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Pochi mesi prima passando di là il corteo imperiale, il cavallo di sua maestà Abdul-Aziz era scivolato e caduto, e il buon Sultano, irritato, aveva ordinato che fosse tolto immediatamente il lastrico dal luogo della caduta fino al suo palazzo. In questo punto memorabile fissammo il termine orientale del nostro pellegrinaggio, e voltate le spalle al Bosforo, ci dirigemmo, per una serie di vicoli tetri e sudici, verso la torre di Galata. La città di Galata ha la forma d’un ventaglio spiegato, e la torre, posta sul culmine della collina, rappresenta il suo perno. È una torre rotonda, altissima, di color fosco, che termina in una punta conica, formata da un tetto di rame, sotto il quale ricorre un giro di larghe finestre vetrate, una specie di terrazza coperta e trasparente, dove giorno e notte vigila una guardia per segnalare il primo indizio d’incendio che apparisca nell’immensa città. Fino a questa torre giungeva la Galata dei Genovesi, e la torre s’innalza appunto sulla linea delle mura che separavano Galata da Pera; mura di cui non rimane più traccia. E neanche la torre non è più l’antica torre di Cristo, eretta in onore dei Genovesi caduti combattendo; poichè la rifabbricò il sultano Mahmut II, ed era già stata prima restaurata da Selim III; ma è pur sempre un monumento incoronato della gloria di Genova, e un Italiano non può contemplarlo, senza pensare con un sentimento d’alterezza a quel pugno di mercanti, di marinai e di soldati, orgogliosamente audaci ed eroicamente cocciuti, che vi tennero su inalberata per secoli la bandiera della madre repubblica, trattando da pari a pari cogl’Imperatori d’Oriente. Appena oltrepassata la torre, ci trovammo in un cimitero musulmano.