Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
Costantinopoli

IL GRAN BAZAR

[Costantinopoli antica]

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[Costantinopoli antica]

 

Ma che cosa doveva essere quella città nei bei tempi della gloria ottomana! Io non potevo levarmi dalla testa questo pensiero. Allora, dal Bosforo tutto bianco di vele, non s’alzava un nuvolo di fumo nero a macchiar l’azzurro del cielo e delle acque. Nel porto e nei seni del Mar di Marmara, fra le vecchie navi da guerra, dalle alte poppe scolpite, dalle mezzelune d’argento, dagli stendardi di porpora, dai fanali d’oro, galleggiavano carcasse fracassate e insanguinate di galere genovesi, veneziane e spagnuole. Sul Corno d’oro non v’erano ponti: da una sponda all’altra guizzava perpetuamente una miriade di barchette pompose, in mezzo alle quali spiccavano di lontano le lancie bianchissime del serraglio, coperte di baldacchini scarlatti dalle frangie dorate, e condotte da rematori vestiti di seta. Scutari era ancora un villaggio; di da Galata non si vedevano che case sparpagliate per la campagna; nessun grande palazzo alzava ancora la testa sopra la collina di Pera; l’aspetto della città era meno grandioso che non è ora; ma era più schiettamente orientale. La legge che prescriveva i colori essendo ancora in vigore, dai colori delle case si riconosceva la religione degli abitanti: Stambul era tutta gialla e rossa, fuorchè gli edifizi pubblici e sacri ch’erano bianchi come la neve; i quartieri armeni erano cinerini chiari, i quartieri greci cinerini carichi, i quartieri ebrei pavonazzi. Era universale, come in Olanda, la passione dei fiori, e i giardini parevan grandi mazzi di giacinti, di tulipani e di rose. La vegetazione rigogliosa delle colline non essendo ancora atterrata dai nuovi sobborghi, Costantinopoli presentava l’immagine d’una città nascosta in una foresta. Dentro non c’eran che viuzze; ma le abbelliva una folla meravigliosamente pittoresca. Non si vedevano che turbanti enormi, che davano alla popolazione mascolina un’apparenza colossale e magnifica. Tutte le donne, fuor che la madre del sultano, essendo rigorosamente velate, e in modo da non lasciar vedere che gli occhi, formavano una popolazione a parte, anonima ed enimmatica, che spandeva per tutta la città un’aura di mistero gentile. Una legge severa determinando il vestiario di tutti, si distinguevano dalle forme dei turbanti e dai colori dei caffettani i ceti, i gradi, gli uffici, le età, come se Costantinopoli fosse un’immensa corte. Il cavallo essendo ancora quasi «il solo cocchio dell’uomo», giravano per le vie migliaia di cavalieri, e le lunghe file dei cammelli e dei dromedarii dell’esercito che attraversavano la città in tutte le direzioni le davano l’aspetto selvaggio e grandioso d’un’antica metropoli asiatica. Le arabà dorate, tratte dai buoi, s’incrociavano colle carrozze rivestite di panno verde degli ulemi, con quelle rivestite di panno rosso dei Kadì-aschieri, colle talike leggerissime dalle tendine di raso, colle bussole ornate di pitture fantastiche. Schiavi di tutti i paesi, dalla Polonia all’Etiopia, passavano a frotte, facendo risuonare le loro catene ribadite sui campi di battaglia. Sui crocicchi, nelle piazze, nei cortili delle moschee, si vedevano gruppi di soldati vestiti di cenci gloriosi, che mostravano le braccia monche e le cicatrici ancor fresche delle ferite toccate a Vienna, a Belgrado, a Rodi, a Damasco. Centinaia di rapsodi dalla voce tonante e dal gesto ispirato raccontavano, in mezzo a crocchi di musulmani superbi, le gesta degli eserciti che combattevano a tre mesi di marcia da Stambul. I pascià, i bey, gli agà, i musselim, un’infinità di dignitari e di gran signori, vestiti con uno sfarzo teatrale, accompagnati da frotte di servi, fendevano la folla che si curvava al loro passaggio come una messe sotto il soffio del vento; passavano, con un corteo da principi, ambasciatori di tutti gli Stati d’Europa, venuti a chieder pace o alleanza; sfilavano carovane cariche di doni di re affricani ed asiatici; sciami di silidar e di spahì fastosi e insolenti, trascinavano per le vie i sciaboloni macchiati del sangue di venti popoli, e i bei paggi greci ed ungheresi del serraglio, vestiti come piccoli re, passeggiavano alteramente fra la moltitudine ossequiosa, che rispettava in loro i capricci snaturati del suo Signore. Qua e , dinanzi alle porte, si vedeva un trofeo di bastoni