Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
Fra scuola e casa

IL LIBRAIO DEI RAGAZZI

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IL LIBRAIO DEI RAGAZZI

 

 

Povero martire! Ogni volta che entrai nella sua bottega, ci risi molto; ma ne uscii pieno d'ammirazione e di pietà.

Aveva la libreria, o meglio la sua stanza di tortura, a un angolo di via Giusti, accanto alla Scuola municipale Norberto Rosa, poco lontano da un altro libraio delle scuole elementari, il quale gli disputava la piccola clientela con un'avidità scellerata.

Era una bottega tipica di libraio da ragazzi, ossia una miscela strana di cose disparate, minute, graziose, inutili, necessarie e ridicole, appunto come il cervello degli avventori. Ci aveva davanti una vetrina molto grande e poco pulita, piena di grammatichette e di trattatelli d'aritmetica, fra i quali erano esposte in disordine scatole aperte di pennini, ciotolette di polverino di vari colori con dentro confitti compassi e matite, mazzetti di trottole appesi in reticelle di spago, foglie e pistilli per far fiori finti, stampo di soldati coloriti, pezzetti di regolizia, libretti di preghiere e palline da gioco. Sul vetro in fondo, in mezzo ai ritratti in litografia di Leone XIII o di re Umberto, era appiccicato un cartello dipinto, con su scritto: — Nuovo gioco della Barca; — e sotto uno zaino di latta, con l'iscrizione in grandi caratteri: — Busta scolastica immortale, brevettata. E tutt'intorno calendari con figurine, carte da lettera infiorate o frangiate, modelli di disegno per lavori d'uncinetto, mescolati ad alcuni libri straordinari l'Osservatore del Gozzi, le Mie Prigioni, i Promessi Sposi, la Vita del Franklin, ingialliti, invecchiati in un triste abbandono, chi sa da quant'anni. Compiva la bizzarria di quella mostra una piccola flora libraria destinata alle serve che accompagnano alla scuola i ragazzi: una serie di volumetti tozzi e plebei, dalle copertine verbose, come La vera chiave del tesoro. La cuoca piemontese e il Segretario galante; tra i quali si leggeva (e non era fuor di posto) un avviso a stampatelli: — Ruolini per militari, — e attaccato al vetro davanti un altro avviso scritto a mano: — Si comprano e si vendono francobolli di qualsiasi nazione.

La bottega era piccola e buia, e c'era in fondo, di faccia alla porta un lungo banco dietro al quale il libraio e sua moglie sostenevano gli assalti delle bande scolaresche, come dietro a una barricata. Il libraio era un tipo anche lui, come la sua bottega: un uomo sui cinquant'anni, piccolo e leggermente scrignuto, con una larga faccia scialba e sbarbata da cuoco malaticcio, irascibile ma buono, con quattro peli di spazzola sulla fronte e una voce grossa e tremula da brontolone, continuamente minaccioso, ma dotato di una pazienza infinita.

Mi ricordo sempre della prima volta che andai da lui, per fargli certe domande, intorno al suo commercio, pochi minuti avanti che s'aprisse la scuola, che è l'ora in cui i compratori s'affollano. Gli dissi: — È una vitaccia, non è vero? — Il pover uomo non ebbe bisogno di rispondermi: tre ragazzi risposero per lui, tre piccoli avventori petulanti, che si presentarono col mento al banco, e cantarono tutti e tre a una voce, come se avessero concertato il terzetto sul marciapiede:

 

Mi dia un quinterno di carta a righe azzurre senza margine, un quaderno con la copertina rossa rigatura numero tre, e la facciata dell'esposizione sulla copertina, e un pennino di quelli con la gobba, ma fatti in questo modo, che non faccia la bava e guardi che lo provo

Voglio un quaderno di rigatura due con la copertina gialla e il ritratto della regina Margherita, un foglio di carta da disegno, più pulito dell'altra volta, e una matita da disegno da due soldi, ma buona, e ci faccia la punta come si deve da una parte e dall'altra.

