Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
Costantinopoli

IL GRAN BAZAR

[La cucina]

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[La cucina]

 

Volendo fare un po’ di studio anche della cucina turca, mi feci condurre dai miei buoni amici di Pera in una trattoria ad hoc, dove si trova qualunque piatto orientale, dalle più squisite ghiottornie del Serraglio fino alla carne di cammello acconciata all’araba e alla carne di cavallo condita alla turcomanna. L’amico Santoro ordinò un desinare rigorosamente turco dall’antipasto alle frutta, ed io, incoraggiandomi col pensiero dei molti uomini egregi morti per la scienza, mandai giù un po’ di tutto senza emettere un grido. Ci furono serviti più d’una ventina di piatti. I Turchi, come gli altri popoli orientali, sono un po’ in questo come i ragazzi: al satollarsi di poche cose, preferiscono il beccare un tantino di moltissime; pastori d’ieri l’altro, poichè son diventati cittadini, pare che disdegnino la semplicità del mangiare come una pitoccheria da villani. Non potrei rendere un conto esatto di tutte le pietanze poichè di molte non m’è rimasta che una vaga reminiscenza sinistra. Ricordo il Rebab, che è composto di piccolissimi pezzetti di montone arrostiti a fuoco vivo, conditi con molto pepe e molto garofano, e serviti su due biscotti molli e grassi: piatto indicabile per i reati leggieri. Risento ancora qualche volta il sapore del pilav, composto di riso e di montone, ch’è il sine qua non di tutti i desinari, e per così dire il piatto sacramentale dei turchi, come i maccheroni per i napoletani, il cuscussù per gli arabi e il puchero per gli Spagnuoli. Ricordo, ed è la sola cosa che ricordi con desiderio, il Rosh’ab, che si beve col cucchiaio in fin di tavola: fatto d’uva secca, di pomi, di prune, di ciliegie e d’altre frutta, cotte nell’acqua con molto zucchero, e aggraziate con essenza di muschio o con acqua di rosa e di cedro. C’erano poi molti altri piattini di carne d’agnello e di montone, ridotta in bricioli e bollita tanto che non aveva quasi più sapore; dei pesci natanti nell’olio, delle pallottoline di riso ravvolte in foglie di vite, della zucca giulebbata, delle insalatine impastate, delle composte, delle conserve, degl’intingoli conditi con ogni sorta di erbe aromatiche, da poterne notar uno in coda ad ogni articolo del codice penale, per i delinquenti recidivi. Infine un gran piatto di dolci, capolavoro di qualche pasticciere arabo, fra cui v’era un piccolo piroscafo, un leoncino chimerico e una casettina di zucchero colle sue finestrine ingraticolate. Tutto sommato, mi parve d’essermi vuotata in corpo una farmacia portatile, e d’aver veduto uno di quei desinaretti che preparano per spasso i ragazzi, coprendo una tavola di piattini pieni di mattone trito, d’erba pesta e di frutti spiaccicati, che facciano un bel vedere di lontano. Tutti quei piatti vengon serviti rapidamente a quattro o cinque alla volta, e i turchi vi pescano colle dita, non essendo in uso fra loro altro che il coltello e il cucchiaio; e serve per tutti una sola coppa, nella quale un servitore versa continuamente acqua concia. Così non facevano però i turchi che desinavano vicino a noi nella trattoria. Eran turchi amanti dei proprii comodi, tanto è vero che tenevano le babbuccie sulla tavola; avevano ciascuno il loro piatto, si servivano bravamente della forchetta, e trincavano liquore a tutto spiano, in barba a Maometto. Osservai di più che non baciarono il pane, da buoni musulmani, prima di cominciare a mangiare, e che non si peritavano a slanciare tratto tratto un’occhiata concupiscente alle nostre bottiglie, quantunque, giusta le sentenze dei muftì, sia peccato anche il fissar gli occhi sopra una bottiglia di vino. Del resto questo «padre delle abbominazioni», del quale basta una goccia a far cadere sul capo del musulmano «gli anatemi di tutti gli angioli del cielo e della terra» va di giorno in giorno guadagnando devoti fra i turchi, e ormai si può dire che è un resto di rispetto umano quello che li trattiene dal rendergli un pubblico omaggio; e io credo che se un giorno scendesse tutt’a un tratto sopra Costantinopoli una tenebra fitta, e dopo un’ora tornasse a splendere il sole improvvisamente, si sorprenderebbero cinquantamila turchi colla bottiglia alla bocca. E anche in questo, come in molti altri traviamenti degli Osmanli, furono la pietra dello scandalo i Sultani; ed è curioso che sia appunto la dinastia regnante sopra un popolo per il quale è un’offesa a Dio il bever vino, quella che forse, fra tutte le dinastie d’Europa, ha dato da registrare alla storia un maggior numero d’ubbriaconi: tanto è parso dolce il frutto proibito anche alle ombre di Dio sulla terra. Fu, si dice, Baiazet I quello che iniziò la serie interminabile delle cotte imperiali, e come nel peccato originale, fu anche in questo prima colpevole la donna: la moglie dello stesso Baiazet, figlia del re dei Serbi, che offerse al marito il primo bicchiere di Tokai. Poi Baiazet II s’ubbriacò di vin di Cipro e di vin di Schiraz. Poi quel medesimo Solimano I, che fece bruciare nel porto di Costantinopoli tutti i bastimenti carichi di vino e versar piombo liquefatto in bocca ai bevitori, morì brillo per mano d’un arciere. Poi venne Selim II, soprannominato il messth, l’ubbriaco, il quale pigliava delle bertucce che duravan tre giorni, e durante il suo regno trincarono pubblicamente uomini di legge e uomini di religione. Invano Maometto III tuona contro «l’abbominazione suggerita dal demonio»; invano Ahmed I fa distruggere tutte le taverne e sfondare tutti i tini di Stambul; invano Murad IV gira per la città accompagnato dal carnefice, e fa cader la testa di chi ha il fiato vinoso. Egli stesso, l’ipocrita feroce, barcolla per le sale del serraglio come un bettolante plebeo; e dopo di lui la bottiglia, piccolo e festoso folletto nero, irrompe nei serragli, si caccia nelle botteghe dei bazar, si nasconde sotto il capezzale dei soldati, ficca la sua testa inargentata o purpurea sotto il divano delle belle, e violata la soglia delle moschee, spruzza le sue spume sacrileghe sulle pagine ingiallite del Corano.


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