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La maestra Faustina Galli fu contenta quando ottenne d'essere trasferita dalla sezione maschile della scuola Norberto Rosa alla sezione femminile della scuola Savoia, sia perchè nei comuni rurali aveva quasi sempre insegnato a ragazze, sia perchè nella scuola Dora, posta in un sobborgo popolare della città, i parenti dei suoi alunni, quasi tutti braccianti e erbivendole, le rendevano dura la vita. Non che ella disprezzasse il popolo, che l'amava per istinto e per sentimento cristiano; ma ai padri che entravano in iscuola con le mani in tasca a bestemmiare per una penna perduta e alle madri che le venivano a domandar ragione d'un castigo coi pugni sui fianchi e col frasario mercatino alla bocca, non si poteva accomodare il suo animo forte, ma delicato, intrepido davanti a un pericolo, tremante sotto una villania. Oltrechè il turpiloquio incorreggibile di quei ragazzi, nati, si può dire, e cresciuti per la strada, e più il veder la sua opera educativa continuamente contrastata e resa presso che nulla dal malvolere o dal mal esempio delle famiglie, erano per lei un tormento, a cui non aveva forza di reggere. Era stata incerta un pezzo prima di domandare d'andarsene: poi le aveva dato l'ultima spinta la birbonata del figliolo d'una lavandaia, il quale, all'uscita della scuola, per farsi render lo zaino ch'essa gli riteneva per punizione, le aveva ghermito il cappellino all'attaccapanni e se l'era strascicato dietro per i due nastri, a modo di carrettella, giù per le scale infangate.
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La nuova scuola femminile, vicina al centro della città e popolata d'ottocento ragazze, delle quali il minor numero eran del popolo basso, lo piacque, pure come spettacolo. La grande sala a terreno, dove davan gli usci di otto classi e quello dell'ufficio della direttrice, con quegli innumerevoli cappellini di ogni forma, appesi alle pareti in quattro lunghissime file variopinte, aveva l'aria d'una sala inghirlandata per una festa. Anche l'aspetto della sua scolaresca di 3a, con tutti quei grembialini bianchi, con quella varietà di pettinature a trecce, a riccioli, a ciuffetti, a capelli sciolti, con quei nastrini e quelle calze di ogni colore, era assai più grazioso di quello delle sue antiche classi femminili dei villaggi. Essa sentiva nella scuola un vago odore di pomate fini, di fiori nascosti e di stiratura fresca, che le metteva allegria, come la fragranza d'un giardino. Ma sopra tutto si divertiva a vederle venir a scuola la mattina, a processioni e a frotte, che affollavan la strada, e non finivan mai di passare: cinquantine di ragazze tra gli undici e i tredici anni, con un palmo di vita e un metro di gambe, tutte linee rette dal capo infantile ai piedi lunghi, somiglianti a canne vestite; altre più piccole, ma d'una precocità di curve quasi comica, delle forme di donne raccorciate, in cui la natura non aveva più a far altro che dare una spinta di sotto in su; delle signorine quasi da marito, che portavan la cartella col braccio cascante e con aria trascurata, come per dire: — Badino, signori, che è l'ultimo anno che la porto! — e poi centinaia di bimbe d'ogni ceto, vestite e ornate con le più strane invenzioni e industrie materne, con penne spropositate sui cappelli, con bonegrazie sproporzionate o fuor di posto, coi loro nomi ricamati a lettere di scatola a traverso ai grembiali, con vite di velluto stinto, con casacchine fatte di tendine e di federe, con scarponi, scarpettine, zoccoli, stivaletti alla russa, con manicotti di pel di gatto e calze bucate, con cappelli da maschietti e cappucci da monachelle, con gonnellino da saltatrici e gale da fantocce: una mescolanza di lusso e miseria, di piccole superbie e di bizzarrie gentili e di civetterie e di grazie minuscole e ingenue che la facevan sorridere con le lacrime agli occhi.
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Ma la sua contentezza fu temperata fin dai primi giorni dalla direttrice: una zitellona sui quarantacinque, una specie di marescialla dei carabinieri, dalle forme d'una Giunone enfiata, vestita con certa eleganza austera, serrata in un busto che la teneva su impettita come una corazza d'acciaio, con un enorme cappello nero, sormontato d'enormi penne nere, che pareva un piccolo catafalco. Costei era profondamente persuasa che nessuna donna stesse al di sopra d'una direttrice di scuole municipali, eccettuata, forse, la regina d'Italia. Aveva sotto di sè, come soleva dire, diciotto maestre nella sezione centrale, e quattordici in due scuole succursali, e si diceva che ogni giorno, svegliandosi o andando a letto, le contasse sulla punta delle dita, con una voluttà d'orgoglio ineffabile. Era molto temuta dalle alunne, che rimetteva in fila a colpi d'ombrello, e a cui nessuno l'aveva mai vista fare una carezza, e trattava con durezza particolare le madri giovani e belle: era poi severissima riguardo all'abbigliamento delle maestre, alle quali non permetteva nè colori troppo vistosi, nè vestiti troppo corti, nè cappellini troppo larghi, nè fiori nei capelli, nè riccioli, nè profumi. A quelle che arrivavano in ritardo d'un minuto, mostrava l'orologio, senza parlare; pretendeva che tutte, prima d'uscire, si presentassero a domandarle se le occorreva qualche cosa; non voleva che ricevessero lettere alla scuola, nè che camminassero a passetti saltellanti, nè che stringessero la mano all'inglese. Aveva un modo di guardare come chi crede d'avere una grande potenza negli occhi, e parlava in chiave di contrabbasso, con parole scelte o gravi, facendo una pausa a ogni frase, come per sentire il tonfo che doveva far nell'anima dell'ascoltatore.
Quanto al grado della sua cultura, riusciva un mistero imperscrutabile a tutti, da tanto ch'era coperta dalla prudenza e protetta dalla maestà; ma le maestre dicevano che non leggeva mai un libro, perchè era così piena di sè, che oramai nessuna nuova idea o cognizione vi avrebbe trovato posto. La spalleggiava ottimamente la bidella, una commarona atletica e barbuta, dall'andatura ad anatra, che si sospettava le facesse la spia, e metteva terrore a tutti; anche alle maestre, alle quali s'andava a piantar davanti con la calza in mano, quando tardavano a entrare in classe, guardandole con un viso ammonitore. Si diceva pure che la direttrice facesse tener d'occhio le maestre dalla guardia civica e che interrogasse di nascosto il portalettere intorno alla loro corrispondenza epistolare. Insomma, aveva presso tutto il ceto scolastico la fama non immeritata della più feroce mangiamaestrine di Torino. E non di meno parve alla Galli di non averle fatto alla prima una cattiva impressione. Perchè, in fatti, essa riuniva tutte le condizioni che ci volevano per andarle a genio: aveva trentadue anni, l'età media che quella preferiva, perchè più giovani eran leggere, o più attempate, poco maneggevoli; graziosa, ma non da dar troppo negli occhi, benchè avesse una bocchina bellissima; più piccola di lei di quasi un palmo; al che teneva molto, e vestita con modestia; e poi senza parenti in città, e quindi più sua; e buona d'apparenza, ma d'un carattere logico e fermo, che avrebbe frenato la bontà, di cui quella diffidava. Andarono per ciò di perfetto accordo nel primo mese, durante il quale non barattarono, fuorchè per ragioni di servizio, venti parole. Solo qualche volta, entrando piena di freddo nell'ufficio, la maestra domandava: — Permette che mi scaldi un po' in piedi? — e quella rispondeva: — Faccia; — oppure: — Mi posso sedere un momento? — e quella: — Segga. — O le diceva gravemente: — Vigili sulla tal ragazza: c'è del marcio; — perchè s'occupava con zelo inquisitorio delle quattro o cinque alunne peggiori di ciascuna classe, e lasciava credere d'avere a questo fine un servizio segreto di polizia.
Non ci voleva di meno d'una tal direttrice per tenere in riga una famiglia di maestre così diverse di temperamento e d'idee com'erano quelle della scuola Savoia. Quella che ispirò alla Galli maggior simpatia, fin da principio, fu la Massi, cinquantenne, maritata a un maestro, carica di figliuoli, ch'essa andava ad accompagnare e a prender correndo a scuole e a istituti: buona massaia anche con le sue alunne, a cui spiegava come faceva la spesa, come cucinava, come rivoltava i vestiti, come risparmiava il centesimo, sbocconcellando panini persino in iscuola, perchè tra grandi e piccoli non le lasciavano il tempo di mangiare a casa; e sempre affannata, sempre mal pettinata, tutti gli anni incinta e tutti i giorni di buonumore, come se non avesse mai un pensiero pel capo. Anche le piaceva, per ragion di contrasto, la Dorini, il tipo della maestra che cerca marito: non più giovanissima, non occupata d'altro che dei suoi vestiti, e artista a ore avanzate; la quale provvedeva alle sue spese di lusso dipingendo fiori per scatole di confettieri, si portava il Giornale della moda e dei pacchi di nastri e di pizzi nella scuola, dove lavorava per conto suo; ficcava l'amore nei temi di composizione ogni volta che poteva, e credeva ogni mese d'aver ispirato a qualcuno una passione definitiva, anche un poco in virtù della lingua francese, che si gloriava di sapere, e di cui incastrava una parola o una frase in ogni periodo, a dispetto di tutti i santi. Costei, sempre in lotta con la direttrice a causa dei vestiti corti, e un po' sostenuta con lo colleghe vestite male, era l'aristocratica della moda. Un'altra, la Dechiari, era l'aristocratica dell'intelligenza e dell'educazione: una pallidina elegante, con gli occhiali d'oro o le gambette storte, uditrice alla Università, altera del suo diploma di storia e di lettere, più altera d'esser stata tre anni a Firenze, tanto che non leggeva i giornali di Torino per non guastarsi la lingua, alterissima di dar lezioni private a figliuole di contesse e di marchese; le quali alterezze, peraltro, non le impedivano d'andar raccogliendo sottoscrizioni per far stampare un suo libro di lettura; ed era ogni anno in lite con le sue colleghe, all'aprirsi del corso, perchè non voleva bimbe di soffitta nella sua scuola; oltre di che, per farsi credere di famiglia ricca, non andava a riscuotere Io stipendio che ogni sei mesi. C'era anche la maestra di "antico modello" che si trova in quasi tutte le sezioni: una ragazza sui trentacinque anni, vestita da portinaia di convento, coi capelli lisci e il solino alto, puntuale come un cronometro, che non parlava mai altro che di programmi e di regolamenti, che faceva scuola da dieci anni nello stesso modo, nemica d'ogni novità, asciutta con le colleghe, imparziale con le alunne, parlante come una grammatica, e così meticolosamente severa in materia di lingua che aveva trovato una volta tredici improprietà in una pagina di Carlo Gozzi, che una ragazza aveva spacciata per sua. Questa la chiamavano l'Uggia della sezione. L'"Allegrezza" era una bella e indiavolata maestra napoletana, dai denti bianchissimi e dalla voce squillante, che si faceva rimproverare spesso dalla direttrice per dei solfeggi che le scappavan di bocca anche in iscuola, e per il vezzo monellesco che aveva di salir le scale a lunghi salti, senza curarsi di quello che scopriva; il che "mal si conveniva alla dignità d'una educatrice". A lei faceva contrapposto una piccola maestra tra le due età, religiosissima, che s'era separata dal marito (dicevano) perchè le aveva rotto per isbaglio un crocifisso, e che, prima degli esami, dava alle bimbe delle immagini sacre da tener sul cuore la notte per poter far bene i lavori; le quali bimbe, poi, si divertivano a tormentarla con delle interrogazioni falsamente ingenue, che la facevano arrossire e balbettare come una colpevole. Ma la più originale era una soprannominata la misteriosa, una figura alta e strana, vestita sempre di nero, con un velo nero; la quale teneva la scuola semibuia, parlava con voce profonda, agitando una lunga bacchetta, e non dava che temi tristi: era segretaria della "Cassa per gli onori funebri agli insegnanti," e si diceva che fosse spiritista, o che avesse una camera tappezzata di scuro, come una sala mortuaria, in cui nessuna delle sue colleghe aveva mai potuto penetrare; poichè, finita appena la scuola, spariva come un'ombra, e nessuno sapeva dove andasse nè come vivesse. C'era infine una maestra Frosetti, di venticinque anni, piccolina e grassa, tutta tonda, con un viso come una luna rosea, con un modo curioso di gestire come se palpasse continuamente e da tutte le parti un corpo sferico; e questa aveva un'abilità maravigliosa a imitare il viso, le voci e le mosse di chi che sia; tanto che, ogni volta che potevano, le si affollavano intorno le compagne, e lei rifaceva la direttrice, la bidella, le mamme delle alunne con una perfezione da fare schiattare dalle risa. Queste eran le maestre tipiche. E come sempre segue, ciascuna di esse foggiava presso a poco le alunne a sua similitudine. Quelle della Dorini tendevan tutte un poco all'ambizione e alla leziosaggine, nella classe della misteriosa dominava la musoneria, la "maestra di antico modello" fabbricava dei piccoli automi, la scolaresca della Dechiari era un'accademia di saputelle, le bimbe della beghina si davan delle arie di santocchieria, le ragazze della Frosetti erano delle buffoncelle che ridevano alle spalle del mondo intero. C'erano ancora due giovani maestre supplenti che facevano alla direttrice una corte umilissima, come a una sovrana.
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La maestra Galli ebbe presto un disinganno nella sua scuola, riconoscendo quanto le alunne di città fossero meno sottomesse di quelle della campagna, poichè queste la consideravano come una signora, di condizione superiore a loro, mentre le cittadine, per un tal rispetto, o la tenevano come un'eguale o si credevano di gran lunga da più di lei. Oltrechè trovò le cittadine più finte, più ingegnose a inventare ogni specie di scuse alla negligenza e di arti per legger la lezione di nascosto, più cocciute a non confessare il torto, più impazienti dei rimproveri, più taglienti e ironiche nelle risposte. Ne scoperse delle profondamente astute, che l'adulavano con finezza ammirabile per farsi dare dei buoni punti, delle orgogliose che, piuttosto di subire il castigo del banco appartato, si facevano condurre a casa dalla bidella, delle nemiche rabbiose che si insudiciavano i quaderni, si levavano i ferri dalle calze, si rompevano penne e matite, si chinavano sotto i banchi e si mordevano le gambe. Ed eran più divagate di quelle dei villaggi, occupate in un minuto commercio continuo di mazzetti, di fettucce, di perline, di braccialetti e d'anellini da pochi soldi, in uno scambio clandestino di piccoli album, di letterine e di foglietti, sui quali scrivevano scherzi, pensieri, notizie, cose misteriose. E non si parla della vanità femminile, della quale la maestra rimase addirittura stupefatta, poichè arrivavano fino a strapparsi a vicenda le penne dai cappellini appesi nel camerone, quando uscivano per un bisogno, o ve n'era che si portavano in iscuola uno specchietto, delle boccette d'acqua d'odore, dei ferri per farsi i riccioli, dei pettini per darsi una ravviatina prima d'uscire. Di più essa le sorprendeva troppo sovente a disputare intorno ad argomenti extra scolastici, come la piccolezza dei propri piedi, la bellezza comparata delle loro sorelle e i vestiti nuovi della maestra Dovini e d'altre signore. Nè questo era il peggio, poichè le accadde nei primi giorni di strappar dalle mani di una scolaretta una lettera scrittale da un alunno delle scuole elementari, la quale l'avrebbe indignata se non avesse avuto questo di comico, che era firmata da due amanti. E verso la fine del primo mese dovette proibire i mazzetti di fiori che quasi tutte si mettevano al petto in giorni determinati, quando veniva un giovane medico municipale, mandato a visitar le scuole tutte le settimane, perchè infieriva nella scolaresca una congiuntivite granulosa.
