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Tutto questo svanisce, e mi trovo a passeggiare per lunghissimi cameroni nudi, in mezzo a due schiere immobili di figure sinistre, che paiono cadaveri inchiodati alle pareti. Non ricordo d’aver mai provato un senso così vivo di ribrezzo fuorchè a Londra, nell’ultima sala del museo Tussaud, dove s’intravvedono nell’oscurità i più orrendi assassini d’Inghilterra. È come un museo di spettri, o piuttosto un sepolcro aperto, in cui si trovano, mummificati, i più famosi personaggi di quella vecchia Turchia splendida, stravagante e feroce, che non esiste più se non nella memoria dei vecchi e nella fantasia dei poeti. Sono centinaia di grandi figure di legno, colorite, vestite dei vecchi costumi, ritte, in atteggiamenti rigidi e superbi, coi visi alti, cogli occhi spalancati, colle mani sull’else, che par che aspettino un cenno per snudare le lame e far sangue, come al buon tempo antico. Prima viene la casa del Padiscià: il grand’eunuco, il gran vizir, il muftì, ciambellani e grandi ufficiali, col capo coperto di turbanti d’ogni colore, piramidali, sferici, quadrati, spropositati, prodigiosi, con caffettani di broccato di colori smaglianti, coperti di ricami, con tuniche di seta vermiglia e di seta bianca, strette alla vita da sciarpe di casimir, con vesti dorate, coi petti coperti di lastre d’oro e d’argento, con armi principesche: due lunghe file di spauracchi bizzarri e splendidi, che rivelano in modo ammirabile la natura dell’antica corte ottomana, spudoratamente fastosa e barbaricamente superba. Seguono i paggi che portano le pelliccie del Padiscià, il turbante, lo sgabello, la spada. Poi le guardie delle porte e dei giardini, le guardie del Sultano, gli eunuchi bianchi e gli eunuchi neri, con visi di magi e d’idoli, scintillanti, impennacchiati, colle teste coperte di cappelli persiani e di caschi metallici, di berrette purpuree, di turbanti strani, della forma di mezzelune, di coni, di piramidi rovescie; armati di verghe d’acciaio, di pugnalacci e di fruste come un branco d’assassini e di carnefici; e l’uno guarda in aria di disprezzo, un altro digrigna i denti, un terzo caccia fuor dell’orbita due occhi assetati di sangue, un quarto sorride con un’espressione di sarcasmo satanico. E in fine, il corpo dei giannizzeri, col suo santo patrono, Emin babà, scheletrito, vestito d’una tunica bianca, e ufficiali di tutti i gradi simboleggiati dai varii uffici della cucina, e soldati di ogni classe con tutti gli emblemi e tutte le divise di quell’esercito insolente sterminato dalla mitraglia di Mahmud. E qui la bizzarria grottesca e puerile dei vestiari, mista al terrore delle memorie, produce l’impressione d’una pagliacciata feroce. La più sbrigliata fantasia di pittore non riuscirebbe mai a formare una così pazza confusione di vestimenti da re, da sacerdoti, da briganti, da giullari. I «portatori d’acqua», i «preparatori della minestra», i «cuochi superiori», i «capi dei guatteri», i soldati incaricati di servizii speciali, si succedono in lunghe file, colle scope e coi cucchiai nei turbanti, cui sonagli appesi alle tuniche, cogli otri, colle marmitte famose che davano il segnale delle rivolte, coi grandi berretti di pelo, colle larghe stoffe cadenti, come mantelli di negromanti, dalla nuca sui lombi, colle larghe cinture di dischi di metallo cesellato, colle sciabole gigantesche, cogli occhi di granchio, coi busti enormi, coi volti contratti in atteggiamenti di beffa, di minaccia e d’insulto. Ultimi vengono i muti del Serraglio, col cordone di seta alla mano, e i nani e i buffoni, con visi ributtanti di cretini inviperiti, e corone burlesche sul capo. Le grandi vetrine in cui è chiusa tutta questa gente, danno al luogo una cert’aria di museo anatomico, che rende più verosimile l’apparenza cadaverica dei simulacri e fa qualche volta torcere il viso con orrore. Arrivati in fondo, sembra d’esser passati per una sala dell’antico serraglio, in mezzo a tutta la Corte, agghiacciata di terrore da un grido minaccioso del Padiscià; ed uscendo e incontrando sulla piazza dell’Atmeidan i pascià in abito nero e i nizam vestiti modestamente alla zuava, oh come par mite ed amabile la Turchia dei nostri giorni!
