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E prima d’ogni cosa, la luce! Uno dei miei piaceri più vivi, a Costantinopoli, era di veder levare e tramontare il sole, stando sul ponte della Sultana Validè. All’alba, in autunno, il Corno d’oro è quasi sempre coperto da una nebbia leggiera, dietro alla quale si vede la città confusamente, come a traverso que’ veli bianchi che si calano sul palco scenico per nascondere gli apparecchi d’una scena spettacolosa. Scutari è tutta coperta: non si vedono che i contorni scuri ed incerti delle sue colline. Il ponte e le rive sono deserte, Costantinopoli dorme: la solitudine e il silenzio rendono lo spettacolo più solenne. Il cielo comincia a dorarsi dietro le colline di Scutari. Su quella striscia luminosa si disegnano ad una ad una, precise e nerissime, le punte dei cipressi del vastissimo cimitero, come un esercito di giganti schierati sopra le alture; e da un capo all’altro del Corno d’oro corre un lucicchio leggerissimo che è come il primo fremito della grande città che risente la vita. Poi dietro ai cipressi della riva asiatica, spunta un occhio di foco, e subito le sommità bianche dei quattro minareti di Santa Sofia si colorano di rosa. In pochi momenti, di collina in collina, di moschea in moschea, fino in fondo al Corno d’oro, tutti i minareti, l’un dopo l’altro, arrossiscono, tutte le cupole, una dopo l’altra, s’inargentano, il rossore discende di terrazzo in terrazzo, il lucicchio s’allarga, il gran velo cade, e tutta Stambul appare, rosata e risplendente sulle alture, azzurrina e violacea lungo le rive, tersa e fresca, che pare uscita dalle acque. A misura che il sole s’alza, la delicatezza delle prime tinte svanisce in un immenso chiarore, e tutto rimane come velato dalla bianchezza della luce fin verso sera. Allora lo spettacolo divino ricomincia. L’aria è limpida tanto che da Galata si vedono nettamente uno per uno gli alberi lontanissimi dell’ultima punta di Kadi-Kioi. Tutto l’immenso profilo di Stambul si stacca dal cielo con una nitidezza di linee e un vigore di colori, che si potrebbero contare, punta per punta, tutti i minareti, tutte le guglie, tutti i cipressi che coronano le alture dal capo del Serraglio al cimitero d’Eyub. Il Corno d’oro e il Bosforo pigliano un meraviglioso colore oltramarino: il cielo, color d’amatista a oriente, s’infuoca dietro Stambul, tingendo l’orizzonte d’infiniti lumeggiamenti di rosa e di carbonchio che fanno pensare al primo giorno della creazione; Stambul s’oscura, Galata s’indora, e Scutari, percossa dal sole cadente, tutta scintillante di vetri, pare una città in preda alle fiamme. È questo il più bel momento per contemplare Costantinopoli. È una rapida successione di tinte soavissime, d’oro pallido, di rosa e di lilla, che tremolano e fuggono su per i fianchi dei colli e sulle acque, dando e togliendo ora all’una ora all’altra parte della città il primato della bellezza e rivelando mille piccole grazie pudiche di paesaggio che non osavano mostrarsi alla gran luce. Si vedono dei grandi sobborghi malinconici, perduti nell’ombra delle valli; delle piccole città purpuree, che ridono sulle alture; villaggi e città che languono, come se mancasse loro la vita; altre che muoiono tutt’a un tratto come incendi soffocati; altre che, credute già morte, risuscitano improvvisamente, tutte in foco, e tripudiano ancora per qualche momento sotto l’ultimo raggio del sole. Poi non rimangono più che due cime risplendenti sulla riva dell’Asia: la sommità del monte Bulgurlù e la punta del capo che guarda l’entrata della Propontide; son prima due corone d’oro, poi due berrettine di porpora, poi due rubini; poi tutta Costantinopoli è nell’ombra, e dieci mila voci annunziano il tramonto dall’alto di dieci mila minareti.
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