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Riuscì non dimeno, col contegno dignitoso e con la bontà ferma e giusta, a ottener molto in breve tempo. Ma dal lato dei parenti non si trovò a star tanto meglio nella nuova scuola quanto aveva sperato lasciando l'altra, poichè è vero che la maggior parte era gente educata, ma ce n'era fra i maleducati cinque o sei, che valevan per cento. La più terribile era una popolana, la quale si diceva moglie d'un "ex impiegato civico" (spazzino del municipio), un pezzo di donna tarchiata, con gli occhi torti, con una gran pancia, che le teneva alte davanti lo gonnelle sudicie, scoprendo due stivalacci da uomo. Suo marito faceva il facchino a suo comodo e rifrustava le bettole; essa raccapezzava la giornata con le elemosine della parrocchia, andando a vegliare i morti, e tenendo qualche volta un banco di caramelle alle feste dei sobborghi. S'ubbriacava lei pure, e quando tutti e due rientravano in casa sborniati, si pestavano come bestie e si minacciavan coi coltelli, urlando da far salire i carabinieri. Avevano una sola figliuola che era alunna della Galli, e che certe mattine veniva a scuola bianca dallo spavento per le scenacce vedute in casa, e sfinita dalla fatica, per non aver chiuso occhio la notte. Da principio la madre aveva preso la maestra in odio. Mandata a chiamare due volte perchè la bimba era venuta spaventata a quel modo, le aveva detto delle impertinenze. — O che crede che io abbia del tempo da buttar via? — S'è bisticciava col suo patito, madamigella, che ha così la camicia per traverso, questa mattina? — Ma poi, avendola la maestra presa con le buone per pietà della bambina, essa era diventata anche più fastidiosa: era lì due o tre volte la settimana, e pretendeva che la Galli la stesse a sentire: raccontava, mandando delle zaffate d'acquavite, le battaglie che aveva sostenute con suo marito: lui m'ha agguantata così, io l'ho acciuffato in questo modo, e lui pif ed io paf, e poi qui e poi là, tutti i particolari del pugilato; e si vantava della sua forza, tendendo il braccio: — Guardi che spranga di ferro! — La maggior gloria della sua vita era d'essere sfuggita una volta a una guardia di questura che l'aveva arrestata per ischiamazzi notturni. E pure nei suoi occhi sanguigni, sotto l'espressione sonnolenta e torva, appariva a momenti il barlume d'una bontà antica, bruciata dall'alcool. E allora ostentava un grande amore per la bimba, che di solito picchiava e mandava lacera, e la colmava di carezze smodate, le quali la lasciavano tutta stupita e diffidente. La bimba aveva nove anni e mezzo e un visetto simpatico; ma era malandata e mezzo istupidita dalle busse e dagli spaventi, e stava nella scuola nell'atteggiamento d'una mendica che sapesse d'esser tollerata per compassione.
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Aveva però un'amica fra le compagne, una ragazzina di dodici anni, la quale era stata l'anno avanti nella classe della maestra Dorini, e si trovava così indietro per l'età sua a cagione d'una malattia grave che l'aveva tenuta in casa venti mesi, tra la 1a superiore e la 2a. Si chiamava Giulia Orveggi, e aveva fin dal primo giorno attirata l'attenzione della maestra col suo viso bianco di convalescente e coi suoi occhi malinconici, che la guardavano sempre. Suo padre era un antico impiegato delle Poste che aveva lasciato il servizio, appena compiti i cinquant'anni, per una malattia di cuore, e che quasi ogni giorno, mattina e sera, veniva ad accompagnare o a prender la figliuola alla scuola. A quella data ora, in mezzo alla folla dei parenti e delle persone di servizio che aspettavano l'uscita delle ragazze, sempre allo stesso posto, a sinistra della porta del camerone, si vedeva quella figura d'impiegato paziente e metodico, alto, un po' curvo, precocemente invecchiato, trasandato nel vestire, d'un viso onesto e benevolo, sul quale era dipinta una tristezza che non svaniva mai, neppure nel sorriso inesprimibilmente affettuoso che gli brillava negli occhi al comparire della sua bambina. Dall'atto con cui egli la cercava tra le file e le andava incontro con la mano tesa e se la portava via, si capiva che aveva per lei un affetto sviscerato, e che non doveva avere al mondo altro affetto, e pareva che la bambina gli corrispondesse con eguale tenerezza, poichè non sorrideva che vedendo lui. Egli salutava la maestra con profondo rispetto, e ogni tre o quattro giorni, le domandava notizie della figliuola, tenendo il cappello in mano, e parlando con la voce un po' tremola della gente buona o debole, che ha molto sofferto; e al sentire che la bimba era quieta e attenta e che studiava, la guardava sorridendo, e ogni sguardo pareva una benedizione. Non avendo mai visto altro che il padre, la maestra credeva ch'egli fosse vedovo; ma un giorno egli la disingannò dicendole che "la sua signora" sarebbe venuta a salutarla.
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Ma dopo due mesi ch'era incominciata la scuola la signora non s'era anche vista. La Galli, peraltro, non ne fu punto stupita, poichè sapeva che parecchie madri non si lasciavan vedere in tutto l'anno, e mandavano a chiedere informazioni dalle cameriere o anche da commessi o giovani di studio dei mariti, e quando le maestre le facevan pregare di venire per qualche mancanza grave delle figliuolo, si scusavano per lettera, adducendo che il tempo era umido o che era il loro "giorno di ricevimento". Si stupiva invece del come era vestita la ragazza, la quale, nonostante che avesse indosso della roba buona, conveniente all'agiatezza della famiglia, mostrava evidenti i segni della trascuratezza materna, poichè portava alle volte un vestito di lana finissima e delle calze di cotone che ragnavano, un bel cappellino di velluto e degli stivaletti scalcagnati, e doveva esser mal coperta di sotto, perchè il freddo la strizzava. Da questo e da altri indizi la maestra capì che la bimba non doveva essere amata da sua madre, e giudicò questa prima di vederla. Ma come si poteva non amare quella creatura? Era minuta o gentile di forme, e teneva il capo un po' da una parte, ripiegato sul collo sottilissimo, con la grazia d'un fiore. Lo sguardo dei suoi occhi neri aveva una fissità e una forza di penetrazione straordinaria, ed esprimeva una bontà e una malinconia di persona adulta, una malinconia non derivante dalla natura, ma da una disgrazia, e l'espressione del suo viso, benchè ingenua, diceva ch'ella doveva sapere o sospettare molte cose tristi della vita. Non dimostrava la sua bontà, come altre ragazze di cuore espansivo, con baci o tenerezze verbose; ma col perdonare le molte piccole malignità che fanno in ogni scuola le perverse alle buone e le svogliate a quelle che studiano; e perdonava tutto, subito, con aria quasi di compatimento affettuoso, come se ogni offesa le paresse un nulla paragonata alla cagione, quale che fosse, di quella sua costante tristezza. La maestra non le aveva mai visto tra le mani nè un fiore, nè un nastrino, nè alcuno di quei cento gingilli che correvan per le mani delle altre. La bimba guardava sempre lei con uno sguardo dolcissimo, che qualche volta la distraeva perfino dalla lezione e le metteva dei pensieri malinconici.
Stava in uno dei due primi banchi, accanto alla figliuola del facchino, alla quale aveva posto un affetto particolare, dopo che quella era venuta una mattina stravolta e tremante e aveva raccontato singhiozzando che suo padre era tornato a casa tutto insanguinato, per una ferita toccata in rissa. Ma la sua simpatia per la compagna di banco era nata fin da anni prima, durante un inverno che la madre di lei aveva servito come giornante in casa sua per accender le stufe, e menava con sè la figliuola per poter chiudere la soffitta. Ella si ricordava di quella povera bimba in cenci, con cui la mamma non le permetteva di giocare e che stava delle ore immobile in un angolo dell'anticamera, guardando con timida curiosità, quando un uscio s'apriva, i bei mobili e i quadri delle stanze vicine; si ricordava della gioia avida e vergognosa insieme, con la quale afferrava e addentava ogni cosa che a lei riuscisse di prendere nella credenza e di porgerle di nascosto; e su quei ricordi pieni di pietà, ai quali si legava la memoria delle sue prime tristezze di bambina aspreggiata o negletta, era cresciuta la nuova amicizia. E anche per questo la maestra le prese a voler bene. E fingeva di non vedere quando metteva qualche regaluccio in mano all'amica, di sotto al banco, o le suggeriva la lezione, o le faceva i capelli dietro l'orecchio, di sfuggita, con un atto carezzevole, per consolarla d'uno dei soliti spaventi della notte. La povera bimba, dal canto suo, non amata da nessuno, e disprezzata dall'altre compagne, le dimostrava la gratitudine e la devozione umile d'una serva, le si stringeva al fianco come un cane freddoloso, guardandola con ammirazione, e spesso, durante la lezione, cercando di non lasciarsi vedere, le teneva un braccio intorno alla vita. E quando uscivano in fila, le si metteva sempre accanto. Perchè era dolce d'indole essa pure, e i patimenti la purificavano della corruzione che le entrava per gli occhi e per gli orecchi nella turpe compagnia in cui viveva.
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La piccola Giulia aveva anche una nemica dichiarata, una Maria Vinini, figliuola d'un ex ufficiale di cavalleria, vedovo e scapigliato, un bell'uomo biondo e petulante, che veniva sovente alla scuola, dove osservava con attenzione straordinaria gli stivaletti delle alunne più grandi e i contorni delle maestre più giovani; quelli della maestra Dorini in particolar modo, la quale non gli passava una volta dinanzi senza lanciar per aria una parola francese. Questa Maria Vinini era "la bellezza" della classe, e un sacchetto di vizi, un impasto di tutte le peggiori qualità delle sue compagne peggiori. Aveva il viso di una madonnina, con gli occhi d'un diavolo; la voce armoniosa e il riso stridulo; una bianchezza marmorea, la franchezza e il vigore di gesto d'una donna. Vestiva con eleganza un po' chiassosa, da figliuola di gente di teatro, e anche in iscuola s'occupava molto più del suo corpicino che dei suoi studi. Si stringeva continuamente ora una mano ora l'altra col fazzoletto attorcigliato, per farsi le mani piccole, si ripuliva i denti con delle foglie di salvia, si profumava senza discrezione, e quando veniva il medico municipale, si mordeva le labbra a sangue per mostrar la bocca vermiglia. Aveva una superbia di regina, non accettava in silenzio neppure i rimproveri più cortesi. Rimproverata un giorno dalla maestra per la cattiva calligrafia del componimento, le aveva portato il giorno dopo, come una protesta ironica, una pagina di aste. Domandata un'altra volta perchè non mutasse maniere, aveva data a faccia fresca questa bella risposta: — Perchè ora non si usa più di esser tanto timide. — Aveva spinto l'audacia fino ad approfittare di una momentanea assenza della maestra per cambiare sul quaderno dei punti un cinque in un nove, senza pensare al riscontro da registri, e, scoperta, aveva negato con un'ostinazione e un'impudenza da far rabbrividire. E quando pigliava a perseguitare una compagna, era spietata. La Galli la guardava alle volte come una creatura misteriosa, domandando a sè stessa donde potesse nascere tanta perfidia in una ragazza bella, sana, di famiglia agiata, trattata in casa con grandissima indulgenza, e che pareva non avesse nulla a desiderare, nessuno da invidiare. Pareva che lo mancasse affatto la fibra dell'affetto, non dava il ben che minimo segno di commozione durante la più commovente lettura, non mostrava sentimento che nell'orgoglio e nell'ira. E Giulia Orveggi, con la sua dolcezza, l'irritava. Essa l'aveva presa in odio fin dalla prima volta che s'eran viste, come se avesse riconosciuto in lei una nemica nata. Non perdeva un'occasione di farle uno sgarbo o uno scherno, la burlava per la sua amicizia con la bimba povera, domandava apposta d'uscir dalla classe per andarle a mettere nel cappellino appeso alla parete del camerone dei biglietti anonimi pieni di ingiurie: — Sei brutta, sei malvestita, sei gialla, non hai più due anni da vivere. — Ma la Giulia lacerava i biglietti, rattenendo il pianto, e perdonava.
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Intanto era passato il primo trimestre di scuola. Un giorno, avendo visto la ragazza più pallida del solito e con gli occhi rossi, la maestra la trattenne mentre l'altre uscivano, e, pigliandole tutt'e due le mani, le disse: — Che cos'hai, Giulia, che sei sempre così triste? Tu sei buona: i buoni debbono essere contenti. Mi fa male vederti sempre a quel modo. Perchè non dici nulla a me, se hai una pena che tu possa dire? lo non sono soltanto la tua maestra, ma un'amica, una sorella, per te.
La ragazza le diede uno sguardo pieno di gratitudine e di tristezza, e poi chinò il capo senza parlare, in modo da far capire che non taceva per diffidenza, ma per coscienza di dover tacere.
— In ogni modo, — riprese la maestra, — ricordati sempre che io ti voglio bene, e che ti posso dar dei conforti e dei consigli. — E baciandola in fronte, le disse; — Va, bambina.
Questa si guardò attorno, e visto che non v'era più nessuno, le gittò le braccia al collo con uno slancio di tenerezza, e le diede un bacio in cui la maestra sentì il fremito d'un singhiozzo represso. Poi fuggì.
Dopo d'allora, la Galli osservò che ogni volta che la ragazza veniva a scuola più triste del solito, anche suo padre, venendo a prenderla, era più afflitto e più stanco degli altri giorni; e allora appunto andava incontro alla figliuola con più vivo affetto, quasi con impeto, e non si contentava di darle un bacio sui capelli, ma, baciandola, le afferrava il capo con le due mani, e la teneva qualche momento sotto le sue labbra, con un'espressione quasi di gratitudine appassionata, come s'ella venisse a sollevarlo da una grande angoscia. La maestra capì che doveva essere una sola la causa dell'afflizione di tutti e due: la madre, senza dubbio. E anche le pareva che quell'amor paterno s'andasse di giorno in giorno infervorando e volgendo all'adorazione. Ora egli s'avvicinava a lei quasi tutti i giorni, non tanto per chiederle informazioni della ragazza, quanto per esprimerle, più con gli occhi che con le parole, la sua gratitudine per la benevolenza ch'essa le dimostrava. Una mattina, dopo intese le lodi solite della figliuola, guardò fisso la maestra con gli occhi umidi e tristi, e le disse come di scatto, con un accento quasi di rimpianto: — Lei è buona.
La maestra arrossì un poco, non sapendo che rispondere. E, per uscire d'impiccio, gli domandò come distrattamente, guardando altrove: — Lei ama molto la sua figliuola, non è vero?
Il padre rispose con una voce sommessa, ma che la riscosse come un grido: — È la mia vita.