nodosi: era un corpo di guardia di Giannizzeri, che allora esercitavano la polizia nell’interno della città. S’incontravano degli ebrei che portavano nel Bosforo il corpo dei giustiziati; si trovava ogni mattina nel Balik-bazar qualche cadavere disteso in terra, con la testa sotto l’ascella destra, la sentenza sul petto e una pietra sulla sentenza; si vedevano per le vie nobili impiccati al primo gancio o alla prima trave che avevan trovata i carnefici frettolosi; s’inciampava di notte in qualche disgraziato buttato in mezzo alla strada da una stanza di tortura dove gli avevano spezzato i piedi e le mani con una mazza; si vedevano sotto il sole di mezzogiorno dei mercanti colti in frode inchiodati per un orecchio all’uscio della loro bottega. E non c’essendo ancora la legge che restrinse poi la libertà sconfinata delle sepolture, si vedevano scavar fosse e sotterrar morti, ad ogni ora del giorno, nei giardini, nei vicoli, nelle piazze, dinanzi alle porte delle case. Si sentivano nei cortili gli urli dei montoni e degli agnelli scannati in olocausto ad Allà per le nascite e per le circoncisioni. A quando a quando passava di galoppo un drappello d’eunuchi gridando e minacciando, le vie si facevano deserte, le porte si chiudevano, le finestre si coprivano, un intiero quartiere pareva morto: e allora passavano in una fila di carrozze luccicanti le belle del Gran Signore, che empievano l’aria di profumi e di risa. Qualche volta un personaggio della corte, attraversando una strada affollata, impallidiva improvvisamente alla vista di sei popolani di meschina apparenza che entravano in una bottega: quei sei popolani erano il sultano, quattro ufficiali e un carnefice, che giravano di bottega in bottega per verificare i pesi e le misure. In tutto quanto il corpo enorme di Costantinopoli ribolliva una vita pletorica e febbrile. Il tesoro riboccava di gemme, gli arsenali, d’armi, le caserme, di soldati, i caravanserai, di viaggiatori; il mercato di schiavi era un formicaio di belle, di mercantesse e di gran signori; i dotti s’affollavano nei grandi archivii delle moschee; i vizir dalla lunga lena preparavano alle generazioni future gli annali sterminati dell’impero; i poeti, pensionati dal serraglio, si raccoglievano nei bagni a cantare le guerre e gli amori imperiali; turbe d’operai bulgari ed armeni lavoravano ad innalzar moschee con blocchi di granito d’Egitto e di marmo di Paros, mentre per mare arrivavano le colonne dei tempii dell’Arcipelago e per terra le spoglie delle chiese di Pest e di Ofen; nel porto si allestivano le flotte di trecento vele che dovevano portare il terrore su tutte le rive del Mediterraneo; fra Stambul e Adrianopoli si spandevano cavalcate di settemila falconieri e di settemila guardacaccia, e negl’intervalli delle rivolte soldatesche, delle guerre lontane, degli incendi che riducevano in cenere ventimila case in una notte, si celebravano feste di trenta giorni dinanzi ai plenipotenziarii di tutti gli stati dell’Affrica, dell’Asia e dell’Europa. Allora l’entusiasmo musulmano diventava follia. Al cospetto del Sultano e della corte, in mezzo a quelle smisurate palme di nozze, cariche d’uccelli, di frutti e di specchi, per dar passo alle quali si atterravano le case e le mura; in mezzo a file di leoni e di sirene di zucchero, portati da cavalli ingualdrappati di damasco argentato; in mezzo a monti di doni reali recati da tutte le parti dell’Impero e da tutte le corti del mondo, si alternavano le finte battaglie dei giannizzeri, i balli furiosi dei dervis, le mischie sanguinose dei prigionieri cristiani, i banchetti popolari di diecimila piatti di cuscussù; nell’Ippodromo danzavano gli elefanti e le giraffe; si sguinzagliavano tra la folla gli orsi e le volpi coi razzi alla coda; alle pantomime allegoriche succedevano le danze lascive, le mascherate grottesche, le processioni fantastiche, le corse, i carri simbolici, i giochi, le commedie, le ridde; la festa degenerava a poco a poco, col calar della notte, in un tumulto forsennato, e cinquecento moschee scintillanti di lumi formavano sopra la città un’immensa aureola di foco che annunziava ai pastori delle montagne dell’Asia e ai naviganti della Propontide, le orgie della nuova Babilonia. Così era Stambul, la sultana formidabile, voluttuosa e sfrenata; appetto alla quale la città d’oggi non è più che una vecchia regina malata d’ipocondria.


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