A me un pezzo di gomma da dieci soldi, ma che non si rompa subito come quella della settimana passata, che mio padre ha detto, pare impossibile, son birbonate, una riga bianca da cinque centesimi, e anche una carta grande da soldati coi bersaglieri al passo di corsa.

 

Il libraio incrociò le braccia sul petto, soffiò, e disse: — Dite le vostre impertinenze uno alla volta.

Ricominciarono tutti e tre insieme.

Allora, secondo la sua abitudine, egli mise fuori un fischio lungo e sottile, che voleva dire: — domine, aiutami! — ultima espressione della sua pazienza; n'erano già passati ventisette quella mattina! Poi chiamò in soccorso la moglie, la quale tirò indietro per le spalle due dei ragazzi, perchè il terzo potesse cantar da solo; e dopo che li ebbe serviti tutti e tre, leticando, il pover uomo si rivolse a me e ricominciò le sue lamentazioni. Il comico era, come parlava dei ragazzi, usando lo stesso linguaggio che s'usa per gli uomini. — Eran gente piena di pretensioni e senza scrupoli. A casa e a scuola saranno stati bambini, ma, in commercio, dimostravan tutti quarant''anni. Era un mestiere da rimetterci l'anima, il suo. Guadagnar cinque soldi sopra cento quaderni; dover lottare con la concorrenza d'un vicino che gli aveva già portato via mezzi gli avventori dando per cinque centesimi un quaderno, un pennino e un pezzo di carta asciugante, ciò che obbligava lui a dare, oltre al quaderno, alla carta asciugante e al pennino, anche una figurina di decalcomania; aver che fare con una clientela ignorante e incivile, ma fornita d'una esperienza maravigliosa in materia di cancelleria, e d'una furberia matricolata in affari di quattrini; e poi con una genia di parenti che non si facevano vivi se non per difendere le piccole e grosse furfanterie dei figliuoli; sì, era proprio una vitaccia, un ammattimento, di cui io non avrei potuto farmi un'idea. — Un commercio da cani, son cani, — era il suo intercalare. — In parola d'onore, — conclusepreferirei d'aver bottega da libraio in mezzo ai galeotti. Eccone uno.

Entrava in quel momento un ragazzo, ch'egli conosceva di nome e di gesta, ed io assistei a uno dei cento battibecchi che riempivan la sua giornata.

Il ragazzo, un bel capetto da scapaccioni, con una berrettina rossa messa di sghembo, s'avvicinò al banco, che gli arrivava al naso, e disse con una voce da caporale di cattivo umore:

Un quaderno da un soldo, carta numero due.

Il libraio: — Hai il soldo?

Il ragazzo buttò il soldo sul banco.

Il libraio: — Sei poi sicuro che è il numero due?

Ho detto numero due.

Ecco il quaderno.

Mi dia insieme il pennino e la decalcomania.

Ecco il pennino e la decalcomania.

Voglio anche un foglio grande di carta asciugante.

Uno grande, non posso. Mezzo.

E allora io ripiglio il soldo.

Il libraio mise fuori il solito fischio. Poi mi disse piano: — Che vuole? Mi tocca a darglielo, se no va a far propaganda a scuola, e mi porta via mezza dozzina d'avventori. — E gli diede il foglio grande.

Adesso, — continuò il ragazzo, — mi dia ancora quattro ostie verdi.

Una legnata tra capo e collo ti , mascalzone indiscreto! — gridò il libraio. — Tu mi vorresti spogliare con un soldo, eh? Va fuori subito, o ti caccio via a calci nel groppone!