La Galli gli accennò dell'amicizia pietosa della sua figliuola per la bimba del facchino, e d'allora in poi egli salutò sempre quella bimba con un sorriso, accompagnandola qualche volta con lo sguardo benevolo mentre s'allontanava per la strada. Poi stette qualche giorno senza farsi vedere; veniva in sua vece una servetta dalla faccia ardita, con una gran frangia di capelli sulla fronte. Interrogata dalla maestra, la bimba rispose con accento sconsolato: — Il babbo non sta mai bene. — Quando ricomparve, pareva invecchiato.
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Allora la Galli non potè più resistere alla tentazione che le era venuta più volte di chiedere notizie della signora alla maestra Dorini, la quale aveva avuto la bimba l'anno avanti. E la interrogò in un angolo della sala d'aspetto, una mattina prima della lezione, mentre tutte le maestre prolungavano il chiacchierìo, approfittando dell'assenza della direttrice, ch'era alle succursali.
— La signora Orveggi? — rispose quella con la consueta leggerezza, specchiandosi nei vetri della libreria. — Come, non la conosci? Se gira Torino a tutte l'ore! È una bella signora. E fa un lusso! Ma ha un pessimo gusto. Un goût abominable. — E prese a far la critica ragionata del suo modo di vestire. Essa sapeva a memoria tutti i vestiti di tutte le signore che vedeva o aveva viste alla scuola, e misurava su quelli le sue simpatie, felice quando con una delle più eleganti poteva entrare in tanta familiarità da causer chiffons con lei cinque minuti al giorno, durante l'entrata e l'uscita. La signora Orveggi, come le altre, essa non la conosceva che per l'abbigliamento. L'ultima volta che l'aveva vista, portava un certo vestito verde a sgonfietti, che non lo era piaciuto punto, punto, punto. — E sì che si serve dalla Perichetti. Ma quando non s'hanno occhi, tanto vale! C'est de la peine perdue, tu capisci.
La Galli le domandò se l'anno addietro l'avesse vista qualche volta alla sezione. Alla sezione l'aveva vista una volta sola in un anno.
La maestra napoletana, che aveva sentito, disse avvicinandosi, con un sorriso fine: — La signora Orveggi ha tutt'altro pel capo che la scuola.
Entrò nel crocchio la maestra Massi e soggiunse: — Poh! È una cattiva madre.
Allora si fece avanti la piccola Frosetti, con tutte le sue rotondità, e mentre la maestra devota, scandalizzata della maldicenza, si tirava in disparte, disse alla Galli: — Tu la vedrai un giorno o l'altro entrare in scuola in questa maniera.... — E imitò il passo corto della signora, e il suo modo di salutar le persone dopo che erano passate voltando il viso con gli occhi socchiusi, come per guardarsi se le corresse un ragno sopra la spalla. Era lei, tale e quale. Tutte le maestre che la conoscevano diedero in uno scoppio di risa.
A un tratto s'udì una voce di fuori: — La direttrice!
La Frosetti gridò: — Si salvi chi può!
E tutte scapparono, tranne la Galli, che s'avviò lentamente verso la sua classe. La direttrice la raggiunse tirò fuori l'orologio o le disse: — Sa ella, signorina, che a quest'ora si dovrebbe già trovare in classe da un minuto e mezzo? — e le rimase davanti con l'orologio in mano, come se le proponesse di comprarlo.
Non c'era che rispondere. La maestra s'inchinò, abbassando gli occhi, e tirò innanzi confusa, mentre la direttrice entrava nel suo ufficio. Ma la tolse subito dalla confusione una vista inaspettata. Davanti all'uscio della sua scuola c'era la signora Orveggi, con la bimba, che l'aspettava.
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La maestra e la signora si scambiarono uno di quegli sguardi rapidi e profondi con cui due donne vedono e giudicano l'una dell'altra, in un attimo, il viso e il vestito, l'anima e il corpo, il presente e il passato. In quel punto la maestra ebbe come un lampo nella memoria, la seconda visione istantanea d'una carrozza che due mesi prima, un giorno di pioggia, l'aveva costretta a soffermarsi un momento a un angolo del corso Umberto, e nella quale essa aveva visto di sfuggita, per lo spiraglio della tendina scossa dal vento, un viso di donna bionda con gli occhi chiusi, stretto contro una barba nera, che si agitava. — È lei — disse fra sè, senz'un'ombra di dubbio, e rispose con un inchino al suo saluto.
Era alta e bionda, col viso rosso, d'un bell'ovale, guastato da un naso troppo lungo, aveva degli occhi grigi chiarissimi, che quasi non mostravan le pupille, e delle spalle virili. Era vestita molto elegantemente, con un gran mantello foderato di martora.
Col primo sguardo corse fra l'una e l'altra il fluido d'una istintiva antipatia.
La signora, però, non potè a meno di fissare qualche secondo la sua attenzione sulla maestra, ch'era molto diversa, forse, da come se l'era immaginata; e parve che in quella personcina aggraziata e ferma, dalla piccola fronte bianca, e in quegli occhi dolci, ma severi, ella indovinasse un sentimento di alterezza e una forza di volontà, che avrebbe preferito di non trovarvi.
— Sono venuta, — disse con disinvoltura amichevole, — a fare il mio dovere. Un po' tardi, per verità. Ma non per mia colpa. Cento volte pensai a venire o sempre ci fu un impedimento.... Oramai la vita di società è diventata una servitù.... Come va la piccina?
La maestra, fissandola negli occhi, le diede in quattro parole le migliori informazioni, ma senza mettere nella sua voce la più leggera intonazione di complimento.
Queste due cose, che lo sguardo della ragazza non si posasse sopra alcun particolare del suo abbigliamento e che l'accento di lei non esprimesse che una fredda cortesia, spiacquero alla signora.
Rispose nondimeno con buon garbo: — Me ne rallegro tanto — e fece una carezza sbadata alla figliuola in modo da aprir col braccio il mantello e far vedere la pelliccia. — Però — continuò a dire — mi raccomando a lei, signora maestra, perchè la ragazza lascia molto a desiderare quanto al contegno. Non sa stare in compagnia. Già lei vede come sta curva sulla vita. Ora ha preso pure il vizio di tener la testa chinata sopra la spalla. Dovrebbe veder lei di correggerla. Suo padre l'avvezza male. Giulia!... Quelle labbra! Giusto, ha anche la bell'abitudine di sporger le labbra che pare una morta di sete. Aggiunga che non sa nemmeno starnutare. Proprio la signora maestra dovrebbe occuparsi un poco anche di queste cose perchè nelle ragazze voglion dire molto, ma molto più di quello che si crede.
La maestra rispose che se ne sarebbe occupata, sorridendo leggermente, senza guardare lo spillone bellissimo che la signora s'andava aggiustando con una mano. Poi le domandò: — In che altro posso obbedirla? Mi spiace di non potermi trattenere, perchè le ragazze m'aspettano.
— Ah! mi scusi! — esclamò la signora, cavando rapidamente dalla cintura un piccolissimo orologio imperlato, e dandovi un'occhiata — Le ho fatto perder l'ora! Tornerò un'altra volta, con suo permesso.
Ma, dicendo questo, s'avvide che la maestra, rivolta a guardare dentro la scuola, non aveva badato all'orologio e le passò un'espressione di stizza negli occhi.
E si separarono scambiandosi un leggiero inchino del capo, con le labbra strette.
La Galli aveva notato che durante il colloquio la bambina era sempre stata col capo basso, senza guardare sua madre, come presa da una soggezione penosa, ed entrò nella scuola turbata, come se su quel viso di donna avesse letto in cinque minuti un intero libro, oscuro per lei in alcuni punti, in altri odioso, immondo, strano, spaurevole. All'uscita paragonò l'immagine della signora col marito presente, che doveva aver vent'anni più di lei, e sentì per lui una nuova pietà. Avrebbe voluto non aver visto mai quella donna, e si consolò pensando che forse non sarebbe più ricomparsa nell'anno.
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Due giorni dopo, invece, al momento dell'uscita, la vide là piantata a destra della porta del camerone, vestita pomposamente, con un nuovo cappellino e con un nuovo mantello, che tutti intorno ammiravano. Con la prontezza dell'intuizione femminile la maestra capì che quella venuta e quell'abbigliamento eran per lei, e subito determinò di parare il colpo con una ribattuta. Si mise a sinistra della doppia fila alunne, e passando davanti alla signora per uscire, non la salutò che all'ultimo momento con uno sguardo diritto ed agile, che, incontrati appena gli occhi di lei, deviò con un guizzo senza arrestarsi su nessun'altra parte della sua persona, come se non avesse salutato una persona, ma un viso; non tanto rapidamente però, da non sorprendere su quel viso il dispetto della delusione. E dopo questo, essendo ben certa che la signora non avrebbe tardato a ricomparire per tentar la rivincita, fissò il suo piano di guerra difensivo, consistente in una fuga costante e manifesta dello sguardo da ogni oggetto di vestiario o di ornamento della sua nemica, in modo che questa dovesse finir con riconoscere impotenti affatto le armi con cui la voleva ferire, e trovarsi umiliata invece d'umiliarla. Essa non sarebbe stata capace, qualche anno prima, di quel piccolo proponimento maligno; ma la dura e varia esperienza della malignità altrui l'aveva tirata fino a quel primo grado di cattiveria a cui possono giungere le anime buone, che si riduce a godere delle arrabbiature di chi le odia. E la sua previsione non andò fallita: la signora ritornò, sempre in pompa magna. Ma non per lei sola: essa prese gusto a poco a poco a venir là, dove la circondava con curiosità ammirativa una folla di cameriere, di bimbe, di signore attempate o modeste nel vestire, e finì con venirvi quasi ogni sera, non lasciando comparire il marito che la mattina. Una sera la maestra la vide in allegra conversazione con l'ex ufficiale Vinini, padre di quel serpentello della Maria: dovevano aver fatto relazione da qualche giorno, Ma queste distrazioni non distolsero la signora dal proponimento di forzar la signorina all'ammirazione e all'invidia; al qual fine tentò tutti i mezzi, compreso quello di capitarle davanti all'improvviso o di attraversarle il passo o di finger di badar altrove per voltarsi poi tutt'a un tratto e cogliere a tradimento il suo sguardo. Ma il nemico stava sempre in guardia e tutto fu vano. E allora quella s'inasprì e venne a lama corta.
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Si presentò una sera nella scuola della Galli con un boa e un manicotto sfolgoranti, nel momento che entravano nei banchi le ragazze; le quali, al suo apparire, si voltaron tutte a contemplarla, commentando il suo vestimento con un vivo bisbiglio.
La maestra la ricevette in piedi, accanto al tavolino, prima guardandola in viso — soltanto in viso — e poi volgendo gli occhi verso i banchi come per farle capire che l'avrebbe ascoltata, ma continuando a invigilare le alunne.
— Signorina, — le disse la signora a voce bassa, ma con accento fermo — son venuta a pregarla d'un favore. Le ho detto l'altra volta che la mia figliuola manca di buon contegno.... che non ha quelle maniere che converrebbero alla sua condizione. È la pura verità. Mi son raccomandata a lei. Ma, alle volte, ci sono delle cause.... c'è la compagnia, sopra tutto, che influisce molto. Ora.... per esempio, — e diede un'occhiata sfuggevole al banco della figliuola che stava col viso inquieto e con gli occhi bassi —so che ha per vicina di banco e che è in grande familiarità con una ragazza.... del popolo, figliuola, mi pare, d'un facchino. Io non dico.... sarà un angelo. Ma capirà, le ragazze di quella condizione non son fatte per insegnare le buone creanze.... per non dir altro. Per questo, se non le scomodasse, la vorrei pregare di cambiarla di posto. In tal modo — concluse riguardando il banco — la mia rimarrebbe in mezzo a ragazze.... del suo rango.
La maestra stette un momento in silenzio. Poi rispose con tutta gentilezza, guardandosi la palma della mano: — Capisco. Una buona madre cerca tutte le maniere.... Ma, veda, c'è una difficoltà. Siccome l'alunna in questione non mi dà assolutamente nulla a ridire sulla condotta, che è esemplare sotto ogni aspetto, io non ho, come maestra, alcuna ragione plausibile per levarla di dov'è. D'altra parte.... la prego di osservare che, se soddisfacessi il suo desiderio, non avrei nessun motivo di non soddisfare ogni altra domanda simile che mi fosse fatta da qualunque altra signora, e allora dovrei dividere la mia classe in due parti distinte: mettere da una parte le signore e dall'altra le ragazze povere; cosa che sarebbe, per non dir altro, manifestamente contraria al carattere d'una scuola pubblica. Io sono certissima che la signora mi capisce e mi scusa.
La signora, non trovando li per lì una parola da opporre, si vide perduta, ed ebbe per un momento la tentazione di cavarsela fingendo di riconoscere il proprio torto con una franchezza cordiale che le pareva avrebbe fatto un bell'effetto. Ma quell'ostinazione della maestra a guardare da per tutto fuori che addosso a lei, le fece traboccare la bizza.
— In tal caso — disse — se non vuol scomodare la figliuola del facchino, la pregherei di mettere in un altro posto la mia.
La maestra mandò giù il boccone amaro, stringendo la piccola bocca vermiglia, e rispose pacatamente, fissando gli occhi sul mento della sua avversaria: — Mi perdoni, signora. L'inconveniente, per me, non sta nello scomodare piuttosto l'una che l'altra: sta nel separarle per una ragione che non mi par giusta, e che, essendo certamente indovinata dalla scolaresca, potrebbe fare un torto immeritato a tutt'e due.
La signora la guardò, mordendosi il labbro di sotto. Poi disse: — Avrà forse un'opinione diversa la direttrice.
— Non crederei — rispose la maestra, semplicemente.
— Se è così — disse l'altra, spiccando le parole — non mi rifiuterà questo favore il signor Assessore, che ho l'onore di conoscere personalmente.
— Questo non mi riguarda, signora, — rispose la maestra inchinandosi, per farle capire che doveva incominciar la lezione. E la signora, dopo aver cercato inutilmente il suo sguardo per fulminarla, uscì a passi risoluti, facendo guizzar lo strascico come una coda pestata.
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Benchè: avessero parlato a bassa voce, mentre le alunne facevano bisbiglio, pure la maestra s'accorse, con rammarico, che qualche cosa del dialogo era trapelato, che le due ragazze in causa, se non le altre, n'avevano capito l'oggetto. E lo capiron meglio dalla scena che segui il giorno dopo.
La mattina, all'entrata, comparve il padre Orveggi, con l'aspetto più timido del solito, col fare vergognoso e addolorato del galantuomo che sta per compiere un atto contro coscienza. Fece entrar la bimba nella scuola, trattenne la maestra sulla soglia dell'uscio spalancato, e umilmente, dopo aver accennato alla domanda di sua moglie e detto che teneva nel debito conto le ottime ragioni che le aveva opposte la signorina, balbettando, disse che era venuto a ripetere "quella stessa preghiera."
La maestra, che s'aspettava invece delle scuse, rimase stupita. E gli domandò con dolcezza: —Ma come mai, se ha inteso le mie ragioni...? Com'è possibile che il signor Orveggi, così buon padre e sensato, non ne sia persuaso?
Il padre tacque qualche momento, guardando qua e là, impacciato.
— Sono persuaso — disse poi. — Solamente.... se io la pregassi di contentarmi.... per la pace....
