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Il mio amico ed io non mettemmo testa a partito che il quarto giorno dopo l’arrivo. Eravamo sul ponte, di buon mattino, ancora incerti di quello che avremmo fatto nella giornata, quando Yunk mi propose di fare una prima grande passeggiata, con una meta determinata, coll’animo tranquillo, per osservare e studiare. – Percorriamo, – mi disse, – tutta la riva settentrionale del Corno d’Oro, anche a costo di camminare fino a notte. Faremo colezione in una taverna turca, faremo la siesta all’ombra d’un platano e ritorneremo in caicco. – Accettai la proposta; ci provvedemmo di sigari e di spiccioli, e data un’occhiata alla carta della città, ci avviammo verso Galata.
Il lettore che vuol conoscer bene Costantinopoli faccia il sacrifizio d’accompagnarci.
Arriviamo a Galata. Di qui deve cominciare la nostra escursione. Galata è posta sopra una collina che forma promontorio tra il Corno d’Oro ed il Bosforo, dov’era il grande cimitero dei Bizantini antichi. È la city di Costantinopoli. Son quasi tutte vie strette e tortuose, fiancheggiate da taverne, da botteghe di pasticcieri, di barbieri e di macellai, da caffè greci ed armeni, da ufficii di negozianti, da officine, da baracche; tutto fosco, umido, fangoso, viscoso, come nei bassi quartieri di Londra. Una folla fitta e affaccendata va e viene per le vie, aprendosi continuamente per dar passo ai facchini, alle carrozze, agli asini, agli omnibus. Quasi tutto il commercio di Costantinopoli passa per questo borgo. Qui la Borsa, la Dogana, gli uffici del Lloyd austriaco, quelli delle Messaggerie francesi; chiese, conventi, ospedali, magazzeni. Una strada ferrata sotterranea unisce Galata a Pera. Se non si vedessero per le strade dei turbanti e dei fez, non parrebbe d’essere in Oriente. Da tutte le parti si sente parlar francese, italiano e genovese. Qui i Genovesi sono quasi in casa propria, e si danno ancora un po’ d’aria di padroni, come quando chiudevano il porto a loro piacimento, e rispondevano col cannone alle minaccie degl’Imperatori. Ma della loro potenza non rimangono più altri monumenti che alcune vecchie case sostenute da grossi pilastri e da arcate pesanti, e l’antico edifizio dove risiedeva il Podestà. La Galata antica è quasi interamente sparita. Migliaia di casupole sono state rase al suolo per far luogo a due lunghe strade: una delle quali rimonta la collina verso Pera, e l’altra corre parallela alla riva del mare da un’estremità all’altra di Galata. Per questa c’innoltrammo il mio amico ed io, rifugiandoci ogni momento nelle botteghe per lasciar passare dei grandi omnibus, preceduti da turchi scamiciati che sgombravano la strada a colpi di verga. A ogni passo ci suonava nell’orecchio un grido. Il facchino turco urlava: – Sacun ha! – (Largo!); il saccà armeno, portatore d’acqua: – Varme su! – l’acquaiolo greco: – Crio nero! – l’asinaio turco: – Burada! – il venditore di dolci: – Scerbet! – il venditore di giornali: – Neologos! – il carrozziere franco: Guarda! Guarda! Dopo dieci minuti di cammino, eravamo assordati. A un certo punto, con nostra meraviglia, ci accorgemmo che la strada non era più lastricata, e pareva che il lastrico fosse stato levato di fresco. Ci fermammo a guardare, cercando d’indovinar la cagione. Un bottegaio italiano ci levò la curiosità. Quella strada conduce ai palazzi del Sultano.