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Occupato quasi sempre dei turchi, non ebbi il tempo, come ognuno può capire, di studiare molto le tre nazioni, armena, greca ed ebrea, che formano la popolazione dei rajà; studio, d’altra parte, assai lungo, poichè se ognuno di quei popoli ha conservato dal più al meno la natura propria, la vita esteriore di tutti e tre ha preso come una velatura di colore musulmano, la quale va ora perdendosi alla sua volta sotto la tinta della civiltà europea: onde presentano tutti e tre la difficoltà d’osservazione che presenterebbe un quadro mobile e cangiante. Gli armeni, in special modo, «cristiani di spirito e di fede, e musulmani asiatici di nascita e di carne», non sono soltanto difficili a studiare intimamente, ma anche a distinguere a occhio dai turchi, poichè quella parte di loro che non ha ancora preso il vestiario europeo, è vestita alla turca, salvo piccolissime differenze; e non usa quasi più affatto l’antico berrettone di feltro, che era, con certi colori speciali, il segno distintivo della nazione. E non differiscono molto dai turchi anche nell’aspetto. Sono per lo più alti di statura, robusti, corpulenti, di carnagione chiara, d’andatura e di modi gravi, e mostrano nel viso le due qualità proprie della loro natura: lo spirito aperto, alacre, industrioso, pertinace, per cui sono meravigliosamente atti al commercio, e quella placidità, che altri vuol chiamare pieghevolezza servile, con cui riuscirono a farsi un covo per tutto, dall’Ungheria alla China, e a rendersi accetti particolarmente ai turchi, dei quali si cattivarono la fiducia, sudditi docili e amici ossequenti. Non hanno nè fuori nè dentro nulla di bellicoso e d’eroico. Tali, forse, non erano anticamente nella regione asiatica da cui vennero, e si dice infatti che siano tuttora assai diversi i loro fratelli che l’abitano; ma quei che furon trapiantati di qua dal Bosforo, sono veramente un popolo mansueto e prudente, modesto nella vita, non inteso ad altro che ai suoi traffici, e più sinceramente religioso, si dice, d’ogni altro popolo di Costantinopoli. I turchi li chiamano i cammelli dell’impero e i franchi dicono che ogni armeno nasce calcolatore; questi due motti sono in gran parte giustificati dal fatto, poichè in grazia appunto della loro forza fisica e della loro intelligenza agile ed acuta, oltre a un buon numero d’architetti, d’ingegneri, di medici, d’artefici ingegnosi e pazienti, essi forniscono a Costantinopoli la maggior parte dei facchini e dei banchieri: facchini che portan pesi e banchieri che ammassano tesori favolosi. A primo aspetto, però, nessuno s’accorgerebbe che v’è un popolo armeno a Costantinopoli, tanto la pianta ha preso, come suol dirsi, il colore del concio. Le donne stesse, per cagione delle quali la casa armena è chiusa allo straniero quasi altrettanto severamente che la musulmana, vestono alla turca, e non c’è che un occhio molto esperto che le possa riconoscere in mezzo alle loro concittadine maomettane. Sono anch’esse per lo più bianche e grassotte, ed hanno la linea aquilina del profilo orientale, grandi occhi e lunghe ciglia; molte d’alta statura e di forme matronali, che coronate d’un turbante, parrebbero bellissimi sceicchi; e quasi tutte d’aspetto signorile e modesto ad un tempo, in cui se qualche cosa manca, è la luce dell’anima che brilla sul volto della donna greca.
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