La maestra sospettò quello ch'era seguito tra lui e sua moglie: la signora la voleva spuntare. Lo guardò; egli sfuggì il suo sguardo: essa indovinò l'uomo debole, in cui la dignità del marito e ogni altra forza virile era morta, fuorchè l'amore di padre.
— Le assicuro, signor Orvoggi — disse allora con maggior dolcezza — che non ho rifiutalo per puntiglio o per mal volere. Ci ho ripensato poi. La ragazza è una buonissima creatura, affezionata alla sua figliola; ha capito di che cosa si tratta, hanno capito anche le altre. Cambiarla di posto sarebbe per lei un'umiliazione, che non merita. Ci fosse almeno l'ombra di un pretesto! Davvero, me ne rimorderebbe la coscienza; sento proprio che mancherei alla mia dignità. Vorrei contentarla, ma non lo debbo, non lo posso fare. Creda che me ne duole.
Il padre stette un po' perplesso, col viso basso; poi mormorò: — Ha ragione. Mi scusi. Non ne se parli più. — Ma, detto questo, mise un sospiro così triste, mostrò così aperto nel viso lo sgomento della scena che l'aspettava a casa, si mosse verso l'uscio con un passo così strascicato di poveruomo invecchiato e avvilito dai dispiaceri, che la maestra fu presa improvvisamente da una profonda pietà, e Io richiamò e gli disse in fretta: — M'è venuta un'idea. Non lo posso far subito, per non parer di cedere a una pressione. Aspetterò l'occasione che si tramuteranno tutti i banchi per cambiar di posto il calorifero. La contenterò. A rivederla.
E rimase pentita subito della promessa; ma il buon uomo cambiò viso per modo e la ringraziò e se n'andò via così racconsolato, ch'ella si tenne quasi assolta della sua colpa.
Venne la signora la sera dopo e le sere seguenti con l'aria di chi ha ottenuto un mezzo trionfo e aspetta l'altra metà, e continuò a intrattenersi ogni volta, mentre aspettava, col signor Vinini, discorrendo a bassa voce e ridendo con lui — pareva — dei brutti musi di certe alunne e dei vestiti di certe maestre, con una familiarità che notavan in molti; fra i quali la Dorini, che trovava la condotta di lei de la dernière effronterie, e la direttrice, che, sdegnata dello scandalo, era anche più stupita che non tremassero tutti e due delle occhiate con cui li saettava. Pareva anzi che si burlassero pure di lei come facevano della piccola Vinini, la quale, avvicinandosi a suo padre, voltava le spalle con disprezzo alla signora o le vibrava uno sguardo provocante e comico di rivale. Ma anche quando la conversazione era più animata, la signora la troncava all'apparire della maestra Galli per impostarsi nel modo più opportuno, sia ad attirare i suoi occhi sulle proprie eleganze, sia a rammentarle con lo sguardo che essa stava sempre aspettando la soddisfazione promessa. E l'ebbe presto, infatti, poichè si presentò un'occasione inaspettata. Entrò nella classe una nuova alunna, che cambiava di "sezione" avendo cambiato di casa la famiglia, e poichè era miope, venne sua madre, in presenza della scolaresca, a pregar che gliela mettessero il più possibile vicino alla lavagna; ciò che la maestra fece subito, mettendo la bimba, con l'aria di scegliere a caso, al posto della figliuola del facchino, e mandando questa nell'unico che restava vuoto, davanti a quello della Vinini. La figliuola dell'Orveggi si rassegnò; ma la sua piccola amica scoppiò in pianto, e si mostrò così miseramente addolorata per tutto quel giorno, che la Galli, mossa a compassione, fu tentata di rimetterla dov'era, spostando un'altra in sua vece. Ma dal farlo la distolse l'Orveggi il giorno dopo, nient'altro che col modo come la ringraziò. — La ringrazio, — le disse semplicemente, e soggiunse con accento triste, fissandola: —... e non c'è bisogno che le dica il perchè. — E non ce n'era bisogno davvero. Poi, per farsi meglio compatire, accennò alla sua malattia, appuntandosi il dito sul cuore. E anche questo era superfluo. — Tra lui e quella bambina che ho fatto piangere — pensò la maestra — il più infelice è lui. — E si ritenne giustificata, non prevedendo che si sarebbe dovuta dolere assai presto delle preferenze della sua pietà.
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La mattina dopo, all'uscita, aveva appena messo il piede fuor della classe, che vide la moglie del facchino venirle incontro nel camerone, dimenando lo spalle come un carrettiere, e lanciando intorno delle occhiate di basilisco. Aveva il fazzoletto messo di sghembo sulla testa arruffata, gli occhi fiammanti, le labbra ciondoloni, e un livido sotto un occhio. La maestra non ebbe bisogno di sentire la prima tanfata di liquore per capire che n'aveva bevuto più del solito e che veniva a fare una piazzata.
— Mi dica un po', signora maestra — cominciò quella, incrociando le braccia sul petto — sono le scuole di città queste qui, o cosa sono? Cos'è questa bricconata che ieri mi viene la bimba a casa tutta disperata perchè l'han cambiata di posto, senza un motivo al mondo, che faceva compassione a vederla, eh? Credon forse che la mia figliuola sporchi le signorine?
La maestra fece alto di parlare, accennandolo che abbassasse la voce.
— No, no, no — rispose quella, scrollando il capo — qui è un affronto elle m'han voluto fare. So quel che mi dico. Oh non creda che la lasci passar così. Voglio soddisfazione. Vado dal sindaco, io. Che baronate son queste di fare in là i poveri come la spazzatura? Mi dica un poco chi l'ha messa su, sora maestra, caso che fosse una bella signora di mia conoscenza? Mi dica un po'....—
La maestra la interruppe, con un gesto di preghiera. In quel punto usciva la piccola Orveggi; suo padre era in fondo al camerone; la maestra le disse in fretta: — Va via subito col babbo. — La bimba scappò senza mettersi in fila. Ma la donna capì quel maneggio.
— Oh! non abbia paura — esclamò, voltandosi a guardare il padre che usciva con la figliuola, senz'aver visto lei — io non l'ho nè con la bimba nè con monsù. Io so da chi è partito il colpo. Ma sa ch'io son buona da lavarle il muso in faccia a tutta la scuola, a quella certa signora; lo sa lei? Perchè ci ho dei conti vecchi da aggiustare, capisce! Ah giuraddiana! — grugnì, tendendo il pugno verso la porta: — è stata fortunata a non cascare qui questa mattina! M'ha sentita al fiuto, m'ha sentita!
La maestra tentò di rabbonirla, cercando ansiosamente con gli occhi la direttrice. Ma quella continuò, sempre più eccitata: — A me di questo figure? A una bambina come la mia, a un amore di bambina che la figliuola d'una principessa si terrebbe onorata di starle accanto?
La figliuola uscì in quel momento, e al veder la madre furiosa e la maestra affannata, indovinando il perchè della scena, pentita d'aver parlato, si mise a piangere. Sua madre si voltò e le tirò uno schiaffo, dicendo: — Taci tu, vigliaccona! È forse gnaulando che uno si fa dar soddisfazione degli insulti? Perchè io voglio soddisfazione, — ripetè voltandosi alla maestra e alzando la voce; — so bene che la signora ha fatto levar la bimba per farmi uno spregio, perchè io la conosco, che l'ho servita cinque mesi, e mi ha mandata via perchè ho scoperto le sue marcie magagne! E dirò tutto!
La maestra, smorta e smarrita, cercava di spingerla verso la porta, supplicandola di tacere, dicendole: — A più tardi, parlerete a me sola, abbiate riguardo alle bambine, non fate uno scandalo... — Ma le ragazze vicine avevan già sentito, e la Vinini, lì presente, non perdeva una parola; quelle delle altre classi s'eran soffermate in mezzo al camerone; i parenti e le donne di servizio s'avvicinavano. Sopraggiunse finalmente la direttrice, maestosa e terribile
— Come? — esclamò. — in questo luogo? Quale audacia! — e fece un cenno imperioso alle alunne che scapparono come uno stormo di passere.
— Tutti i luoghi son buoni per farsi fare giustizia! — rispose la donna, infiammandosi alla vista dell'uditorio. — Dico che m'hanno fatto una porcheria. Qui non ci hanno da esser nè poveri nè signori. Ed è quella spocchiosa che non vuol la mia figliuola accanto alla sua perchè dice che le fa disonore. E l'è proprio furba a parlar di disonore, con quel che tutti sanno! No, che non voglio tacere! Faccia il suo dovere lei, signora direttrice, in vece di tenerla dalle trusiane!
La direttrice ebbe un impeto di sdegno, e gridò: — Ma questa donna è ebbra!
— Ebbria sarà lei! — rispose quella. — Io sono una donna onesta!
— Non ho paura delle guardie, gli son già scappata dalle unghie una volta. Ah! Ecco la giustizia che si fa ai poveri! Chiamate la guardia! Ma mi farò giustizia io con le mie mani!
Intanto, però, retrocedeva verso la porta, scrollata dalle braccia atletiche della bidella, tirata dalle donne di servizio, sospinta dalla figliuola. Ma seguitava a gridare, rimovendo la mano della bidella, che cercava di tapparle la bocca.
— Sì, è una poco di buono! E lo dico alla faccia del sole, che n'ha uno a ogni canto, e fa crepar suo marito dai dispiaceri! Bel cuor di signora, che caccia via su due piedi le oneste madri di famiglia! Ah l'ho serbata sullo stomaco, io! E venirmi a svergognare, ancora! Le spolvererò io il casacchino di velluto, una di queste quattro mattine!
Dicendo questo, fu spinta nella strada, dov'era ancora una folla di ragazze, fra cui la Vinini, con la cameriera.
E dalla strada gridò ancora: — E queste son le scuole del popolo! — Poi s'allontanò, tirandosi dietro a strappate la figliuola piangente.
La Galli fu chiamata subito dalla direttrice a render conto dell'accaduto, e, vedendola ancora tremante d'indignazione, s'aspettava un rabbuffo; ma fu stupita invece di vederla quietarsi improvvisamente, e quasi rasserenarsi, quando udì che si trattava della signora Orveggi. Intese tutte lo spiegazioni, invece di rimproverarla, approvò il suo operato, la lodò d'aver fatto in modo che la ragazza non sentisse nulla, e l'accommiatò con un gesto grave e un sorriso misterioso.
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Quando la Galli uscì, nella strada non c'era più alcuno. Ma s'era appena ricomposta quando, nello svoltare a una cantonata, ebbe una sorpresa spiacevole. C'era là la moglie del facchino, sola, che l'aspettava. La maestra, temendo una nuova chiassata, tentò di sfuggirla; ma quella la raggiunse. Era tutta mutata, con gli occhi rossi: sfogata l'ira, aveva avuto uno di quegli improvvisi rivolgimenti d'animo degli ubbriachi, che li fanno piangere senza un perchè, come fanciulli malinconici. Salutò umilmente la maestra, e si mise a camminarle accanto, e a parlarle affollato, con voce rauca e rotta, asciugandosi ogni tanto la bocca col grembiale. — Mi scusi un poco, signora, maestra; sono andata troppo in là, lo capisco bene. Mi rincresce tanto per lei. Ma ha da saper che la signora, dopo avermi cacciata fuori, perchè avevo scoperto i suoi ripeschi, ha poi detto al marito che avevo rubato, lei capisce, per levarmi il credito, caso che fossi andata a rifischiare, e la portinaia è là, che lo può dire. È un pezzo che mi ribolliva; doveva ben dar fuori un giorno o l'altro. Avrà detto, mi figuro, che non vuol la sua bimba con la figliuola d'una ladra. Santissima madre! Se anche lo fossi, varrei ancora un po' meglio di lei. Scellerata strega, che non è altro! Ah, ne ho viste e sentite! No, no, mi lasci dire. Io dico che per tormentare un uomo a quel modo, sarebbe meglio scannarlo d'un colpo. Ma gliele faceva da crepargli li occhi, gliele faceva, e negava come un'indemoniata. E poi: io m'avveleno, io m'avveleno, e apriva la finestra per buttarsi giù, e lui ci credeva e ammollava. Tutto per la bambina, lei m'intende, perchè lei minacciava di portargliela via, di notte, e quello a domandar grazia, bianco come un morto, mettendosi le due mani qui, che gli saltava via il cuore. Delle scene d'inferno, le dico, E non esser buono a fracassarle il cranio con una seggiola! E così che l'ha ridotto un cencio, a poco a poco. La bambina! La bambina! Che non senta, che non sappia niente la bambina, e passi tutto; sempre la stessa storia; si figuri, fino a unger le serve perchè tacessero! E aspettava che lei fosse in giro per tenersi la bimba in braccio per dell'ore, chè a carezzarla in sua presenza, Dio ne guardi, gli diceva che non le sapeva dar l'educazione e che le faceva perdere il rispetto e che qui e che là, delle lavate di testa che lo lasciavan rintontito. Serpente, va! Non un bicchier di vino mi ha dato, in cinque mesi!
A quel punto, svoltando in un vicolo, la maestra affrettò il passo per lasciarla indietro; ma quella, incoraggiata dalla curiosità ch'essa non era riuscita a nascondere, le si tenne accanto, e continuò a sfilar la corona.
— Tanto lusso, eh? e poi, in casa, grandi insalate e gran polente, dei lessi di venti soldi una volta tanto; tutto va sul groppone a madama. Le bastasse fare alto e basso a casa sua, senza venire a far la prepotente alla scuola! Cuore di tigre! Dire che gli faceva passare delle notti bianche, a leticare e a mangiarsi il cuore! Io me ne accorgevo bene la mattina che non s'era svestito. Già, un vecchio e una giovane, un grullo e una furbacchiona, son coppie male assortite. Quella bambina lì non fa vita lunga, glielo dico io: non n'ha più in corpo per sei mesi: morirà di crepacuore appena capirà qualche cosa, se pure non ha già capito. Ha un bell'affannarsi a nascondere, il poveruomo, ormai lo sanno i vicini e i lontani, e lei fa peggio ogni giorno. Quando non s'ha più faccia! Dice che le vuotavo le bottiglie del Marsala! Eran dei bocchini coi baffi che gliele asciugavano, quando il papà e la bimba andavano a fare il giro di piazza d'armi. In parola d'onore, lui mi faceva compassione.... a giornate. Perchè è buono come il pane, sa; a veder com'era felice i giorni che lei era un po' più umana e le lasciava tener sui ginocchi la bimba.... Cose da rivoltare il sangue! No, non ci son che gli uomini per cascar nella vigliaccheria fino a quel punto: lo donne son più fiere.
La maestra tentò un'altra volta di liberarsi, dicendo che aveva premura d'arrivare a casa; ma la donna la trattenne per una manica, e la costrinse a rallentare il passo, perchè voleva domandarle perdono.
— Mi creda, — le disse con una effusione di tenerezza, prodotta da una riscossa improvvisa dell'ubbriacatura, — sono una donna d'oro, una buona madre, come ce n'è poche. Bevo un po'... tutti bevono; ma per la mia bimba, ah! per la mia bimba darei la vita. Certo che la picchio qualche volta; ma per il suo meglio, perchè poi, se hanno da pigliar marito, bisogna bene che facciano il callo al groppone. Così per il mio uomo, non sarei capace di fargli un torto. Me ne dà, gliele scambio, si va a letto con l'ossa peste, una volta per uno; ma tutto finisce lì. Ah! se la trovavo! — esclamò, cambiando tuono — Per grande e grossa che sia, lei avrebbe visto come l'avrei fatta saltare, con questo solo dito, vede lei? e ce ne sarebbe stato d'avanzo.
