle guance di Lucia.
La Signora si alzò in fretta, come per avvicinarsi più alle donne, e
stava per rivolgere il discorso a Lucia, quando il guardiano, tenendo di non
aver mal detto, ripigliò così il discorso: «Non tutti i grandi del mondo, si
servono dei doni di Dio a gloria di lui, e a vantaggio del prossimo, come fa la
Signora illustrissima. Un cavaliere prepotente e senza timor di Dio, ha tentato
ogni via, giacché deggio pur dirlo, per insidiare la castità di questa
creatura, e dopo d'aver veduto che i mezzi di lusinga gli andavano falliti, non
temè di ricorrere alla forza aperta, tentando... insomma di farla rapire. Ma
Dio non l'ha lasciata cadere in quei sozzi artigli, e le ha invece preparato un
ricovero sotto le ale incontaminate...»
«Ma voi», disse la Signora rivolta repentinamente a Lucia, «voi che dite
di codesto signore? A voi tocca a dirci se egli era un persecutore, e se aveva
gli artigli sozzi».
«Signora, madre, illustrissima», balbettò Lucia che sarebbe stata confusa
a dover rispondere su questa materia, quando pure l'inchiesta le fosse venuta
da una persona sua pari e conosciuta. Ma Agnese venne in soccorso:
«Illustrissima signora», diss'ella, «il suo parlare è troppo alto per questa
povera figliuola. Ma io posso far testimonio che la mia Lucia aveva in orrore
colui, come il diavolo l'acqua santa; voglio dire, il diavolo era egli; ma ella
mi compatirà se parlo male, perché noi siam gente come Dio vuole; del resto,
questa povera ragazza aveva un giovane che le parlava, un nostro pari, timorato
di Dio, e bene avviato, e se il Signor curato avesse avuto un po' più di
giudizio; so che parlo d'un religioso, ma il padre Cristoforo amico intrinseco
qui del padre guardiano, è religioso al pari di lui, e davantaggio, e potrà
attestare...»
«Voi siete ben pronta a parlare senz'essere interrogata», disse la
Signora, dando sulla voce ad Agnese. «Non so che fare dei parenti che
rispondono pei loro figliuoli». Agnese voleva aprir bocca, ma la signora con
tuono ancor più brusco riprese: «Zitto, zitto; le vostre parole non servono a
nulla». Così dicendo il suo aspetto prendeva sempre più un non so che di
sinistro, di feroce che quasi faceva scomparire ogni bellezza, o almeno la
alterava di modo che chi avesse osservato quel volto in quel punto ne avrebbe
conservata una immagine disgustosa per sempre. I suoi guardi erano fissi sopra
Agnese, torvi e sospettosi, come se cercassero a raffigurare un nemico. E
continuò: «Voi fate conto forse, che perché io son qui rinchiusa, fuori del
mondo, senza esperienza, mi si possa dare ad intender qualunque cosa. Povera
donna! appunto perché son qui, sono men facile ad essere ingannata su certe
materie. Certo, lo sposo che i parenti destinano ad una figlia è sempre un uomo
compito, e il monastero dove la vogliono rinchiudere è così allegro! in così
bella situazione! così tranquillo! è un paradiso! Poveretti! portano invidia
alla loro figlia; vorrebbero anch'essi ritirarsi in quel porto di pace, ah! a
far vita beata: ma... pur troppo sono legati nel mondo. Scusi il mio caldo,
padre, ma ella sa meglio di me, almeno ella deve saper troppo bene come vanno
queste cose, la menzogna la più imperterrita, la più persistente, la più
solenne è quella che sta sul labbro di colui che vuole sagrificare i suoi
figli, e far loro violenza. Questi sono i peccati, contra i quali si dovrebbe
predicare: a costoro bisognerebbe minacciare l'inferno».
A queste parole, la Signora, si pose a sedere tutta turbata, ed ognuno si
sarebbe avveduto che un pensiero che i discorsi di Agnese avevan fatto nascere,
dominava allora la sua mente, e che gli affari di Lucia non erano che un
oggetto di considerazione secondaria.
Agnese intanto rimproverava alla figlia che il suo non saper parlare le
avesse tirata addosso questa tempesta, il guardiano voleva pure animar Lucia a
parlare, ma questa animata già dalla circostanza, si avvicinò alla grata, e in
tuono modesto, ma sicuro disse: «reverenda signora, quanto le ha detto la mia
buona madre è la pura verità. Il giovane che mi parlava», e qui arrossò, «lo
sposava io... di mio genio, mi perdoni se parlo da sfacciata, ma è per
difendere mia madre: e quanto a quel signore...»
«Buona fanciulla», interruppe la Signora con voce raddolcita, «credo un
po' più a voi, ma non vi credo ancora del tutto. Vi ha due linguaggi che si
somigliano; quello che parte dal fondo del cuore, e quello d'una figlia
oppressa che dice il falso per terrore, e protesta di amare ciò ch'ella abborre
più al mondo. Voglio sentirvi da sola a sola. Padre guardiano, se ella
conoscesse per testimonianza degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo
ch'io non istarei ora in dubbio: ma ella non li conosce che per relazione: e
per me, piuttosto che servire alla violenza fatta ad una povera giovane...»
«Il Padre Cristoforo», disse il guardiano, «che mi ha posto nelle mani
questo affare, è uomo tanto oculato, quanto lontano dal favorire una violenza,
ed alla sua asserzione io credo quanto ai miei occhi. Stimo però cosa molto
savia, che la Signora illustrissima, esamini col suo senno consumato questa
faccenda, e spero che l'esame mostrandole la verità dell'esposto, la
determinerà ad accordare il suo appoggio a questa famiglia perseguitata».
«Lo spero», rispose la Signora con una placidezza garbata, e come desiderosa
di far dimenticare il trasporto passato: «lo spero: e quel poco ch'io potrò
fare, prego il padre guardiano di attribuirlo in gran parte alla sua
intromissione. Per ora ecco quello che mi sovviene di poter fare. La fattora
del monistero, ha collocata da pochi giorni l'ultima sua figliuola. Questa
giovane potrà occupare la stanza abbandonata da quella, e supplire ai pochi
servigj ch'ella faceva. Ne parlerò colla madre Badessa, ma da quest'ora, le dò
la cosa per fatta, sempre che Lucia ne sia contenta». Il guardiano proruppe in
ringraziamenti, che la Signora troncò gentilmente, ma lasciando però capire che
ella faceva assegnamento sulla riconoscenza dei cappuccini. Chiamò quindi una
delle monache che le facevano da damigelle, e datele le opportune istruzioni,
disse ad Agnese che andasse alla porta del chiostro, per intendersi con la
monaca e con la fattora, e per andar quindi a disporre l'alloggio che sarebbe
destinato a lei ed a Lucia. Il Padre si congedò, promettendo di ritornare ad
informarsi della decisione: le tre donne furono tosto a consulta; e Lucia
rimase sola con la Signora a subire l'esame.