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Questo pensiero m’assaliva sovente, contemplando Costantinopoli dal ponte della Sultana-Validè. Che cosa sarà questa città fra uno o due secoli, anche se i Turchi non siano cacciati d’Europa? Ahimè! Il grande olocausto della bellezza alla civiltà sarà già consumato. Io la vedo quella Costantinopoli futura, quella Londra dell’Oriente che innalzerà la sua maestà minacciosa e triste sulle rovine della più ridente città della terra. I colli saranno spianati, i boschetti rasi al suolo, le casette multicolori atterrate; l’orizzonte sarà tagliato da ogni parte dalle lunghe linee rigide dei palazzi, delle case operaie e degli opifici, in mezzo a cui si drizzerà una miriade di camini altissimi d’officine, e di tetti piramidali di campanili; lunghe strade diritte e uniformi divideranno Stambul in diecimila parallelepipedi enormi; i fili del telegrafo s’incrocieranno come un’immensa tela di ragno sopra i tetti della città rumorosa; sul ponte della Sultana-Validè non si vedrà più che un torrente nero di cappelli cilindrici e di berrette; la collina misteriosa del Serraglio sarà un giardino zoologico, il Castello delle Sette torri un penitenziario, l’Ebdomon un museo di storia naturale; tutto sarà solido, geometrico, utile, grigio, uggioso, e una immensa nuvola oscura velerà perpetuamente il bel cielo della Tracia, a cui non s’alzeranno più nè preghiere ardenti nè occhi innamorati nè canti di poeti. Quando quest’immagine mi si presentava, sentivo proprio una stretta al cuore; ma poi mi consolavo pensando: – Chi sa che qualche sposa italiana del secolo ventunesimo, venendo qui a fare il suo viaggio di nozze, non esclami qualche volta: – Peccato! Peccato che Costantinopoli non sia più come la descrive quel vecchio libro tarlato dell’ottocento che ritrovai per caso in fondo all’armadio della nonna!
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