Ha capito? — disse poi, voltandosi verso di me, quando il ragazzo fu scappato; — che ladri! — Ma queste erano rose e fiori a petto del resto. Ce n'era di quelli che venivano a far delle minaccie: n'era venuto uno il giorno prima, il quale per non aver avuto, oltre al quaderno, come dall'altro libraio, una scatoletta di pennini usati, gli aveva detto: — Io a scuola comando a tre banchi; io le porto via tre banchi, sa lei? — Ce n'era altri, che per quella maledetta ambizione di far vedere che scrivon fino, compravano un quaderno di rigatura troppo fitta per loro, e avvertiti poi dal maestro che quello non serviva, gli riportavano il quaderno già imbrattato, con la pretensione ch'egli lo cambiasse, e se non lo cambiava, cominciavano a strillare e a piangere da far affollare la gente sul marciapiede. C'era dei farabutti che, speso il soldo paterno in caramelle, venivano a domandargli il quaderno a credito, dicendo che avevano scordato il soldo a casa o che quella mattina c'era l'esame, supplicandolo, giurando che avrebbero pagato la mattina dopo; e agguantato il quaderno, non si facevan più vedere. — E c'è di peggio, caro signore. Approfittano dell'affluenza dei giorni d'esame, sei o sette d'accordo, vengono qui a far confusione, due o tre intascan la roba senza pagare, e se la battono. Bisognerebbe essere in dieci al banco, e avere un questurino alla porta. Mi fanno mangiare il cuore, le dico... Sia maledetto l'acido fenico! — E così dicendo, si turò il naso, perchè era entrata una scolaretta ben vestita, a cui i parenti facevano i suffumigi ogni giorno, per preservarla dal coléra. — M'appestano anche la bottega! — esclamò, quando potè tirare il respiro. — Venga, venga dell'altre volte, se ne vuol vedere e sentire di tutte le tinte. Son cani.

Tornai qualche giorno dopo, e lo trovai con una certa faccia, come se avesse piantati nelle carni tutti i pennini di buona giunta che aveva distribuiti nella mattinata. Aveva avuto un tu per tu col padre d'un ragazzo, il quale gli doveva quattro soldi per quattro quaderni: il padre gli era capitato in bottega con un viso d'ammazzasette. — Lei dice che mio figlio non l'ha pagato! Ma io i soldi gli ho sempre dati! — Ma io non li ho mai ricevuti! — Ma mio figlio non mente! Misuri le parole! Farò i miei passi! — Era fuori dei gangheri, raccontandomi la scena, quando un ragazzo, di sulla porta, domandò con voce rauca:

Vuol comprare un francobollo della Bolivia?

Crepa! — rispose.

E continuò — Son cani. E i parenti ci tengon mano? Bisogna vedere. Vengon qui quelli di prima inferiore a comprare il libro di lettura con le vignette, e se lo portano a scuola. Lei sa la grazia che hanno a maneggiare la roba. Per la smania di veder subito l'elefante e il leone, abbrancano le pagine con tutt'e cinque le dita; come farebbero di uno strofinaccio. Può pensare come lo riducono. Ebbene, non vengono il giorno dopo i signori padri e madri dirmi: — O che sudiceria di libro ha caricato al mio figliuolo? — Dia un'occhiata, signore; guardi libri mi portano a legare!

E mi pose sotto gli occhi un libro di lettura che mi fece dare una risata. Io non avevo visto mai un povero volume giustiziato a quel modo, credevo che a tanto potessero giungere, lavorando insieme, l'artiglio e il naso infantile. Pareva che ci si fosse baloccata una famiglia di gatti dentro a un magazzino di carbonaio.

E pretendono che lo rimetta a nuovo, — soggiunse il libraio, dopo il solito fischio, — capisce? E son capaci, quando lo vengono a riprendere, di sostenermi in faccia che l'ho insudiciato io; io, mondo infame! Se questo è un mestiere da battezzati!