E anche di là ritorno irresistibilmente fra le tombe, in mezzo agli innumerevoli turbé imperiali sparsi per la città turca, che rimarranno sempre nella mia memoria come una delle più gentili manifestazioni dell’arte e della filosofia musulmana. Un firmano ci fece aprire, per il primo, il turbè di Mahmud il riformatore, posto poco lontano dall’Atmeidan, in un giardino pieno di rose e di gelsomini. È un bel tempietto esagono, di marmo bianco, coperto di una cupola rivestita di piombo, sostenuto da pilastri ionici e rischiarato da sette finestre chiuse da inferriate dorate, alcune delle quali guardano in una delle vie principali di Stambul. Le pareti interne sono ornate di bassorilievi e decorate di tappeti di seta e di broccato. Nel mezzo sorge il sarcofago coperto di bellissimi scialli persiani; e v’è sopra il fez, emblema della riforma, col pennacchietto scintillante di diamanti, e intorno una graziosa balaustrata, intarsiata di madreperla, che racchiude quattro grandi candelabri d’argento. Lungo le pareti ci sono i sarcofagi di sette sultane. Il pavimento è coperto di stuoie finissime e di tappeti variopinti. Qua e là, sopra ricchi leggii, brillano dei corani preziosi, scritti in caratteri d’oro. In una cassetta d’argento v’è un lungo pezzo di mussolina, arrotolato, tutto coperto di minutissimi caratteri arabi, tracciati dalla mano di Mahmud. Prima di salire al trono, quando viveva prigioniero nell’antico serraglio, egli trascrisse pazientemente su quel pezzo di stoffa una gran parte del Corano, e morendo, ordinò che quel suo ricordo giovanile fosse posto sulla sua tomba. Dall’interno del turbé si vede a traverso le inferriate dorate il verde del giardino e si sente l’odor delle rose; una luce viva rischiara tutto il tempietto; tutti i rumori della città vi risuonano come sotto un portico aperto; le donne e i fanciulli, dalla strada, s’affacciano alle finestre e bisbigliano una preghiera. V’è in tutto questo un che di primitivo e di dolce, che tocca il cuore. Pare che non il cadavere, ma l’anima del Sultano sia chiusa fra quelle pareti, e che veda e senta ancora il suo popolo, che passa e lo saluta. Morendo, egli non ha fatto che cambiare di chiosco; dai chioschi del Serraglio è venuto in quest’altro, non meno ridente, ed è sempre alla luce del sole, in mezzo allo strepito della vita di Stambul, tra i suoi figli, anzi più vicino ad essi, sull’orlo della via, sotto gli occhi di tutti, e mostra ancora al popolo il suo pennacchietto scintillante come quando andava alla moschea, pieno di vita e di gloria, a pregare per la prosperità dell’Impero. E così son quasi tutti gli altri turbé, quello d’Ahmed, quello di Bajazet, che appoggia la testa sopra un mattone composto colla polvere raccolta dai suoi abiti e dalle sue babbuccie; quello di Solimano, quello di Mustafà e di Selim III, quello d’Abdul-Hamid, quello della sultana Rosellana. Son tempietti sostenuti da pilastri di marmo bianco e di porfido, luccicanti d’ambra e di madreperla; in alcuni dei quali scende l’acqua piovana, per un’apertura della cupola, a bagnare i fiori e l’erbe intorno ai sarcofagi, coperti di velluti e di trine; e dalle volte pendono ova di struzzo e lampade dorate che rischiarano le tombe dei principi, disposte a corona intorno al sepolcro paterno, con su i fazzoletti che servirono a strozzarli bambini o giovinetti; forse per indurre nei fedeli, colla pietà delle vittime, il sentimento della necessità fatale di quei delitti. E ricordo, che a furia di vedere immagini di quelle morti, cominciavo a sentire in me come un principio di asservimento del pensiero e del cuore alla iniqua ragione di Stato che le sanciva; come a furia di trovare a ogni passo, nelle moschee, nelle fontane, nei turbé, in mille immagini, ricordato e glorificato il nome d’un uomo, una potenza assoluta e suprema, qualche cosa, dentro di me, cominciava a sottomettersi; come a furia di errare all’ombra dei cimiteri e di fissare il pensiero nei sepolcri, cominciavo a considerare sotto un nuovo aspetto, quasi sereno, la morte; a provare un sentimento più queto e più noncurante della vita; a abbandonarmi a non so che filosofia odiosa, a un vagare indefinito del pensiero, a uno stato nuovo dell’animo, in cui mi pareva che il meglio fosse passare il tempo placidamente sognando e lasciare che quello che è scritto si compia. E provavo un sentimento improvvido di uggia e d’avversione quando in mezzo a quelle fantasie serene e quiete, mi s’affacciava l’immagine delle nostre città affaticate, delle nostre chiese oscure, dei nostri cimiteri murati e deserti.