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[Scutari]
Tutta questa oscurità svanisce dinanzi all’immagine splendida di Scutari. Andando a Scutari, sopra un piroscafo affollato, discutevamo sempre, il mio amico ed io, se il primato della bellezza appartenesse a quella riva o alle due rive del Corno d’oro. Yunk preferiva Scutari; io, Stambul. Ma Scutari m’innamorava coi suoi improvvisi cangiamenti d’aspetto, coi quali pare che voglia pigliarsi gioco di chi le s’avvicina dal mare. Guardata dal Mar di Marmara, non pare che un grande villaggio disteso sopra una collina. Guardata dal Corno d’oro, presenta già l’aspetto d’una città. Ma quando il piroscafo, girando intorno alla punta più avanzata della riva asiatica, va dritto verso il suo porto, allora la cittadina s’allarga e s’innalza; le colline coperte d’edifizi saltan fuori l’una di dietro all’altra; i sobborghi sbucano dalle valli, le villette si sparpagliano sulle alture; la riva, tutta variopinta di casette, si svolge a perdita d’occhi; una città enorme, pomposa, teatrale, che non si comprende dove potesse stare nascosta, si scopre allo sguardo in pochi momenti come all’alzarsi d’un telone immenso, e fa rimaner là stupefatti come aspettando che torni a sparire. Si scende sopra uno scalo di legno, fra un visibilio di barcaiuoli, di noleggiatori di cavalli e di dracomanni, e si va su per la via principale che sale dolcemente, serpeggiando, in mezzo a casette rosse e gialle, vestite d’edera e di pampini, fra muri di giardini riboccanti di verzura, sotto alti pergolati, all’ombra di grandi platani che chiudono quasi il passaggio; si passa dinanzi a caffè turchi, ingombri di fannulloni asiatici, che fumano, sdraiati, cogli occhi fissi non si sa dove; s’incontrano branchi di capre, carri pesanti di campagna, tirati da bufali colla testa infiorata, contadini in fez e in turbante, convogli funebri musulmani, e brigatelle di hanum villeggianti, che portano mazzi di fiori e ramoscelli. Par di vedere un’altra Stambul, meno maestosa, ma più gaia e più fresca di quella delle sette colline. È come una grande città villereccia. La campagna l’invade da tutte le parti. Le stradicciuole, fiancheggiate da casine da presepio, scendono e salgono per valli e per colline, e si perdono nel verde dei giardini e degli orti. Nelle parti alte della città regna la pace profonda della campagna; nelle parti basse brulica la vita affaccendata delle città di mare; dalle grandi caserme che sorgono qua e là, esce un frastuono confuso di grida, di canti e di tamburi, e migliaia d’uccelletti saltellano, per le viuzze solitarie. Seguitando un convoglio mortuario, usciamo dalla città, ci addentriamo nel cimitero famoso, ci smarriamo in una grande foresta di cipressi altissimi, che si stende da una parte verso il Mar di Marmara e dall’altra verso il Corno d’oro, sopra un vasto terreno montuoso. Le pietre sepolcrali biancheggiano tutt’intorno fin dove arriva lo sguardo, a mucchi, a file sterminate, in mezzo ai cespugli e ai fiori selvatici, in una rete infinita di sentieri, fra i tronchi fittissimi, che lasciano appena vedere l’orizzonte come una lontana striscia luminosa e ondeggiante. Andiamo innanzi, a caso, in mezzo ai cippi dipinti e dorati, ritti e rovesci, fra le cancellate dei sepolcri di famiglia, fra i piccoli mausolei dei pascià, fra le colonnette rozze del volgo, vedendo qua e là mazzi di fiori appassiti e cocuzzoli di cranii che spuntano fra la terra smossa, udendo grugare da ogni parte i colombi nascosti nei cipressi; e via via, pare che la foresta si allarghi, che le pietre pullulino, che i sentieri si moltiplichino, che la striscia luminosa dell’orizzonte si allontani, che il regno della morte s’avanzi a passo a passo con noi; e cominciamo a domandarci come n’usciremo, quando sbocchiamo inaspettatamente in un larghissimo viale, che ci conduce nella vasta pianura aperta d’Haidar pascià, dove si raccoglievano gli eserciti musulmani per muovere alle guerre dell’Asia, e di là abbracciamo con uno sguardo il Mar di Marmara, Stambul, l’imboccatura del Corno d’oro, Galata e Pera, tutto velato leggermente dai vapori della mattina e tinto di colori di paradiso, che ci fanno risentire un fremito della meraviglia e della gioia dell’arrivo.