Intanto gli avventori si succedevano, serviti dalla moglie: ragazzine del popolo, con pettinature e voci da maschi; ragazzetti vestiti con eleganza; piccoli sbrindelloni col viso schiccherato d'inchiostro; dei grandi gamberoni di quarta; delle signorine di dieci anni, vestite alla moda, che volgevano intorno delle occhiate soavi o sprezzanti; e compravano un quinterno di carta da lettera, un gessetto, una pistola da un soldo, una tavola pitagorica. Una bimba di terza si fece cambiare due volte le decalcomanie, perchè le figurine "non erano interessanti." Un avventore col guscio in capo contò sul banco quattro centesimi spiccioli, e penò un pezzo a ripescare il quinto perduto in fondo a una tasca, sotto una manata di bucce di castagne. Uno piccolissimo che teneva la mano per aria col soldo, non si ricordava più di quello che dovesse comprare; e il libraio fu costretto a nominargli pazientemente dieci o dodici cose, fin che imbroccò la giusta, o lo potè mandare con Dio. Un altro, un muso da non volerlo in casa nemmeno dipinto dal Michetti, mise un soldo sul banco, e poi, distratto, credendo d'aver già il fatto suo, se no scappò senza prender nulla; e tornò di a poco minaccioso, col piglio d'un derubato, a gridare: — Ehi! E il quaderno che ho pagato? E il mio soldo?... il soldo che mi ha preso? C'era anche degli sbarazzini, che avevan dei debiti vecchi, e che mettendo le monete sul banco, dicevano: — Ecco i quattro soldi; ma si ricordi bene che con questo ho pagato tutto!... — e rimanevano un momento , con l'aria di volere una ricevuta. Il libraio sbuffava, metteva fuori il fischio solito, rispondeva ogni tanto col pugno stretto davanti alla bocca, come per dire: — Ah! se potessi servirmene! — Povero diavolo, ed era incapace di dare un biscottino sul naso. Una volta acceso un fiammifero per veder bene una mezza lira che gli aveva data un avventore di dubbia fama. E mi disse: — Faccio così perchè mi han già dato per mezzi franchi dei bottoni di stagno lavorati... ma lavorati con un'abilità! Che cani! E tu cosa vuoi? — domandò a un piccolo rompicollo, che aveva in capo una gran penna di gallo.

Mi dia, — quegli rispose, — un quaderno verde con la stampa della Suonatrice d'arpa.

Il libraio gli mise sul banco il quaderno verde con la Suonatrice d'arpa.

Il ragazzo lo respinse con mal garbo, dicendo: — Non ho detto questo.

Come, non hai detto questo? — domandò il libraio, incrociando le braccia.

No, signore, — rispose il ragazzo con la più franca disinvoltura; — ho domandato un quaderno turchino col monumento di Emanuele Filiberto.

Il libraio lasciò cascare le braccia e mi guardò. Poi, servito il ragazzo: — Ha veduto, che mutria? — esclamò. E soggiunse: — Ha mai visto rivoltar la frittata in una maniera più impertinente, lei?... Ebbene, io n'ho conosciute nel mio mestiere delle facce di ferro fuso; ma una compagna non m'era ancor capitata, com'è vero Dio.

E dopo aver rifiutato una giunta impossibile a un altro cialtroncello, il quale, per vendetta, andandosene via, gli mostrò un palmo di lingua, il pover uomo si lasciò andar giù sulla seggiola, cacciando le mani fra i suoi quattro peli di spazzola e mettendo un sospiro d'angoscia. La mattinata era finita.