Qui si fermò tutt'a un tratto, fissò la maestra con due occhi luccicanti, e accennando un botteghino di liquorista lì accanto, le disse con viso ridente e voce dolce: — Se la signora maestra volesse onorarmi d'accettare una goccia di qualche cosa.... è un luogo pulito.... una goccia, solo per gradire.
La maestra si scusò, ringraziando, e tirò via; e la donna rimase con l'indice per aria, ripetendo ancora: — una goccia sola! — fin che quella scomparve.
— Puzzona! — disse allora, e infilò il botteghino.
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Il primo pensiero della Galli, dopo quella mattina, fu di accertarsi che la ragazza non risapesse nulla di quello che era accaduto. E così fu, per fortuna, o così parve. Essa tornò alla scuola, malinconica, come sempre, e malandata; ma senza dar alcun segno, nè quel giorno stesso nè poi, d'un'amarezza nuova; e la signora seguitò a farsi vedere col viso di prima, ignorando il vituperio che le era stato fatto, sempre tutta in ghingheri e intesa alla battaglia delle occhiate. Ma c'era un pericolo grave nella Vinini, che aveva udito le ingiurie più grosse della donna, e che dopo quella mattina parea che covasse con gioia maligna un tristo proposito. La maestra osservò lo strano sguardo, pieno di curiosità scrutatrice e profonda, con cui, all'uscita, squadrava la signora Orveggi in conversazione con suo padre, e il sorriso col quale la salutava, così maliziosamente beffardo, che quella la guardava alla sua volta, o accadeva spesso che si fissassero così per un po' di tempo, senza che la ragazza fosse mai la prima a chinar gli occhi. Un giorno la Galli entrò nella scuola appena in tempo per troncare un dialogo pericoloso che la lasciò inquieta.
Sorprese vicino all'uscio la Vinini, che domandava alla Orveggi, con un sorriso sarcastico: — Hai un parente ufficiale d'artiglieria? — e la Orveggi, arrossendo senza capire, rispondeva di no. La maestra le mandò al posto tutt'e due: certo la Vinini aveva visto in qualche luogo, a passeggio, la signora Orveggi in compagnia di un ufficiale. Intanto la piccola serpe aveva preso a tormentare la figliuola del facchino, che stava nel banco davanti al suo, per farle scontare l'affetto ch'essa continuava a dimostrare alla sua amica, come poteva, sorridendole, facendole dei segni, mandandole dei bigliettini, mettendosele sempre accanto all'uscita. E perchè la vittima era paziente, quella s'irritava sempre più, e spingeva ogni giorno più in là la persecuzione. Una mattina, finalmente, passò il segno. Approfittando d'un'assenza momentanea della sua compagna, e d'un po' di confusione ch'era nella classe, lo prese dal banco il canepaccio con un alfabeto pazientemente ricamato, lo disfece in fretta e in furia con uno spillo, e lo rimise al posto. La ragazza rientrò, vide, si mise a piangere forte e, senza esitare, accusò la sua nemica. La maestra interrogò la Vinini. Questa s'alzò, col suo viso di madonnina marmorea, e rispose tranquillamente: — Non son io. Costei mente.
S'udì un'esclamazione di sdegno da uno dei primi banchi. Era la Orveggi, che aveva visto. S'alzò, col viso acceso, e disse con l'accento irresistibile della sincerità: — È lei; l'ho vista io.
— Menti tu pure — rispose la Vinini, senza scomporsi.
La maestra troncò la contesa, dicendo: — Verrete tutt'e tre con me dalla direttrice, dopo la lezione.
E riprese la lezione; durante un buon tratto della quale la figliuola del facchino continuò a piangere, mentre la Orveggi era ancora tutta fremente, e la Vinini tranquilla, col suo bel viso bianco, come se nulla fosse accaduto. Ma sotto a quella tranquillità tramava una vendetta.
In capo a un'ora, parve alla Galli che la teneva d'occhio, che ella scrivesse qualche cosa di nascosto. Finito di scrivere, si rimise al lavoro di cucito, con grande attenzione. Ma la maestra, esperta delle piccole vendette scolaresche, ebbe un sospetto, e vigilò con rapidi sguardi le otto o dieci ragazze tra le cui mani avrebbe dovuto passare un bigliettino per giungere fino alla piccola Orveggi. Non vide nulla, però. Aveva da fare con una mascherina più accorta di lei, che sapeva interporre il tempo conveniente fra la scrittura e la spedizione. Difatti, dopo una mezza oretta di vigilanza, non ci pensò più.
Sonavan le undici al pendolo del camerone quando un grido soffocato riscosse tutt'a un tratto la classe, e si vide la Orveggi balzare in piedi e ricader seduta, singhiozzando con le mani sul viso, e poi abbandonare un braccio o il capo sul banco, come svenuta. Tutte le alunne s'alzarono, la maestra accorse e rialzò la bimba. Mentre la rialzava, le vide cascar di matio un biglietto. Quella si ridestò bruscamente e si chinò per riprenderlo; ma la Galli l'aveva già raccolto e spiegato.
La ragazza riprese a singhiozzare, disperatamente.
La maestra lesse il biglietto e la sua piccola fronte bianca si fece di porpora. C'era scritto in caratteri minutissimi: — Sta zitta tu, che tua madre va con tutti.
Avvampante di sdegno, cercò con gli occhi la Vinini, che s'era levata in piedi come le altre, fingendo essa pure curiosità, ma un po' pallida in viso.
— È lei che ha scritto quest'infamia! — disse la maestra, segnandola a dito.
Quella rispose alteramente, alzando il capo: — Non sono io.
La Galli corse al tavolino, cercò in furia nel pacco l'ultimo componimento della Vinini, confrontò la scrittura, e sorrise amaramente.
— S'alzino tutte quelle che hanno trasmesso la carta! — gridò.
Nessuna s'alzò. Ma fra quelle ch'essa aveva tenuto d'occhio prima del fatto, vide parecchi visi turbati.
Le interrogò una dopo l'altra.
Comprendendo dal viso della maestra che la cosa era grave e lei risoluta, confessarono tutte, e la più vicina alla Vinini dichiarò d'aver ricevuto il biglietto da questa. Ma tutte giurarono di non aver letto lo scritto.
— Maria Vinini! — disse la maestra con voce tremante — Che cosa risponde ora?
Quella rispose freddamente: — Non son io.
Un lungo mormorio di stupore corse per la classe. Questa passava anche il segno della maravigliosa impudenza che tutte riconoscevano in lei. La maestra fece un atto di sdegnoso disprezzo.
Poi uscì in furia, lasciando le alunne tutte silenziose, rivolte verso la Vinini, che era fredda come un sasso. Quando ritornò con la direttrice, a cui aveva raccontato tutto, durava ancora il silenzio, rotto soltanto dai singhiozzi di Giulia Orveggi.
La direttrice entrò col viso delle grandi occasioni, con la carta in mano, a passi regali, girando lo sguardo lento e solenne.
Fissò l'una dopo l'altra le due ragazze, confrontò le scritture, fece ripetere la confessione a quelle che avevano trasmesso il biglietto; quindi, rivolgendosi alla Vinini, ch'era ancora in piedi, disse con voce cavernosa: — Confessi!
La ragazza stentò un secondo a raccogliere la voce e con una contrazione strana delle labbra che parve un sorriso, rispose: — Non son io.
Maestra, direttrice e scolare si guardarono a vicenda, come per domandarsi se la Vinini impazzisse.
Poi la direttrice disse imperiosamente accennando a tutte le ragazze interrogate:
— In direzione!
La Vinini scese dal banco d'un salto e uscì per la prima, la maestra prese per la mano e condusse fuori la Orveggi, che seguitava a piangere, nascondendo il viso, e tutte le altre usciron con loro. Ma la direttrice si riaffacciò subito all'uscio. Aveva visto sette o otto scolare con dei fiorellini sul petto.
— Spariscano i fiori! — disse.
E i fiori sparirono tutti in un punto come portati via da un colpo di vento.
Quando furon tutti nell'ufficio della direzione, la direttrice chiamò le supplenti e la bidella, fece disporre il drappello in semicerchio, mise alla sua destra la colpevole, alla sua sinistra la Orveggi, che si stringeva alla maestra come a una madre — sedette sul suo seggiolone a braccioli — e cominciò il suo sermone. Per quelle congiunture essa aveva un repertorio di frasi veramente terribili e le coloriva con un gesto e uno sguardo che ne raddoppiavano l'efficacia. Ciò non di meno, parve alla maestra che dalle occhiate che ella dava, tra una frase e l'altra, al biglietto, schizzassero come delle scintille sfuggevoli d'una compiacenza segreta, prodotta da ciò che in quell'avvenimento v'era di disonorevole per una signora giovine e bella.
— Signorina! — disse concludendo. — L'atto che ella ha commesso è orribile. Ma mette anche più orrore la sfrontatezza con cui ella persiste a negar la sua colpa. C'è un precedente che spiega la vendetta, la scrittura si riconosce, le compagne attestano contro di lei, le prove la schiacciano. Oltre che una viltà, il negare è una insensatezza, una menzogna stupida e inutile, che aggrava smisuratamente la sua condizione. Se non vuole incorrere in conseguenze tristissime, che peseranno su tutta la sua vita, confessi la verità.
La direttrice s'alzò diritta, in tutta la sua maestà.
— Le do un minuto di tempo a rispondere! — disse.
La ragazza rispose impassibilmente: — Non son io.
La direttrice diede un gran colpo della mano aperta sul tavolino, poi incrociò le braccia sul petto, e rimase immobile, come una statua della Giustizia oltraggiata. Intanto le alunne si stringevano intorno alla Vinini, pregandola, dicendole piano: — Confessa — Parla una volta — Sii buona — Confessa, Maria. — La Orveggi stava sempre stretta alla maestra, non mostrando ira nò odio nei viso bagnato di lacrime, ma soltanto una tristezza infinita, un misto compassionevole di vergogna e di stanchezza, somigliante quasi a una sonnolenza dolorosa, dalia quale la risedeva a quando a quando un singhiozzo.
Ma la Vinini non disse verbo, e continuò a tener gli occhi fissi alla finestra, con un'espressione di ostinatezza invincibile, senza che un muscolo del suo viso si movesse.
Era la prima volta che la direttrice trovava una resistenza simile alla propria autorità. E non di meno non fece lo strepito che c'era tutte le ragioni d'aspettarsi. Sempre c'era in fondo ai suoi occhi, non visibile che alla maestra Galli, un barlume leggerissimo di sorriso. In ogni modo, da quella stretta bisognava uscire, al più presto. All'improvviso, come colta da un'idea, guardò l'orologio e disse alla bidella: — Vada a dare il finis e quando vegga il signor Vinini, Io faccia entrar sull'istante.
La piccola Orveggi e la maestra fecero insieme un atto, che la direttrice capì. Bisognava che il signor Orveggi, che doveva arrivare a momenti, non s'avvedesse di nulla, per questo la direttrice ordinò alla Galli di condurre subito la Giulia dal padre e di accomiatarsi alla lesta, inventando un perchè delle lagrime. La Galli le asciugò gli occhi, uscì con lei e rientrò un minuto dopo, seguita dal signor Vinini, col quale irruppe nell'ufficio l'ondata sonora delle mille voci delle alunne che uscivano.
Il padre Vinini, a cui la maestra avea dato un cenno del fatto, entrò con la sua elegante disinvoltura di donnaiolo quarantenne, passandosi una mano nei capelli biondi, più seccato che dolente, — pareva, — di dover far la parte a cui era chiamato. La sua faccia rosea di robusto buontempone, incurante della famiglia, mostrava anzi una certa maraviglia comica di quella nuova mattata della sua figliuola, ch'egli forse studiava con più curiosità che rammarico, come un bizzarro originale femminino, e della cui bellezza si capiva che era altero. Al vederlo, la figliuola non si turbò menomamente.
La direttrice fece con parole forbite un breve riassunto del processo; poi disse alla ragazza: — Voglio credere, signorina, che non negherà in cospetto di suo padre.
— Animo, Maria — disse il padre, senza che la sua voce tradisse la minima commozione. — A che pro negare? Di' la verità, te lo comando anch'io.
La ragazza diè prima qualche segno muto d'irritazione, guardando in viso gli uni e gli altri; poi gridò, pestando un piede: — No! no e poi no! Non è vero! Non confesso! Non sono io! Non confesserò mai!
— Per l'ultima volta — esclamò la direttrice, sorgendo in piedi, stanca e sdegnata finalmente anche dalla indifferenza del padre, che s'arricciava i baffi a due mani — dica la verità o sarà espulsa da questa e da tutte le scuole municipali, e qualunque suo pentimento non varrà più a cancellare il suo disonore!
La bimba l'interruppe con una specie di ruggito, e levandosi in fretta uno spillo dal petto: — Se dice ancora una parola — gridò — trangugio questo spillo!
E fece l'atto di cacciarselo in bocca; ma il padre, pronto, l'afferrò al polso, e lo spillo cadde.
Allora essa fu presa da un accesso di rabbia, pestò i piedi, digrignò i denti, die' dei pugni per aria, si buttò sul pavimento, si rivoltolò, scalciando e ruggendo, con una tal furia, che quanti eran presenti duraron fatica a fermarle le braccia e le gambe, a rialzarla, a inchiodarla sopra una seggiola, dove rimase immobile, smorta e trafelata, coi denti stretti, saettando occhiate feroci. In fine, dopo fatti altri due o tre strepiti, ripiegò il capo sulla spalla, sfinita. Ma nei suoi occhi non c'era una lacrima.
Quel poco di pietà che poteva entrar nel cuore della direttrice per una futura bella donna corteggiata, vi entrò in quel punto, aiutata anche da un vago indizio di resipiscenza che apparve negli occhi della ragazza. — Ancora una prova — disse allora. — La colpevole non vorrà confessare in presenza di tutti noi. Noi usciremo un momento. Essa scriverà la confessione in un foglio sul mio tavolino.... Ma badi che dopo questo non ci sarà più remissione. Acconsente?
Dopo un momento, la Vinini accennò di sì,
Tutti uscirono.
La direttrice rientrò quasi subito, e vedendo che la ragazza aveva scritto, la mandò a raggiungere suo padre. Poi prese il foglio sul tavolino. C'era scritto: — Son io, ma ho ragione.
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Maria Vinini fu espulsa dalla scuola per otto giorni.
Il dopopranzo la piccola Orveggi non venne. La maestra non se ne maravigliò, pensando al colpo che aveva avuto la mattina. Ma si cominciò a impensierire non vedendola neppure la mattina dopo. E mentre all'uscita s'aspettava di trovare il padre, fu stupita invece di vedersi venire incontro la signora, in abbigliamento primaverile, con un viso sorridente e amichevole. Che cos'era accaduto? Era un accorto cambiamento di tattica, per ottener la sua ammirazione con le buone, inspirato dalla tenerezza di qualche nuovo amore e dall'influsso delle prime aure di aprile? O era un atto di umiliazione spontanea, ch'essa faceva, avendo subodorato qualche cosa dell'avvenimento, per salvare la reputazione ferita, a furia di cortesia? Comunque fosse, la maestra si tenne in parata, e ricevendola nel mezzo del camerone, usò l'artifizio solito di non staccar lo sguardo dagli occhi di lei che per volgerlo rapidamente alle pareti o al soffitto, senza posarlo sulle sue gale.
