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Di là, fiancheggiando un grande cimitero mussulmano, che dall'alto della collina di Kassim-pascià scende fino a Ters-Kanè, rimontammo verso settentrione, scendemmo nella valletta di Pialì-Pascià, piccolo sobborgo mezzo nascosto in mezzo alla verzura dei giardini e degli orti; e ci fermammo dinanzi alla moschea che gli dà il nome. È una moschea bianca, sormontata da sei cupole graziose, con un cortile circondato d'archi e di colonnine gentili, un minareto leggerissimo e una corona di cipressi giganteschi. In quel momento tutte le casette circostanti erano chiuse, le strade deserte, il cortile stesso della moschea, solitario; la luce e l'uggia del mezzogiorno avvolgevano ogni cosa; e non si sentiva che il ronzìo dei tafani. Guardammo l'orologio: mancavano tre minuti alle dodici: una delle cinque ore canoniche dei musulmani, in cui i muezzin s'affacciano al terrazzo dei minareti per gridare ai quattro punti dell'orizzonte le formole sacramentali dell'Islam. Sapevamo bene che non c'è minareto in tutta Costantinopoli sul quale, a quell'ora fissa, non comparisca, puntuale come l'automa d'un orologio, l'annunziatore del profeta. Eppure ci pareva strano che anche in quella estremità della città immensa, su quella moschea solitaria, a quell'ora, in quel silenzio profondo, dovesse comparire quella figura e suonare quella voce. Tenni l'orologio in mano, e guardando attentamente la lancetta dei minuti e la porticina del terrazzo del minareto, alta quasi come un terzo piano d'una casa ordinaria, stetti aspettando con viva curiosità. La lancetta toccò il sessantesimo trattino nero, e nessuno comparve. – Non viene ! – dissi. –