IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
E sulla torre del Seraschiere, come su quella di Galata, come sul vecchio ponte, come a Scutari, io mi domandai cento volte: – Ma in che maniera hai potuto innamorarti dell’Olanda? – E non solo quel paese, ma Parigi, ma Madrid, ma Siviglia, mi parevano città oscure e malinconiche, in cui non avrei più potuto vivere un mese. Poi ripensavo alle mie povere descrizioni e mi dicevo con rammarico: – Ah! disgraziato! Quante volte hai sciupato le parole bello, splendido, immenso! Ed ora che cosa dirai di questo spettacolo? – Ma già mi pareva che da Costantinopoli non avrei cavato una pagina. E il mio amico Rossasco mi diceva: – Ma perchè non ti ci provi? – Ed io gli rispondevo: – Ma se non ho nulla da dire! – E alle volte, chi lo crederebbe? quello spettacolo, per qualche minuto secondo, a certe ore, a una certa luce, mi pareva meschino, ed esclamavo quasi con sgomento: – O dov’è la mia Costantinopoli? – Altre volte mi pigliava un sentimento di tristezza pensando che mentre io ero là dinanzi a quella immensità e a quella bellezza, mia madre era in una piccola stanza, da cui non si vedeva che un cortile uggioso e una piccola striscia di cielo; e mi pareva una colpa mia, e avrei dato un occhio per aver la mia buona vecchia a bracetto e condurla a Santa Sofia. La giornata però correva quasi sempre allegra e leggera come un’ora d’ebbrezza. E le rare volte che faceva capolino l’umor nero, il mio amico ed io avevamo un mezzo sicuro di liberarcene. Scendevamo a Galata in due caicchi a due remi, i più variopinti e i più dorati dello scalo, e gridavamo: – Eyub! – ed eravamo già in mezzo al Corno d’oro. I nostri rematori si chiamavano Mahmut, Baiazet, Ibraim, Murat, avevano vent’anni per uno e due braccia di ferro, e vogavano a gara incitandosi con grida e ridendo come bambini; il cielo era sereno e il mare trasparente; noi rovesciavamo il capo indietro per bere a sorsate più lunghe l’aria piena di profumi, e lasciavamo spenzolare una mano nell’acqua; i due caicchi volavano, di qua e di là ci fuggivano allo sguardo i chioschi, i palazzi, i giardini, le moschee; ci pareva d’esser portati dal vento a traverso un mondo fatato, sentivamo un piacere inesprimibile d’esser giovani e d’essere a Stambul, Yunk cantava, io recitavo delle ballate orientali di Vittor Hugo, e vedevo ora a destra, ora a sinistra, ora vicino, ora lontano, balenare per aria un viso amoroso, coronato di capelli bianchi e illuminato da un sorriso dolcissimo, che diceva: – Sii felice, figliuolo! Io ti benedico e ti seguo.