Questo attenuò immediatamente la buona disposizione d'animo, sincera o finta, della signora, e concorse anche un po' a tale effetto il notare ch'essa fece per la prima volta, che la maestra aveva una piccola bocca color di fragola, d'una forma infantile, graziosissima. Disse quindi con una voce meno dolce di quella che aveva preparata, che la bimba non era venuta perchè era un po' indisposta, e che sarebbe stata a casa anche il giorno appresso. A lei e a suo padre aveva raccontato che le era preso male in scuola perchè non aveva digerito il caffè e latte. — È una madonna tenerina — disse — che si butta giù per un nulla.... viziata dalle carezze del papà, e forse anche ammollita da altri, che guastan le bimbe con un'educazione troppo sentimentale, all'uso dei libri, e affettata. Fra un paio di giorni sarà guarita. Non ha bisogno che di farsi coraggio.
— Mi dà una notizia consolante, — rispose la maestra. — La sua bimba è una creatura adorabile. Non ha bisogno che di essere amata e di non aver dispiaceri.
— Quanto a questo, — ribattè la signora — si persuada che è amata (e imitò lievemente l'accento della maestra) da tutti. Debbo anzi ringraziare anche lei dell'amore che le ha sempre dimostrato. È tutta bontà sua. Giusto, io ci penso, qualche volta, a tutto il bene che fanno loro. Povere signore maestre! Sempre al lavoro dalla mattina alla sera, a contatto con ogni specie di gente, pagate come tutti sanno, non tenute nemmeno nella stima dovuta, qualche volta anche calunniate, umiliate....
La Galli sentì la puntura sul vivo: non era la prima volta che la madre di un'alunna le vibrava una stilettata sotto il velo della pietà. E rispose pronta:
— La coscienza onesta ricompensa di tutto. Ella lo sa.
— Non posso saperlo quanto lei, — rispose con vivacità la signora — che non deve aver mai avuto la coscienza nemmeno in pericolo.
— Oh! non dica questo — ribatte la maestra, con accento modesto — perchè io sono ancora capace d'arrossire.
E continuando tutt'e due a sorridere forzatamente, incrociarono gli sguardi come due spade. Ma capirono l'una e l'altra ad un punto che se si fossero avanzate ancora di un sol passo, avrebbero dovuto buttar via le maschere e ferirsi a morte. Per questo si fecero simultaneamente un inchino, e si separarono dicendosi: — A l'onore di rivederla, signora. — L'onore sarà mio — signorina — con un accento che rivelava da una parte un odio e dell'altra un disprezzo, che sarebbero durati quanto la vita.
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La maestra respirò, nondimeno, perchè dal tono orgoglioso della signora le pareva di poter argomentare con certezza che ella non avesse risaputo nulla del fatto accaduto, e quindi neppur suo marito; il che le stava a cuore sopra tutto. Ma la sua tranquillità durò poco. Quel giorno stesso ella s'accorse da vari segni che le parole scritte nel biglietto non erano più un segreto, che una almeno delle alunne, che l'avevan trasmesso, doveva averlo letto e, passato il primo terrore della direttrice, propalato. Uscendo dalla scuoia, ne colse a volo come un'eco nei discorsi delle persone di servizio; una supplente le disse d'averle intese ripetere da un'alunna di quarta. Questa scoperta la sgomentò: essa tremò che la notizia arrivasse per qualche via al signor Orveggi, non già pel dolore ch'egli avrebbe risentito al saper pubblicato in quel modo il disonore di sua moglie, che a questo doveva esser rassegnato oramai; ma per il colpo mortale che gli avrebbe dato la vergogna e l'angoscia della sua bambina. E il suo timore diventò certezza due giorni dopo, quando nell'uscir dalla scuola vide dall'altra parte della strada il signor Orveggi pallido e stravolto, con gli occhi fissi, che l'aspettava.
Ma le sue prime parole la disingannarono; C'era di peggio.
Egli era così alterato che fe' cenno alla maestra di avvicinarsi, senza neppur salutarla. E con voce tremante, scrollando il capo, disse affrettatamente:
— Come? — domandò con affanno la maestra. — La bimba? Non doveva tornar a scuola? È malata molto?
Quegli ripetè con aria spaventata, avviandosi: — Va poco bene, va poco bene. Venga con me. — E notando l'esitazione della maestra, soggiunse con timidezza: — Saremo soli.
La maestra lo seguì, interrogandolo. — Non si sa, si capisce, — rispose egli balbettando, — un medico dice una cosa, un altro un'altra. Va poco bene.
E seguitò ad affrettare il passo, malfermo sulle gambe, con lo sguardo a terra, respirando corto.
La maestra ripetè le domande, con crescente inquietudine. — Ma non è grave, è vero? Quando s'è aggravata? Discorre? È tranquilla? Cos'è stato?
— Discorre, — rispose, correndo sempre, — è tranquilla. È fin troppo in sè. Ma va poco bene, va poco bene.
E senza dir altro, svoltati sul corso Goito, arrivarono in pochi passi alla casa e infilaron la scala; l'Orveggi pel primo, afferrandosi alla ringhiera.
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Aperse la servetta, dalla faccia ardita, con la frangia di riccioli sulla fronte.
L'inquietudine non tolse alla maestra di riconoscere in quattro occhiate, mentre attraversava le stanze, la casa dove il marito non è nulla e la signora è tutto, poichè non v'era ordine e comodità da nessuna parte, e v'appariva l'eleganza e la vanità in ogni cosa. Arrivata in fondo a un corridoio, vide per lo spiraglio d'un uscio, in un camerino nudo, somigliante più a un ripostiglio che a una camera, un lettuccio che non poteva esser d'altri che della bimba, e credendo ch'ella fosse lì, fece l'atto d'entrare. Ma il padre le accennò in fretta un altro uscio, dicendole: — La bimba è qui. — Ed essa capì in un lampo che, a cagione della malattia, il pover uomo doveva aver ottenuto di trasportar la figliuola da quello sgabuzzino indecente nella sua camera.
La maestra entrò per la prima e corse difilata al letto, da cui la bimba le tendeva le braccia nude.
La baciò con tenerezza e, rialzato il capo per guardarla, fu racconsolata. Era poco più pallida del solito; la commozione grata di riveder la sua maestra l'aveva un po' colorita. Ma in fondo agli occhi le si vedeva sempre l'immensa amarezza di quella sciagurata mattina. La maestra comprese al primo sguardo che la malattia veniva di là, che il colpo era stato troppo forte per quel corpicino debole, il quale forse covava già il male da un pezzo. I suoi begli occhi parevano anche più intensamente neri in mezzo alla bianchezza dei cuscini in cui s'affondava il suo capo. La camera, tutta profumata di camomilla, era chiara, e per la finestra in fondo, chiusa da un solo battente di persiana, si vedeva il verde allegro degli alberi di corso Goito, dai quali pareva accresciuta quella particolare tristezza che dà il vedere un fanciullo malato di primavera.
Il padre rimase ritto a pie' del letto, guardando a vicenda, con occhio scrutatore, la bimba e la maestra; questa stette in piedi al capezzale, tenendo fra le sue una mano dell'inferma, che ardeva.
Alle prime domande sulla sua salute, rispose che stava meglio, e poi continuò a guardar la maestra con occhi tristi e dolci, in silenzio.
Di quello che era avvenuto non poteva far parola, e, in presenza del padre, non avrebbe potuto parlare neppure d'altre cose. Ma in quel suo sguardo immobile esprimeva tutto con una tale chiarezza, che alla Galli pareva di veder movere lo labbra e di sentir le parole. — No, maestra, — le pareva che dicesse — non sto meglio. Ma è bene così. Che ci starei a fare al mondo? Non ci troverei che altri dolori e altre umiliazioni, lo capisco bene. Mio padre, malato e infelice, mi lascerebbe tra pochi anni e io resterei peggio che sola. E son tanto stanca di soffrire! Ho tanto sofferto da quando cominciai a capire, e ho capito così presto! Non essere amati dalla mamma è triste; ma è infinitamente più triste veder torturato, avvilito da lei il babbo che vive di me ed è tutta la mia vita. Oh maestra, che martirii, che vergogne ho viste e indovinate! Contese, ire, pianti, persecuzioni fredde e feroci e orribili parole, continuamente, presente me, a tavola, accanto al mio letto, di notte, nei giorni più belli e più santi. I singhiozzi di mio padre m'hanno straziato l'anima, e più ancora i suoi lunghi silenzi disperati di giorni e giorni, e anche di più la sua dolce rassegnazione degli ultimi anni, quando rifugiò tutta l'anima sua nel mio cuore, No, non ci fu mai bambina affamata, battuta, costretta a accattare, che abbia sofferto e tremato quanto me! Oh il mio povero babbo! Quanto ha patito per cagion mia! E quanto ho penato io pure a fingere per tanto tempo di non capir nulla, per risparmiare a lui quello che sarebbe stato il più profondo dei suoi dolori!... Ma, crescendo, non potrei più fingere.... e per questo è meglio che me ne vada. Quando io non ci sia più, passato il primo dolore, egli potrà andarsene a star solo e vivere almeno qualche anno in pace, pensando a me. Io me ne vo col conforto di questo pensiero, e porto in cuore col nome di lui anche il suo, maestra mia, mia buona amica, mia buona madre degli ultimi giorni. — In questo punto ella disse alto, sorridendo con isforzo e guardando suo padre: — Sto meglio, maestra. Oh! presto ritornerò a scuola.
In quel momento un soffio d'aria fece stormir gli alberi, il battente della persiana s'aperse ed entrò un raggio di sole; nello stesso punto s'udì squillare sul corso la fanfara dei bersaglieri che passavano. Il padre si ricordò della viva allegrezza che aveva mostrata la bimba vari anni addietro, la prima volta che aveva sentito quella musica dalla nuova casa. Si danno durante le malattie dei nostri cari dei momenti così fatti, in cui una parola lieta e un'ondata di luce o d'odore o il suono d'un canto lontano ridestano la speranza come una fiamma improvvisa. Il padre si chinò sul letto con impeto, e afferrati sopra la coperta i piedini della figliuola, li baciò e ribaciò e vi premette la guancia su, ansando, tra la gioia e il singhiozzo, con l'abbandono d'un fanciullo. E la maestra osservò con un senso di pietà profonda il suo capo calvo e venoso, e se lo immaginò abbandonato in quel modo sulle ginocchia della moglie, quando questa lo dominava ancora con l'amore, prima di tenerlo schiavo per mezzo della bimba. Ahimè! Quando la bimba s'era fatta grande ed egli avrebbe potuto spezzare il giogo con essa, la sua fibra virile era già consunta, egli non era più che un paralitico dell'anima, condannato a morire al suo posto.
Una scampanellata gli fece rialzare il capo in fretta, inquieto e quasi impaurito. Ma la figliuola lo rassicurò con un cenno, che voleva dire: — Non può essere ancora la mamma. — Nondimeno egli uscì.
E allora la bimba s'alzò un poco sopra un gomito, e data un'occhiata all'uscio per assicurarsi che il padre era uscito, domandò alla maestra con accento soavissimo di preghiera: — Si ricorderà poi di me?
Non era che l'espressione d'un pensiero che la maestra aveva indovinato, ma le passò l'anima. —
— Ah! che cosa dici, — disse all'inferma pigliandole la testina fra le mani — che cosa dici, anima bella e cara! Che pensieri ti passano per il capo? Tu tornerai a scuola la settimana ventura, io ti aspetto, rivoglio la mia Giulia, io. Intanto non posso dir dieci parole senza guardare il tuo posto vuoto e mi par di vederti sempre lì, coi tuoi begli occhi neri e buoni, e spiego anche per te, come quando c'eri, perchè non potrei più far scuola senza di te, che sei la mia bimba più cara, e t'amo come se fossi tua madre!
La bimba la guardò con un'espressione di infinita gratitudine e le fece scorrere una mano sulla guancia. Poi disse tristamente:— Eppure.... non tornerò più. — Ma soggiunse subito forte, guardando l'uscio:
— Sto molto meglio.
Suo padre rientrava, rassicurato.
La figliuola gli sorrise; ma si capiva ch'egli era rientrato troppo presto, che ella avrebbe avuto qualche cos'altro da dire.
La maestra credette d'indovinare il suo pensiero e sforzandosi di dar fermezza alla propria voce, le domandò: — Mi lascerai ritornare, non è vero?
La figliuola o il padre si guardarono in atto d'incertezza e di rammarico, come per dire che la cosa non sarebbe stata così facile. Risposero però di sì, tutti e due; ma la Galli comprese che quella visita sarebbe stata forse la prima e l'ultima insieme.
— E Giorgina? — domandò l'inferma, con un sorriso malinconico. Giorgina era la sua protetta, la figliuola del facchino.
— Giorgina è addolorata, — rispose la maestra, — ti aspetta; sarà felice di saper che stai meglio e che ti sei ricordata di lei.
— Quanto avrei piacere di vederla! — E disse questo come chi esprime un desiderio insensato.
La maestra avrebbe voluto dire altro, ma vedendo il padre avvicinarsi alla finestra e guardar di nascosto l'orologio, capì che se ne doveva andare.
La bimba, approfittando di quel momento, le mise il braccio destro intorno al collo, e prendendole una mano con la sua sinistra, le disse: — Grazie, signora maestra!
La Galli sentì in quel punto entrare qualche cosa tra le sue dita, lo strinse e se lo mise in tasca furtivamente. Il padre si ravvicinò.
— Ho ancora una parola da dire alla mia maestra, — gli disse la bimba, e soggiunse con un sorriso:
— Ma questo è un segreto fra noi.
E rimessole il braccio intorno al collo, le mormorò nell'orecchio, con la soavità d'un angiolo: — Perdono a tutti.
La maestra tremò come se avesse sentito il freddo d'una tomba.
— Saluti Giorgina, — le disse più forte la bimba, senza levarle il braccio dal collo. — A rivederci! — E più piano, con un soffio: — Addio!
La Galli la baciò disperatamente, strozzando un singhiozzo, ed uscì come un'insensata, non vedendo più nulla, inciampando nel proprio vestito, tastando i muri per ritrovarsi. Per fortuna l'anticamera era buia, l'Orveggi non le vide il viso, ed essa ebbe ancora la forza di dirgli: — Stia di buon animo, sta meglio! — mentre egli le baciava la mano, ringraziandola.
Appena fu per la scala, tirò fuori l'oggetto che aveva messo in tasca.... e allora il singhiozzo rattenuto le sfuggì: era già il ricordo d'una morta: — una ciocca di capelli.
