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[Tataola]
Attraversammo una seconda volta la piccola valle, e ci trovammo in un altro quartiere greco, Tataola, dove lo stomaco suonando a soccorso, cogliemmo l’occasione per visitare l’interno d’una di quelle taverne innumerevoli di Costantinopoli, che hanno un aspetto singolarissimo, e son tutte fatte ad un modo. È uno stanzone grandissimo, di cui si potrebbe fare un teatro, non rischiarato per lo più che dalla porta di strada, e ricorso tutt’intorno da un alta galleria di legno a balaustri. Da una parte v’è un enorme fornello dove un brigante in maniche di camicia frigge dei pesci, fa girare degli arrosti, rimesta degl’intingoli, e s’adopera in altri modi ad accorciare la vita umana; dall’altra un banco dove un’altra faccia minacciosa distribuisce vino bianco e vino nero in bicchieri a manico; in mezzo e sul davanti, seggiole nane senza spalliera e tavolette poco più alte delle seggiole che rammentano i bischetti dei calzolai. Entrammo un po’ vergognosi perchè v’era un gruppo di greci e d’armeni di bassa lega, e temevamo che ci guardassero con curiosità canzonatoria; ma nessuno invece ci degnò d’un’occhiata. Gli abitanti di Costantinopoli sono, io credo, la gente meno curiosa di questo mondo; bisogna almeno essere Sultani o passeggiar nudi per le strade come il pazzo di Pera, perchè qualcuno s’accorga che siete al mondo. Ci sedemmo in un angolo e stemmo ad aspettare. Ma nessuno veniva. Allora capimmo che nelle taverne costantinopolitane c’è l’uso di servirsi da sè. Andammo prima al fornello a farci dare un arrosto, Dio sa di che quadrupede, poi al banco a prendere un bicchier di vino resinoso di Tenedo, e portato ogni cosa sopra la tavola che ci arrivava al ginocchio, mostrandoci l’un l’altro il bianco degli occhi, si consumò il sacrificio. Pagammo con rassegnazione, e usciti in silenzio per paura che ci uscisse dalla bocca un raglio o un latrato, ripigliammo il nostro viaggio verso il Corno d’Oro.