Povera anima tribolata! Io tornai da lui molte volte nel corso dell'anno ed ebbi modo di conoscere tutti quanti i tormenti del suo miserando mestiere. D'inverno ci aveva la calamità della neve: gli portavan la neve attaccata gli zoccoli, gli scrollavano davanti al banco i mantelli ed i cappelli fradici, gli riducevano la bottega in una pozzanghera. D'estate, tornando da scappatelle in campagna e vuotandosi le tasche per far posto alla roba che compravano, gli coprivano il pavimento di terra, di sabbia, e d'erbacce, fra cui guizzavano dei grilli vivi e delle lucertole moribonde, che facevano strillare di spavento sua moglie. A Natale ci aveva il martirio dei fogli infiorati per le lettere di augurio, dei quali non eran mai contenti, e ogni avventore meditava mezz'ora prima di scegliere, e molti anche avevano la sfacciataggine di restituirgli il foglio dopo due giorni, dicendo che a casa l'avevan trovato brutto, e c'era già mezza lettera scritta! A capo d'anno, poi, il flagello dello strenne, quell'usanza barbara, che Dio ne guardi a levarla, di regalare la penna, la stampa o la regolizia a tutti i mascalzoni che si dicevano sue pratiche, e ne veniva un diluvio da ogni angolo di Torino. Si presentavano a mezze dozzine per volta, delle maschere non mai vedute, con pretensioni dell'altro mondo. Ed egli diceva: — Non v'ho mai visti! — Ed essi: — Siamo sempre venuti! — E lui: — Siete un branco d'impostori! — E loro: — Guardi come parla! — E allora egli faceva una sortita impetuosa d'assediato, e li cacciava fuori con una riga alla mano; e quelli dalla strada gli facevano lo corna o si picchiavano il pugno sulla guancia enfiata, e lo trattavan di mangiamosche e di carta sporca; al che l'infelice, soffocato dalla rabbia, rispondeva: — Ladri! Cani! Chiamo la guardia civica! — fin che, spossato, rientrava nella sua fortezza, e si buttava sulla sedia, gemendo: — fuoco alla bottega! È impossibile tirare avanti! Mi demoliscono! Son finito!

Qualche volta mi spassavo un po' a contraddirlo, quando dava addosso alle crescenti speranze, e anche cercavo di persuadergli la rassegnazione, ragionandolo. — Lei ha torto a rodersi il fegato a quel modo contro i ragazzi, perchèsenta — delle tre l'una: o son migliori di quello che eravam noi all'età loro, e c'è da rallegrarsene; o son tali e quali, e non abbiamo il diritto di lagnarci; o son peggio, e la colpa non è d'altri che nostra, perchè, insomma, è il nostro sangue che ci hanno nelle vene, e i saggi che ci danno sono il frutto della nostra educazione: di qui non si scappa. — A queste osservazioni non rispondeva, come se gli avessi parlato arabo: non faceva che ripetere: — Son cani — e tirava innanzi. — Ma il più ameno era sempre il frasario che usava, discorrendo dei ragazzi. Secondo lui, il nostro Codice penale aveva una grande lacuna. Ribatteva in special modo sulla difficoltà, sul merito che c'era a conservarsi onesti avendo che fare con quella gente. C'era dei ragazzi che gli venivano a proporre ogni specie di birberie, come di comprare per mezza lira dei libri rubati in casa che valevano dieci o quindici lire l'uno. E conosceva dei colleghi che ne approfittavano. — Ma io ho le mani pulite, — diceva; — tratto coi birbanti, ma da galantuomo. Nessuno di questi malviventi mi trascinerà mai accanto a lui alla Corte d'Assise. — La settimana avanti, per esempio, gli s'era presentala una bambina a comperare per dieci lire di "auguri a sorpresa",; dieci lire graffiate alla mamma, senza dubbio; e lui l'aveva rimandata con un rabbuffo da levarle l'appetito per una settimana. C'era da ridere, sopra tutto, a sentirlo parlare degli originali con cui si doveva confondere, degl'imbroglioni che gli facevan perder la testa con mille forme di contratti, di permute, di piccoli prestiti, di vendite a mora, di mercimoni complicati, escogitati con mia sottigliezza di vecchi faccendieri, che lo lasciavan pieno di stupore e vergognoso della propria grossezza. Conosceva certi stillini, certi piccoli scrocchi diabolici, ch'eran le sue bestie nere, una minaccia perpetua pel suo negozio; e ne parlava con un misto d'ammirazione e di terrore, come parlerebbe un finanziere di rivali potenti, coi quali fosse costretto a lottare, e da cui temesse qualche tiro da andarne per aria. — Vede quello con lo calze verdi? — mi disse una mattina, accennandomi un piccolo frusta-mattoni della terza elementare, che giocava con la trottola in mezzo alla strada. — Quello , — soggiunse abbassando la voce, — è più furbo di me, di lei e di tutti i librai di Torino messi in un mazzo. Quello mi mangierebbe la bottega in un mese, se non stessi in guardia! — E concluse con un sospiro, e col ritornello solito: — Cani.... le dico.