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Il giorno dopo la ragazza stette meglio; ma in capo a due giorni precipitò. Uscendo una sera dalla scuola, la maestra rabbrividì all'udire dalla bidella che fin dalla mattina non c'era più speranza di salvarla. Mosse subito quasi di corsa verso la casa; — s'arrestò dopo pochi passi, rattenuta dal pensiero di ritrovarsi in faccia alla signora; — ma l'amore e la pietà la risospinsero innanzi impetuosamente. Arrivata sotto il portone, s'affacciò al finestrino della portinaia, e domandò: — La bimba Orveggi? — La portinaia, che stava rivoltando la polenta al camino, voltò il capo, senza smetter di rivoltare, e rispose con una pacatezza, che parve annunciare buone notizie: — Pochi minuti fa, quando son salita a vedere, era morta. — La maestra gittò un grido e salì le scale di volo. Trovò l'uscio aperto, titubò un momento, poi si lanciò dentro. Nell'anticamera non c'era nessuno. Entrò in punta di piedi nella sala da mangiare; nessuno. Ma nel punto ch'entrava sentì nella stanza di là delle grida e uno strepito che le gelarono il sangue, e la inchiodaron sulla soglia, atterrita; di quelle grida tremende che riecheggiano nel cuore per tutta la vita come una rivelazione di abissi di dolore non prima misurati dal pensiero, e tra urlo e urlo dei singhiozzi da schiantar l'anima e i più desolati gemiti che abbia mai strappato la disperazione dalle viscere umane; e insieme delle scosse violente, e un suon di passi e di voci d'uomini e di donne: — A lei, dottore! — Per di qua! — Oh dio benedetto! — Spicciatevi! — La maestra, soffocata dall'angoscia e dal terrore, impotente ad avanzarsi e a fuggire, guardò intorno smarrita in cerca d'un appoggio, e vide come dietro a un velo oscuro e ondeggiante delle seggiole rovesciate, un lume in frantumi sull'impiantito, la tenda d'un uscio strappata, tutta la stanza sconvolta. Improvvisamente, uscì dall'uscio di faccia, correndo, la serva, pallida, con dei panni tra le mani, e al veder la maestra: — Ah! che disgrazia! — esclamò. — La bimba è morta e il padrone ha tentato d'uccidersi! — Allora soltanto la maestra vide l'impiantito e i mobili insanguinati e una chiazza di sangue nella parete, con dei capelli bianchi appiccicati alla tappezzeria; e a quella vista, svenne.
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Quando ritornò alla scuola, dopo esser stata a letto tre giorni, ed entrando nella stanza d'aspetto fu circondata da tutte le maestre che l'affollarono di domande, essa non ebbe forza di dire una parola, e supplicò coi cenni che la lasciassero. Nemmeno osò domandar notizie del signor Orveggi, del quale non aveva più saputo nulla, eccetto che era ancor vivo. La supplente ch'era andata per lei all'accompagnamento funebre della bambina, le disse che il pover'uomo era in via di guarigione delle due ferite che s'era fatte, una alla fronte, tentando di spezzarsi il cranio nel muro, l'altra al collo, più grave, con un colpo di rasoio. Ma la Galli non ebbe cuore di rallegrarsene; non solo perchè le pareva che sarebbe stato meglio per lui di morire, ma pure per un presentimento confuso, che lei l'avrebbe rivisto, non sapeva come nè dove, per vederlo soffrire ancora nuovi dolori, e soffrire essa con lui. E con questo triste presentimento, senz'aspettare la direttrice, si diresse verso la sua classe, dove quasi tutte le alunne eran già entrate.
A un passo dall'uscio, si arrestò, colta da un pensiero: fece un conto sulle dita e si turbò: gli otto giorni di sospensione inflitti alla Virini eran terminati il giorno innanzi: essa doveva dunque rientrare quella mattina: forse era già entrata. Si maravigliò di non aver preveduto prima d'allora la ripugnanza che avrebbe sentita a far lezione con quella ragazza davanti agli occhi, dopo la morte della povera Orveggi. Si sentì battere il cuore, come per un senso di paura, e per liberarsene, entrò rapidamente.
La Vinini c'era, al suo posto solito.
Tutte le alunne si voltarono a guardarla, quando la maestra comparve, eccetto la figliuola del facchino, che chinò il viso nelle mani.
La Vinini tenne il capo basso, con gli occhi sul quaderno.
C'era sul suo viso qualche cosa che rassomigliava a un turbamento, se non a dolore; ma pure il suo primo aspetto destò nella Galli un così vivo senso di ribrezzo e di sdegno, che impallidì. E questo senso s'accrebbe, quando la ragazza, alzati gli occhi lentamente, senz'alzare il viso, li fissò, asciutti e scintillanti, nei suoi. Essa ebbe un rimescolo di sangue.
Non di meno, incominciò la lezione, studiando di non rivolger lo sguardo al posto della morta e di nasconder la commozione che le rendeva incerta la voce. Ma dopo pochi minuti, la commozione traboccò. — No — gridò, alzandosi — è impossibile! è impossibile! Maria Vinini, lei non può più stare in questa classe! Non ci doveva più tornare! Io non posso resistere alla tortura di vederla!
La ragazza, scossa sul primo momento da quelle parole, si mise a raccogliere i suoi libri per andarsene, e le tremavan le mani; ma durante l'operazione ripigliò animo, e quand'ebbe finito, scesa dal banco, s'arrestò, fremente, davanti al tavolino della maestra, e domandò a bassa voce, in aria di sfida:
— Oh giusto Iddio! — gridò la maestra, perdendo ogni ritegno — E me lo domanda! Ma non l'ha capito, non glie l'hanno detto che è lei, che ha ucciso Giulia Orveggi?
— Non è vero! — rispose con forza la ragazza, arrossendo di collera — Nessuno l'ha detto! È un'ingiustizia dir questo!
— È una verità — gridò la maestra — che la dovrebbe rendere infelice per tutta la vita! Oh Dio eterno! Ma si può dare una simile creatura? Ma dica una parola di pentimento, ma pianga una volta, ma mostri per un momento solo d'aver delle fibre umane in quel cuore! Vede, io non la minaccio più, io la prego, per l'anima sua, che abbia pietà di sè stessa!
A quelle parole la ragazza abbassò il capo e parve che i suoi occhi s'inumidissero che le sue labbra si movessero, come cercando una parola; tanto che la maestra, animata da una speranza, si spiccò dal tavolino, e presala per un braccio, spingendola davanti al posto vuoto della morta: — Guardi — le disse — faccia conto che la sua povera compagna ci sia ancora, ceda a un buon impulso: essa l'ha perdonata; le domandi perdono!
La ragazza fissò gli occhi dilatati sul banco, esitando.
— Dica una sola parola — soggiunse la maestra — Perdonami! E sarà perdonata da tutti. —E nel dir questo, nell'impeto della passione, la scrollò.
— Ebbene, no! — gridò quella, sprigionando il braccio e rialzando il capo — Non domando perdono perchè non ho colpa.... No!... Io non potevo sapere.... È troppo, alla fine! Mi lasci uscire!
La maestra restò un momento interdetta, quasi atterrita. Poi disse con voce fioca: — Vada — e si coperse il viso con le mani. Tutta la classe, commossa da quella scena, proruppe in un lungo mormorio.
Mentre la Vinini stava per uscire, entrò la direttrice, stretta e irrigidita nella sua corazza, come una grossa guerriera, straordinariamente maestosa. Alla prima occhiata, indovinò quello che era seguito.
La maestra, eccitatissima, le raccontò in poche parole ogni cosa. — Ella vede, signora direttrice — concluse con voce alterata — ch'io non posso più tener quest'alunna nella scuola. Lascio star le altre ragioni, la moralità, la convenienza.... Io non posso più!
La direttrice guardò la Vinini, e parve che le volesse dir qualche cosa; ma vedendo quella fronte cocciuta e quegli occhi impassibili, ne smise l'idea. Stette un poco sopra pensiero; poi accennò alla maestra e alla Vinini che uscissero, e quando furono in mezzo al camerone, chiamata la bidella, le ordinò di accompagnare a casa la ragazza, che uscì a fronte alta, battendo i tacchi e facendo ballar la treccia sulla schiena.
Allora si voltò alla maestra e le espose seriamente i suoi dubbi, con parole scelte e pesanti. A dire il vero, avrebbe dovuto ella stessa prevenire la cosa. Ma il caso era nuovo e difficile. Non si poteva espellere un'alunna perchè non s'era pentita d'una colpa. — Come sarà giudicato l'atto dall'autorità municipale quando il padre vada a querelarsi? In quali termini posso io riferire, senza dar luogo a scandali, intorno a una quistione così delicata e complessa? Non ha ella per avventura varcato il segno?
— Oh! io non lo credo, — rispose con calore la Galli, — io ho ubbidito alla mia coscienza e al mio cuore; m'addosserò io la colpa di tutto; qualunque conseguenza ne possa nascere, mi ci rassegnerò, pur di non far più scuola davanti a quella creatura, che mi rivolta l'anima; dovessi perdere il posto, soffrir la miseria e la fame! — E accompagnò quelle parole con un atto altero e violento del capo, con cui parve che crescesse di statura e si illuminasse d'una bellezza nuova.
— Questa è appunto la dichiarazione che era mio intendimento di chiederle, — disse la direttrice, dopo averla squadrata con uno sguardo quasi di forzata ammirazione. E con un gesto maestoso le accennò di ritornare alla classe.
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La difficoltà si sciolse in un modo imprevisto. Il signor Vinini, risaputo appena il nuovo caso, prese la determinazione di levar la ragazza da scuola, e l'annunziò il giorno stesso alla direttrice con una lettera stravagante, mista d'impertinenze velate e di galanterie scoperte, le quali ultime, nonostante il loro senso evidentemente faceto, ebbero virtù di farle ingoiar le prime senza troppa amarezza; poichè quel formidabile busto non era così impenetrabile come pareva. Tant'è vero che fece leggere tutta la lettera alla Galli, alla quale parve di capire che il Vinini si fosse indotto a cansare1 in quella maniera ogni pericolo di scandalo per un riguardo alla signora Orveggi, con cui doveva avere una relazione ben avviata. E ne fu soddisfatta e tornò alla scuola di miglior animo; ma vivendo ancora con quel presentimento inquieto che la storia dolorosa non fosse finita, e perseguitata sempre dall'immagine lugubre di quell'infelice, del quale non sapeva più nulla, e su cui non poteva fissare il pensiero senza fremere. Un giorno di pioggia, incontrò sotto i portici di corso Vinzaglio la signora Orveggi, vestita in lutto elegantissimo, e la fulminò con uno sguardo, impallidendo; ma quella non fece che lanciarle un'occhiata obliqua sulla gonnella infangata, e passò. Non aveva punto il viso mutato, e ciò che fece più orrore alla Galli fu di accorgersi da una di quelle espressioni nervose del volto, che la parola non può rendere, ch'ella aveva un pensiero di vanità anche per il suo nuovo vestito nero. Trascorsero altri pochi giorni, e la bidella, che aveva parlato con la portinaia della casa, le riferì che il signor Orveggi, guarito, era andato via da Torino. La notizia la rincorò. Ma n'ebbe dell'altre, che l'afflissero, dalla moglie del facchino, la quale, prestando servizi a famiglie del vicinato, sapeva i fatti di mezzo mondo. Venne costei una mattina, per chiederle notizie della figliuola, ad aspettarla nella strada, in uno stato di briachezza giubilante, e dopo averle raccontato d'una furiosa lotta a corpo a corpo avuta la notte innanzi con suo marito, per causa d'una sonnambula di piazza Emanuele Filiberto, lotta in cui si vantava d'averlo messo sotto con un suo particolare stratagemma pugilatorio, usci in esclamazioni compassionevoli sulla morte della bimba Orveggi, annunciando che padre e madre s'erano separati.
Essa conosceva tutti i particolari. Dopo una scena tremenda in cui s'era avventato sulla moglie come una tigre, egli era scappato da Torino; ritornato dopo due giorni, aveva trovato la casa vuota; la moglie aveva fatto un repulisti d'ogni cosa, dicendo che era tutto suo, perfin le robe e i ricordi della bimba, ed era andata a stare non si sa dove; e lui allora s'era preso in affitto una cameruccia mobiliata in via Stampatori, dov'era rimasto chiuso per tre giorni, piangendo giorno e notte, così forte che lo sentivan dalle scale. Poi era scomparso da Torino un'altra volta. E trottando dietro la maestra, a cui la commozione faceva affrettare il passo, e tirando brutalmente la bimba a strapponi: — Ah povero padre! Povero padre! — esclamò. — Glielo voglio dire, la prima volta che lo vedrò, il gran bene che voleva la mia Giorgina alla sua figliuola, che non s'è più potuta consolare! Proprio che ha il cuore di sua madre questa moccicona! Caso mai le volesse lasciare qualche ricordo.... alle volte. Perchè un gran santo uomo lo è, bisogna ben dirlo, che non l'ha strangolata come una pollastra, a pensare che è per causa sua che la bimba è morta, e per quell'altra bestia velenosa di ragazza col suo infame biglietto! — La maestra s'arrestò a quelle parole, presa da un tremacuore improvviso, e vinta la ripugnanza che sentiva a pigliare alle buone quella landrona avvinazzata, abbassando la voce, caldamente e con accento di preghiera, le raccomandò per l'amore del cielo e dei santi che, se le accadeva di parlare con quel povero vecchio, si guardasse come da un delitto dal fargli parola di quel biglietto, che egli l'ignorava di certo, che era forse il suo solo e ultimo conforto il pensare che la bimba fosse morta senza sapere quel che tutti sapevano, e che lo strappargli quella illusione sarebbe stato come piantargli un coltello nel cuore. — Promettetemi di tacere! — concluse la maestra, in tuono quasi supplichevole. La donna stette un po' pensando, come per fissar bene nel suo cervello annebbiato tutta la importanza della cosa, e poi promise con straordinaria gravità che non avrebbe rifiatato. — Ho una coscienza anch'io — soggiunse; — viva sicura. — E passando d'un salto a parlare della sua miseria, disse lamentevolmente che aveva bisogno di mettersi qualche cosa sullo stomaco. La maestra le mise qualche cosa nella mano, e la lasciò, ma non col cuore tranquillo.
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La scuola riprese l'andamento consueto e della piccola Orveggi non si parlò più. In quel gran vivaio di giovinezza la morte era presto dimenticata. La primavera aveva portato fra quelle ottocento ragazze una nuova e ridente fioritura di vestiti, di grembialetti e di nastrini, un fremito nuovo di risa e di capricci, di piccole ribellioni e di piccole civetterie; a cagion delle quali la direttrice aveva in odio la dolce stagione, e allo sbocciar delle prime mammole il suo umore si rabbruscava. E allora, come sempre, essa incominciò con le maestre giovani una lotta a piccole frasi dure e affilate per troncare sul nascere tutti i tentativi, che ogni anno a maggio esse facevano, di conquistare la libertà dell'abbigliamento; con la maestra Dorini in special modo, la quale, per attirare l'innamorato definitivo, quello che l'avrebbe si-cu-ris-si-ma-mente sposata, le si ribellava coi fronzoli più variopinti, trattandola con le compagne di vieille prude enragée. E quell'anno la battaglia fu più accanita che mai: era un succedersi continuo di nastri, di fiori, di colori, di piccole scollature, che cercavano di ficcarsi nella scuola di contrabbando, e che condannati a sparire oggi, ricomparivano in altra forma il giorno dopo, per poi tornarsi a nascondere e rispuntare da capo. E tutto ciò provocava un passeraio vivacissimo nella stanza d'aspetto, dove, in grazia del bel tempo, davano delle capatine furtive anche le maestre delle due succursali, recando notizie ed aneddoti alla conversazione comune, in cui direttrici e parenti e avventure del mondo scolastico e piccoli segreti di famiglia e ogni specie di pettegolezzi e di lepidezze si rimescolavano con una rapidità e con un calore inusitato. Tutto il corpo magistrale mostrava di sentir l'influsso della stagione in un certo ravvivamento d'ardori e di allegrie giovanili, interrotte da improvvise stanchezze sospirose e da scatti d'impazienza collerica. Ma il buon umore predominava. Perfino la maestra "misteriosa" pigliava maggior vita, e si lasciava andar con tal furia al suo vezzo nervoso di battere un piede parlando, che alle volte, tratta dall'esempio, tutta la classe l'accompagnava in cadenza, e faceva accorrere al rumore la direttrice. La maestra di "antico modello" s'arrischiava a dar qualche tema d'immaginazione che lasciava le alunne stupite, la napoletana volava su e giù per le scale come una rondine, e la rotondeggiante Frosetti, più briosa che mai nelle sue imitazioni mimiche, spingeva la temerità fino a contraffar la direttrice dietro le spalle, ricomponendosi umilmente quando quella si voltava, con una tal rapidità e una tale naturalezza, che le colleghe dovevan mordersi le dita per non scoppiare, e perfin la "devota", abbassando gli occhi, si lasciava sfuggire un sorriso. La primavera, in barba all'autorità direttiva, irrompeva nella scuola da ogni parte, e accendeva anime ed occhi, e spandeva trilli, profumi e speranze, e germi d'amore o di mattìa, tingendo tutti i pensieri di color turchino e tutte le guance di color di rosa. E quello era quasi sempre il mese in cui la povera maestra Massi commetteva lo sproposito di prepararsi un sopraccapo di più.
