Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
Costantinopoli

IL GRAN BAZAR

[Gl’Italiani]

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[Gl’Italiani]

 

La colonia italiana è una delle più numerose di Costantinopoli; ma non delle più prospere. Ha pochi ricchi, molti miserabili, specialmente operai dell’Italia meridionale che non trovan lavoro, ed è la colonia più meschinamente rappresentata dalla stampa periodica, quando pure è rappresentata, perchè i suoi giornali non fanno che nascere e morire. Quando c’ero io, s’aspettava l’apparizione del Levantino, ed era uscito intanto un numero di saggio, che annunziava i titoli accademici e i meriti speciali del direttore: settantasette in tutto, senza contare la modestia. Bisogna passeggiare la mattina della domenica in via di Pera, quando le famiglie italiane vanno alla messa. Si sentono parlare tutti i dialetti d’Italia. Io mi ci godevo; ma non sempre. Qualche volta sentivo quasi pietà al vedere tanti miei concittadini senza patria, molti dei quali dovevano esser stati sbalestrati chi sa da che avvenimenti dolorosi o strani; al veder quei vecchi, che forse non avrebbero mai più riveduta l’Italia; quei bambini, a cui quel nome non doveva risvegliare che un’immagine confusa d’un paese caro e lontano; quelle ragazze di cui molte dovevano forse sposare uomini d’un’altra nazione, e fondar famiglie in cui non sarebbe rimasto altro d’italiano che il nome e le memorie della madre. Vedevo delle belle genovesine che parevano discese allora dai giardini dell’Acquasola, dei bei visetti napoletani, delle testine capricciose che mi pareva d’aver incontrate cento volte sotto i portici di Po o sotto la Galleria di Milano. Avrei voluto legarle tutte a due a due con un nastrino color di rosa, metterle in un bastimento e ricondurle in Italia filando quindici nodi all’ora. Come curiosità, avrei anche voluto portare in Italia un saggio della lingua italiana che si parla a Pera daglitaliani nati nella colonia; e specialmente da quelli della terza o della quarta generazione. Un accademico della Crusca che li sentisse, si metterebbe a letto colla terzana. La lingua che formerebbero mescolando il loro italiano un usciere piemontese, un fiaccheraio lombardo e un facchino romagnolo, credo che sarebbe meno sciagurata di quella che si parla in riva al Corno d’oro. È un italiano già bastardo, screziato d’altre quattro o cinque lingue alla loro volta imbastardite. E il curioso è che, in mezzo agl’infiniti barbarismi, si senton dire di tratto in tratto, da coloro che hanno qualche coltura, delle frasi scelte e delle parole illustri, come dei puote, degli imperocchè, degli a ogni piè sospinto, degli havvi, dei puossi; ricordi di letture d’Antologia, colle quali molti di quei nostri buoni compatrioti cercano, nei ritagli di tempo, di rifarsi la bocca al toscano parlar celeste. Ma appetto agli altri, costoro posson pretendere, come diceva il Cesari, alla fama di buoni dicitori. Ce n’è di quelli che non si capiscono quasi più. Un giorno fui accompagnato non so dove da un giovanetto italiano di sedici o diciassette anni, amico d’un mio amico, nato a Pera. Per strada, attaccai discorso. Mi parve che non volesse parlare. Rispondeva a mezza voce, a parole tronche, abbassando la testa, e facendo il viso rosso: si vedeva che pativa.– Via che cos’ha? – gli domandai. – Ho – rispose sospirando – che parlo tanto male! – Continuando a discorrere, in fatti, m’accorsi che balbettava un italiano bizzarro, pieno di parole contraffatte e incomprensibili, molto somigliante a quella così detta lingua franca, la quale, come disse un bell’umore francese, consiste in un certo numero di vocaboli e di modi italiani, spagnuoli, francesi, greci, che si buttano fuori l’un dopo l’altro rapidissimamente, finchè se ne imbrocca uno che sia capito dalla persona che ascolta. Questo lavoro, però, occorre raramente di farlo a Pera e a Galata, dove un po’ d’italiano lo capiscono e lo parlano quasi tutti, compresi i turchi. Ma è lingua, se si può chiamar lingua, quasi esclusivamente parlata, se si può dir parlata. La lingua più comunemente usata scrivendo è la francese. Letteratura italiana non ce n’è. Mi ricordo soltanto d’aver trovato un giorno, in un caffè di Galata affollato di negozianti, in fondo a un giornaletto commerciale scritto metà in francese e metà in italiano, sotto le notizie della Borsa, otto versetti malinconici, che parlavano di zeffiri, di stelle e di sospiri. Oh povero poeta! Mi parve di veder lui, in persona, sepolto sotto un mucchio di mercanzie, che esalasse con quei versi il suo ultimo fiato.


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