Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
Costantinopoli

GLI ULTIMI GIORNI

[I dervis]

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[I dervis]

E anche i dervis mi passano dinanzi, fra le immagini di quegli ultimi giorni; e sono i dervis Mevlevi (il più famoso dei trentadue ordini) che hanno un notissimo tekké in via di Pera. Ci andai preparato a vedere dei volti luminosi di santi, rapiti da allucinazioni paradisiache. Ma ci ebbi una gran delusione. Ahimè! anche nei dervis la fiamma della fede «lambe l’arido stame». La famosa danza divina non mi parve che una fredda rappresentazione teatrale. Sono curiosi a vedersi, senza dubbio, quando entrano nella moschea circolare, l’un dietro l’altro, ravvolti in un grande mantello bruno, col capo basso, colle braccia nascoste, accompagnati da una musica barbara, monotona e dolcissima, che somiglia al gemito del vento fra i cipressi del cimitero di Scutari, e fa sognare a occhi aperti; e quando girano intorno, e s’inchinano a due a due dinanzi al Mirab, con un movimento maestoso e languido che fa nascere un dubbio improvviso sul loro sesso. Così è pure una bella scena quando buttano in terra il mantello con un gesto vivace, e appariscono tutti vestiti di bianco, colla lunga gonnella di lana, e allargando le braccia in atto amoroso e rovesciando la testa, si abbandonano l’un dopo l’altro ai giri, come se fossero slanciati da una mano invisibile; e quando girano tutti insieme nel mezzo della moschea, equidistanti fra loro, senza scostarsi d’un filo dal proprio posto, come automi sur un perno, bianchi, leggeri, rapidissimi, colla gonnella gonfia e ondeggiante, e cogli occhi socchiusi; e quando si precipitano tutti insieme, come atterrati da una apparizione sovrumana, soffocando contro il pavimento il grido tonante di Allà; e quando ricominciano a inchinarsi e a baciarsi le mani e a girare intorno, rasente il muro, con un passo grazioso tra l’andatura e la danza. Ma le estasi, i rapimenti, i volti trasfigurati, che tanti viaggiatori videro e descrissero, io non li vidi. Non vidi che dei ballerini agilissimi e infaticabili che facevano il loro mestiere colla massima indifferenza. Vidi anzi delle risa represse; scopersi un giovane dervis che non pareva punto scontento d’esser guardato fisso da una signora inglese affacciata a una tribuna in faccia a lui; e ne colsi sul parecchi che, nell’atto di baciar le mani ai compagni, tiravano a morderli di nascosto, e questi li respingevano a pizzicotti. Ah gl’ipocriti! Quello che mi fece più senso fu il vedere in tutti quegli uomini, e ce n’eran d’ogni età e d’ogni aspetto, una grazia e un’eleganza di mosse e d’atteggiamenti, che potrebbero invidiare molti dei nostri ballerini da salotto; e che è certo un pregio naturale delle razze orientali, dovuto ad una particolare struttura del corpo. E lo notai anche meglio un altro giorno, in cui potei penetrare in una celletta del tekké, e veder da vicino un dervis che si preparava alla funzione. Era un giovane imberbe, alto e snello, di fisonomia femminea. Si stringeva ai fianchi la sottana bianca, guardandosi nello specchio; si voltava verso di noi e sorrideva; si tastava colle mani la vita sottile; si accomodava in fretta, ma con garbo, e con un occhio d’artista, tutte le parti del vestimento, come una signora che dia gli ultimi tocchi alla sua acconciatura; e visto di dietro, con quello strascico, presentava infatti il profilo di un bel fusto di ragazza vestita da ballo che domandasse un giudizio allo specchio.... Ed era un frate!. Oh strane cose in vero, come diceva Desdemona a Otello.

 


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