Ci aveva però delle giornate azzurre, rarissime, nelle quali, dopo aver fatto la solita sfuriata contro la genìa, ammetteva qualche eccezione: erano giorni in cui gli avevan dato un po' di respiro. — Certo, — diceva a modo di concessione, — ci sono anche dei galantuomi fra quella gente ; della gente coscienziosa, incapace di.... Ce n'è di quelli che hanno cuore, dei ragazzi che si vuotan le scarselle, qui al banco, per comprare libri e carta ai compagni poveri. La settimana scorsa un piccino di sette anni che si comprava un modello di carta della basilica di Superga, visto entrare un mendicante, gli gettò nel cappello il suo franco, e rimase a mani vuote. Tre anni fa, per esempio, il giorno di San Gaudenzio, tre ragazzi della seconda mi portarono un mazzetto. Non son tutti scellerati.... nemmeno in galera. — Questa era la più affettuosa espressione della sua indulgenza. Ma il seguente io gli cascavo in bottega, finita appena una dimostrazione ostile che gli avevan fatta davanti alla porta, dopo avergli lasciato sul banco, a guisa di biglietti di visita, dei rosicchi di mela e dalle nespole biascicate; e allora negava anche le eccezioni onorevoli: la generazione nuova era una marea montante di scelleraggine, l'Italia era perduta, a luglio egli avrebbe chiuso bottega, la sua salute era andata, non gli restavan che pochi mesi di vita. E metteva fuori un sibilo lunghissimo in cui pareva che esalasse l'anima sua.

L'ultima scena a cui assistetti nella sua bottega fu impagabile.

Entrò un ragazzo della quarta elementare, una faccia proibita, ch'egli guardò con sospetto.

Costui viene per farmi qualche tiro, — mi disse piano. Era un personaggio di sua conoscenza; avevano avuto che dire il giorno innanzi per una spugnetta da lavagna.

Il ragazzo s'avvicinò, mise un soldo sul banco e disse forte: — Mi dia una carta da bestie.

Il libraio lo guardò un momento per traverso, pensando che sotto quella richiesta ci fosso un'ingiuria. Ma il ragazzo rimase impassibile. Era quella, d'altra parte, l'espressione di cui si servivano tutti per dire una di quelle stampe colorite, dove son rappresentati gli animali più comuni.

Il libraio si voltò a cercare la stampa negli scaffali, tenendo sempre d'occhio il suo nemico: poi gli mise il foglio sul banco.

C'è l'asino? — domandò il ragazzo.

Il libraio fremette; ma tacque, dignitosamente.

Quegli prese il foglio e se n'andò.

