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Ma il più bello dei miei ultimi ricordi è sulla cima del monte Ciamligià, che s’alza alle spalle di Scutari. Di là diedi alla città il mio ultimo saluto, e fu l’ultima e la più splendida delle mie grandi visioni di Costantinopoli. Andammo a Scutari allo spuntare del giorno con un tempo nebbioso. La nebbia c’era ancora, quando s’arrivò sulla cima del monte; ma il cielo prometteva una giornata serena. Sotto di noi, tutto era nascosto. Era uno spettacolo singolarissimo. Una immensa tenda grigia orizzontale, che noi dominavamo tutta collo sguardo, copriva Scutari, il Bosforo, il Corno d’oro, tutta Costantinopoli. Non si vedeva assolutamente nulla. La grande città, con tutti i suoi sobborghi e tutti i suoi porti, pareva che fosse sparita. Era come un mare di nebbia da cui non usciva che la cima di Ciamligià, come un’isola. E noi guardavamo quel mare grigio, immaginando di essere due poveri pellegrini, venuti d’in fondo all’Asia Minore, e arrivati là, prima dell’alba, sopra quella gran nebbia, senza sapere che ci fosse sotto la grande metropoli dell’Impero ottomano, e provavamo un gran piacere a seguire colla fantasia il sentimento crescente di stupore e di meraviglia che quei pellegrini avrebbero provato vedendo apparire a poco a poco, al levarsi del sole, sotto quell’immenso velo grigio, la città meravigliosa e inaspettata. E infatti, di là a poco, il velo fittissimo si cominciò a rompere nello stesso tempo in varii punti. Si videro apparire qua e là, su quella vasta superficie grigia, come tanti principii di città, che parevano isolette; un arcipelago di cittadine nuotanti nella nebbia, e sparpagliate a grandi distanze: la cima di Scutari, le sette cime delle colline di Stambul, la sommità di Pera, i sobborghi più alti della riva europea del Bosforo, la cresta di Kassim Pascià, qualcosa di confuso dei più lontani sobborghi del Corno d’Oro, laggiù verso Eyub e Hass-Kioi; venti piccole Costantinopoli, rosate ed aree, irte di innumerevoli punte bianche, verdi e argentine. Poi ciascheduna prese a allargarsi, a allargarsi, come se s’innalzasse lentamente sopra quel mare vaporoso, e venivan su, a galla, da tutte le parti, migliaia di tetti, di cupole, di torri, di minareti, che pareva s’affollassero, o si schierassero in furia, per trovarsi al proprio posto prima di esser sorprese dal sole. Già si vedeva sotto tutta Scutari; in faccia, quasi tutta Stambul; sull’altra riva del Corno d’oro, la parte più alta di tutti i sobborghi che si stendono da Galata alle Acque dolci; e sulla riva europea del Bosforo, Top-hané, Funduclú, Dolma bagcè, Besci-tass, e via, a perdita d’occhi, città accanto a città, gradinate immense di edifizi, e città più lontane che non mostravano che la fronte, suffuse dall’aurora d’un soavissimo rossore di corallo. Ma il Corno d’oro, il Bosforo, il mare erano ancora nascosti. I pellegrini non ci avrebbero capito nulla. Avrebbero potuto immaginare che l’immensa città fosse fabbricata sopra due valli profonde, e perpetuamente nebbiose, di cui l’una entrasse nell’altra, e domandarsi che cosa si potesse nascondere in quei due abissi misteriosi. Ma ecco, in pochi momenti, il grigio delle ultime nebbie si chiarisce – azzurreggia – splende – è acqua – è una rada – uno stretto – un mare – due mari: tutta Costantinopoli è là, immersa in un oceano di luce, d’azzurro e di verde, che par creato da un’ora. Ah! in quel punto, s’ha un bell’avere già contemplato da mille altezze quella bellezza, s’ha un bell’averla scrutata in tutti i suoi particolari, e aver espresso in mille modi lo stupore e l’ammirazione; ma bisogna strepitare e gridare ancora; e pensando che fra pochi giorni tutto sparirà dai nostri occhi, per non esser più che un ricordo confuso, che quel velo di nebbia non si alzerà mai più, che è quello il momento di dare l’ultimo addio a ogni cosa... non so... sembra di dover partire per l’esilio e che l’orizzonte della nostra vita s’oscuri.
Eppure anche a Costantinopoli, negli ultimi giorni, ci colse la noia. La mente affaticata si rifiutava alle nuove impressioni. Passavamo sul ponte senza voltarci. Tutto ci pareva d’un colore. Giravamo senza scopo, sbadigliando, coll’aria di vagabondi sconclusionati. Passavamo ore ed ore dinanzi a un caffè turco, cogli occhi fissi sui ciottoli, o alla finestra dall’albergo a guardare i gatti che vagavano sui tetti delle case dirimpetto. Eravamo sazii d’Oriente; cominciavamo a sentire un bisogno prepotente di raccoglimento e di lavoro. Poi piovve per due giorni: Costantinopoli si convertì in un immenso pantano e diventò tutta grigia. E quello fu il colpo di grazia. Ci pigliò l’umor nero, dicevamo corna della città, eravamo diventati insolenti, sfrontati, pieni di pretese e di boria europea. Chi ce l’avesse detto il giorno dell’arrivo! E a che punto si giunse! Si giunse a far festa il giorno che s’uscì dall’ufficio del Lloyd austriaco con due biglietti d’imbarco per Varna e per il Danubio! Ma c’era un punto nero in quella festa, ed era il dispiacere di doverci separare dai nostri buoni amici di Pera, coi quali passammo tutte quelle ultime sere, affettuosamente. Com’è tristo questo dover sempre dire addio, e spezzar sempre dei legami, e lasciare un briciolo del proprio cuore da per tutto! Non c’è dunque proprio in nessuna parte del mondo una bacchetta fatata con cui io possa un giorno, a una data ora, far ricomparire tutti insieme intorno a una gran tavola imbandita tutti i miei buoni amici sparsi alle quattro plaghe dei venti: te da Costantinopoli, Santoro; te dalle rive dell’Affrica, Selam; te dalle dune dell’Olanda, Ten Brink; te, Segovia, dal Guadalguivir, e te, Saavedra, dal Tago, per gridarvi che vi avrò sempre nel cuore? Ahimè! la bacchetta non si trova, e intanto gli anni passano e le speranze volano via.