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Risalendo da Pialì-Pascià sulla collina, verso occidente, ci trovammo in un vastissimo spazio di terreno brullo, da cui si vedeva tutto il Corno d’Oro e tutta Stambul, dal borgo d’Eyub alla collina del serraglio; quattro miglia di giardini e di moschee, una grandezza e una leggiadria, da contemplarsi in ginocchio come una apparizione celeste. Era l’Ok-meïdan, la piazza delle freccie, dove andavano i Sultani a tirar dell’arco secondo l’uso dei re Persiani. Vi sono ancora sparse, a distanze ineguali, alcune colonnine di marmo, segnate d’iscrizioni, che indicano i punti dove caddero le freccie imperiali. V’è ancora il chiosco elegante, con una tribuna, da cui i sultani tendevano l’arco. A destra, nei campi, si stendeva una lunga fila di pascià e di bey, punti viventi d’ammirazione, coi quali il padiscià rendeva omaggio alla propria destrezza; a sinistra, dodici paggi della famiglia imperiale, che correvano a raccogliere gli strali e a segnare il punto della caduta; intorno, dietro gli alberi e i cespugli, qualche turco temerario venuto per contemplare di nascosto le sembianze sublimi del Gran Signore; e sulla tribuna campeggiava nell’atteggiamento d’un atleta superbo, Mahmut, il più vigoroso arciere dell’impero, di cui l’occhio scintillante faceva curvar la fronte agli spettatori, e la barba famosa, nera come il corvo del Monte Tauro, spiccava di lontano sul grande mantello candido, spruzzato del sangue dei Giannizzeri. Ora tutto è cangiato e diventato prosaico: il Sultano tira colla rivoltella nei cortili del suo palazzo e sull’Ok-meïdan s’esercita al bersaglio la fanteria. Da una parte v’è un convento di dervis, dall’altra un caffè solitario; e tutta la campagna è desolata e malinconica come una steppa.