Allora il buon uomo cominciò a esaminare attentamente il soldo, voltandolo con gran riguardo fra le punte delle dita, e dicendomi: — Lo guardo perchè alle volte, per vendetta, me li portano imbrattati di sterco. — Poi uscì dal banco e guardò tutt'intorno per il pavimento, o mi disse: — Guardo.... perchè ci son stati di quelli che hanno sparso dei piccoli petardi, e ne seguì un fracasso d'inferno, che un po' più mia moglie abortiva. — Poi guardò bene il davanti del banco, dicendomi che certuni, mentre egli era voltato a cercare negli scaffali, gli avevano appiccicato al banco una gran testa asinina di carta rossa, e poi erano venuti in folla i compagni a far baccano sulla porta. Esaminato il banco, uscì fuori dalla bottega, e rientrò un momento dopo, rassicurato, dicendomi: — Non ha sputato sulle vetrine. — Ma gli venne un nuovo sospetto, e tornò a uscire, e soggiunse rientrando: — Ho dato un'occhiata al marciapiede, perchè alle volte ci scrivono col carbone: — Libraio ladro, — e questo scredita il negozio. — Ha capito, eh? — conchiuse finalmente, — che razza di vita mi tocca a menare? Si sta meglio in un bosco pien di briganti che in mezzo a questa canaglia! — E cominciò a litigare con un altro ragazzo, domandandogli coi pugni sul muso "se lo voleva far crepar tisico"; un ragazzo alto tre spanne, il quale, avendo comprato due lapis e quattro soldi di decalcomanie, pretendeva non solo che gli temperasse i due lapis da tutte e due le parli, ma che gli attaccasse con lo sputo, sopra un foglio di carta, l'una dopo l'altra, tutt'e ventiquattro le figurine. Dopo quel giorno stetti un pezzo senza vederlo. Seppi che aveva avuto un colpo al cuore da un "giornalaio" il quale aveva rizzato un banco da giornali in faccia a lui; un birbaccione che vendeva pure libri di scuola e oggetti di cancelleria, a un tal prezzo, con tali giunte, da non poter esser altro che roba di malo acquisto: ed era per lui uno spianto vero, che l'avrebbe ridotto sulla paglia in sei mesi. E nel corso dell'anno non lo rividi più che una volta sul finir di giugno, ritto in mezzo alla strada, davanti alla scuola, pochi momenti prima dell'uscita, immobile e pensieroso, con lo sguardo fisso su quello mura funeste, che racchiudevano tante anime triste, tanti giuntatori, tanti tormentatori della sua vita. E dopo averlo contemplato un poco, me gli avvicinai, proprio nel momento che i ragazzi uscivano. La strada n'era piena; era un torrente di vita, un vasto fremito sonoro che si spandeva da ogni parte, come l'allegria d'una folata immensa d'uccelli. Dopo averlo salutato, mi voltai a guardare quello spettacolo, sempre nuovo e amabile, che fa passare tante speranze confuse nell'anima, e mi parve che anche lui, il povero martire, non fosse al tutto indifferente; mi parve che sotto il suo solito cipiglio irritato, in fondo in fondo, ci fosse una leggerissima espressione di maraviglia e di simpatia, o come il balenio velato del perdono. E gli dissi, accennandogli quel torrente festoso: — Bello, non è vero?

Ma invece di strappargli l'espressione dei sentimento insolito, la mia domanda lo richiamò tutt'a un tratto ai sentimenti usati.

Sì, sì, sta bene, — riprese con la sua voce burbera, benchè un po' raddolcita; — a vederli così.... Ma (e qui uno scoppio di collera) bisogna provarli negli affari, nel commercio! la vorrei vedere, signor mio!

E voltato l'onesto scrigno, rientrò nella sua stanza di tortura.

Nella quale m'affacciai a salutarlo l'ultima volta due mesi fa, al riaprirsi delle scuole, perchè, passando di per caso, e vedendo nelle sue vetrine, in mezzo alle trottole e ai sillabari, un libretto giallo che mi stava a cuore, non potei trattenermi dal fargli i miei ringraziamenti. — Vedo che ce l'ha anche lei, — gli dissi, mettendo il viso dentro.

Eh! che cosa vuole! — mi rispose, ritto dietro al banco; — quell'asino d'un "giornalista" in faccia l'ha messo subito fuori; l'ho dovuto prendere anch'io.

E poi mi fece mi cenno e un sorriso, come per dirmi che l'aveva letto.

Io aspettai con grande curiosità il suo giudizio. — Ebbene? — gli domandai.

Egli scrollò il capo in un certo modo, che prometteva poco.

Poi mi espresse il suo giudizio letterario e pedagogico, con queste semplici parole:

Ebbene... creda a me: son cani.

 

 

 


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