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Era la fine di maggio, e la maestra Galli viveva già fuori d'ogni timore, quando una mattina, uscendo dalla classe con le sue alunne, si sentì come inchiodata a terra dall'apparizione d'uno spettro. L'Orveggi era là, accanto alla porta del camerone, al suo antico posto.
Tutto quello che può far l'angoscia sopra un viso umano prima d'agghiacciarlo nell'immobilità della morte, l'aveva fatto sul suo. Vent'anni s'erano ammucchiati su quel capo in due mesi, il dolore l'aveva ingobbito, scarnato, imbiancato, gli aveva strappato i denti, affossati gli occhi, torta la bocca, rotte le gambe, curvata a terra la fronte come sotto un giogo di bronzo. La barba cresciuta, i capelli lunghi e rabbuffati, e gli abiti logori lo rendevano quasi irriconoscibile anche a chi l'avesse visto per l'addietro ogni giorno. Nessuno, infatti, dei parenti delle alunne e delle cameriere che gli erano attorno mostrava d'averlo riconosciuto.
Sul primo momento parve che non vedesse la maestra; poi le venne incontro a passi ineguali, col cappello in mano. Essa l'aspettò, perchè non avea la forza di muoversi. Quand'egli le fu davanti, volle parlare, non potè; piangeva in silenzio, ansando forte, con gli occhi socchiusi e la bocca sporgente, come un fanciullo. La maestra, sforzandosi per raccoglier la voce, le disse di farsi animo. Egli scotè il capo, in atto sconsolato. Le alunne l'osservavano, stupite. Egli le guardò a una a una, con gli occhi velati dalle lacrime, ma vivi, come se cercasse un viso. A un tratto allungò una mano tremante e tirò fuor dalle file la figliuola del facchino. Questa diè indietro impaurita; ma, riconoscendolo, si tranquillò. L'Orveggi le pose le mani sulle spalle e la baciò sul capo, ardentemente, tre volte. Poi, seguito dalla maestra, entrò nella scuola, s'avvicinò rapidamente al banco della figliuola, e rompendo in singhiozzi, vi chinò il viso su, lo baciò, strisciò la guancia sull'asse, vi posò una mano in atto rispettoso insieme e carezzevole, e stette un po' di tempo guardandolo, come avrebbe guardato una bara. Allora disse alla Galli le prime parole, con una voce tremola d'infermo, accennando il banco col viso: — È la sola cosa che mi rimane... che essa abbia toccato! — E spiegò, a parole interrotte, perchè era venuto: voleva dalla maestra i lavori in iscritto della bimba, se li aveva; nient'altro. Essa promise di portarglieli. Improvvisamente, come se sentisse alle viscere un morso più forte della sua sventura, urlò: — O mia Giulia! o mia povera Giulia! o mia santa Giulia! — e si chinò a ribaciare il banco con tant'impeto, che vi battè su con la fronte. La maestra lo rialzò di forza con tutt'e due le mani, e in quel momento gli vide sul collo la cicatrice del colpo di rasoio, che le mise un brivido. Uscirono insieme. Egli non guardava nessuno, piangeva senza asciugarsi gli occhi, con le braccia penzoloni, con gli occhi per aria. Quando furon nella strada, salutò la Galli con un gesto vago, e la lasciò: essa stette a osservarlo: dopo un momento d'incertezza, egli s'avviò a passi lenti, dietro la figliuola del facchino.
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Andata a casa ancora tutta commossa, la Galli cercò subito e raccolse i lavori della bambina, con la speranza che, quando li avessi avuti, il povero Orveggi non sarebbe più tornato alla scuola; e la sera, all'uscita, vedutolo al solito posto, glieli porse. Quegli afferrò e baciò il pacco come un tesoro, se lo mise in petto, lo premè più volte con la mano, per accertarsi che non gli sarebbe sfuggito; poi, vedendo passare la Giorgina, la chiamò, le diede un bacio sul capo, come il giorno innanzi, e le domandò: — Ti ricordi di Giulia? Le volevi bene? Le vuoi ancora bene?... Cara bambina mia! — e le mise in tasca un regaluccio. Ma, dopo questo, invece di lasciar la maestra, con gran rincrescimento di lei, senza neppur chiederle permesso, come se fosse una cosa convenuta, le si mise accanto per la strada, e l'accompagnò, nel suo atteggiamento usato, col capo basso e le braccia ciondoloni, parlando a pause, con voce affaticata. Quella stessa mattina era già stato al camposanto. V'andava tutti i giorni e vi rimaneva un pezzo. Gli doleva che a una cert'ora lo mandassero via, e contava di deludere una volta i vigilanti, per passar là tutta una notte, e dormire sulla fossa della figliuola. All'improvviso diede in una delle sue esclamazioni disperate: — O mia povera figliuola! Povero angioletto mio, che sei sotto terra! — La gente che passava, lo guardò. La maestra, presa da una grande pietà, cercò di consolarlo. — Mi parli della mia bambina — le disse egli. Essa gliene parlò, rammentando certi particolari della scuola, con riguardo, per non straziarlo di più, ed egli ascoltava con attenzione religiosa, come un moribondo le parole del confessore. Quando furon sull'uscio della casa di lei, fu mosso da un impeto di gratitudine, e le disse con profonda dolcezza: — Lei ha volato bene alla mia figliuola, lei è un'anima buona, è come se fosse sua madre, ora, per me! Sia benedetta!
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Ma pur troppo, non era finita. Ogni giorno, qualche volta mattina e sera, egli tornò alla scuola e accompagnò la maestra come quel giorno. Mi parli della mia bambina, — cominciava col dire ogni volta, — mi dica delle altre cose, mi torni a dire quello che ha detto; mentre lei parla mi pare che non sia morta. — E la maestra ripeteva le solite cose, che gli rinnovavano lo strazio solito. Ed egli pure prese a raccontar particolari su particolari della figliuola, cominciando dalla sua prima infanzia, ma arrestandosi sempre, con una specie di timore vergognoso, ogni volta che il discorso sarebbe caduto diritto sulla madre. A quel punto troncava netto la frase e si rimbruniva. Ma un giorno, giunto a un di quei passi, si lasciò sfuggire un'esclamazione dolorosa: — Ah, se lei sapesse! Se lei sapesse! — e guardò fisso la maestra, dal cui sguardo parve che capisse ch'ella sapeva molto. E d'allora in poi ebbe meno ritegno su quell'argomento; ma parlando sempre in termini vaghi, d'una lunga lotta in cui egli aveva perduto terreno un po' tutti i giorni, senz'avvedersene, e dicendo sempre più di sè che di lei, in maniera, per altro, da lasciar quasi tutto capire: la sua vita monotona e travagliata d'impiegato, nella quale, per la sua bontà timida, aveva subito mille soprusi, i suoi vent'anni di privazioni e di risparmi, la sua passione d'uomo maturo per la figliuola d'un'affittacamere, che l'aveva assistito amorosamente in una malattia grave, le sue prime delusioni, e il suo lungo martirio. Ed esclamava qualche volta:.— Sono un vile! Sono un vile! — Un giorno le disse più chiaramente: —.... Ma la bimba non sapeva. Oh ne son sicuro! Non poteva capire. Io capivo tutto, giustificavo tutto. È morta senza capire, Non è vero, signorina! Anche lei n'è ben sicura, non è vero? — Sì, certo, essa n'era sicura: era impossibile che avesse capito. A questa idea egli ritornava spesso, come a un grande conforto. Ma la maestra osservava con rammarico, e quasi con terrore, che il suo dolore non scemava in nulla di giorno in giorno, e le correva un fremito per le vene ogni volta ch'egli usciva per la strada in una di quelle invocazioni alla sua morta, guardando per aria, come se la vedesse; e anche notava che nei suoi discorsi c'era ogni giorno qualche cosa di più scucito, una crescente lentezza, una ripetizione più ostinata delle stesse parole. E avrebbe voluto scansarlo, quando usciva dalla scuola, ritardava apposta, cercava di passargli inosservata. Ma lui l'afferrava sempre. Un giorno, la direttrice le fece un'osservazione. — Non si addice — le disse — a una giovane maestra l'accompagnarsi sempre ad un uomo, sia pure a fine di pietà; poichè non tutti lo sanno o v'aggiustan fede. E soggiunse drammaticamente: — Lo sfugga.
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Un altro pensiero la teneva in ansia. Fin dai primi giorni dopo il ritorno dell'Orveggi, essa aveva visto qualche volta la moglie del facchino in conversazione con lui, nella strada. Un giorno la bimba era venuta a scuola con un vestito nuovo, troppo fino e vistoso per la sua condizione; un'altro giorno con due orecchini, che avevano attirato l'attenzione della classe; e durante le lezioni si metteva qualche cosa in bocca di nascosto: dei dolci, senza dubbio. La maestra comprese che sua madre sfruttava la simpatia di quel pover uomo: doveva averlo tirato a casa sua per impietosirlo con lo spettacolo della sua miseria: da un po' di tempo infatti, appariva più brilla e più contenta dell'usato. Se in una delle sue espansioni di beona, gli avesse spiattellato il segreto? Questo timore la affannò a segno che un giorno abbordò la donna risolutamene per farle ripetere la sua promessa. E quella la ripetè picchiandosi la mano sul petto. Ma la Galli non fu affatto rassicurata, poichè vide, negli occhi falsi di lei qualche cosa di sinistro, la gioia animalesca dell'affamato che ha messo le unghie sopra una preda; e peggio che una gioia, un'ombra di gelosia ch'ella volesse immischiarsi degli affari suoi, e quasi un sospetto che ella pure sfruttasse in qualche modo quel disgraziato. Per questo crebbe ancora la sua inquietudine, e gliela rese anche più viva e più triste il vedere come ogni giorno l'Orveggi si veniva appiccicando a lei più strettamente. Egli la fissava a lungo con una espressione di così profondo rispetto e di così tenera gratitudine che n'era scossa in fondo all'anima. Un giorno la pregò d'andare al camposanto con lui con un accento così umile di supplicazione, che fu costretta a promettergli che sarebbe andata. Quando essa ripeteva per la decima volta quelle medesime cose della bimba, egli giungeva le mani con le dita incrociate, come se avesse ascoltato la voce d'una santa. — Dica ancora, — le diceva, — dica ancora.— E di giorno in giorno parlava sempre meno e la faceva parlare sempre più. Le si metteva vicino, da toccarla col gomito, e camminava guardandola, fiutandola, come s'ella avesse esalato il profumo della sua figliuola o portato nascosto sotto i panni qualche cosa di lei, ch'egli volesse scoprire e ottenere. E diventava più obbediente: faceva uno sforzo per contenersi, con la sottomissione d'un ragazzo, quando la maestra lo ammoniva che non uscisse in quelle esclamazioni appassionate, rompendo in pianto, in mezzo alla strada. Una mattina presto essa sentì picchiare all'uscio del suo quartierino al quarto piano; era lui: ne fu turbata, ma dovette lasciarlo entrare: era venuto con una coroncina di rose bianche, ravvolta in un giornale, per andare al camposanto con lei, dimenticando che aveva la scuola. E stette un pezzo a guardarla, seduto, senza parlare, con gli occhi larghi e umidi, come in adorazione, con una fissità così ardente, ch'ella non potè sostenere il suo sguardo, e fu costretta ad alzarsi, fingendo di cercare il fazzoletto. Ma con questo il suo immenso dolore non scemava, non faceva che infierire più addentro, e la sua salute peggiorava visibilmente. Da un giorno all'altro egli aveva il respiro più grosso, la voce più fioca, il pianto più infantile, tutta la persona più trascurata, e sempre più confuse e fuggenti le idee, fuor che quell'unica, che pareva si facesse più folgorante e terribile, via via che l'altre svanivano.
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Una mattina la maestra non lo trovò, come sempre, alla porta della scuola, e sperava già di sfuggirgli, quando alla prima cantonata lo vide spuntare e quasi correre verso di lei con un viso così mutato, che lo spavento le mozzò il respiro.
— Lo sapeva! — le gridò egli nel viso, quando le fu davanti. — Lo sapeva!
La maestra capì e tremò, ma finse di non capire, per pigliar tempo a rimettersi. — Chi? Come? che cosa?
— Lo sapeva! — ripetè il padre con accento d'angoscia disperata. — Glie l'hanno scritto in un biglietto. Per questo è morta! Fu quella mattina. Ah! vendetta di Dio! È il crepacuore, è la vergogna è sua madre che l'ha fatta morire! Non è stata la malattia, è stato il martirio! — E diede in uno scroscio di pianto selvaggio, urlando nelle mani: — Oh la mia Giulia! Oh la mia povera creatura! Oh! la mia povera martire!
Lo sdegno diede alla maestra la forza d'interrogarlo, e con parole sconnesse egli disse o lasciò intendere tutto. La moglie del facchino, sempre più avida, e interessata a tener vivo il suo dolore, gli aveva detto in un momento d'ubbriachezza che s'egli le dava quel che chiedeva, gli avrebbe rivelato un segreto "che era bene ch'egli sapesse per imparare a conoscere il mondo." E lui aveva dato e quella aveva detto.
La maestra gli afferrò le mani, tentando di quetarlo, ma egli si svincolò, e gridando: — Vendetta di Dio! Vendetta di Dio! — s'allontanò a passi barcollanti, picchiandosi il pugno sulla fronte, come un maledetto.
La Galli se n'andò tutta sconvolta, col cuore avvelenato dal pensiero di quella perfidia, e così fremente d'ira contro la donna, che se l'avesse intoppata in quel punto, le avrebbe rotta la fronte con la chiave di casa. La sera, alla scuola, la cercò; ma quella, diffidando forse, non comparve, e non si fece vedere neppure il giorno seguente. La maestra sperava di coglierla la mattina del terzo giorno; — non la vide ancora —; trovò invece le maestre raccolte nella stanza d'aspetto, che commentavano un fatto di cronaca della Gazzetta del Popolo, con un vivo cicaleccio. Vedendo entrar lei, tutto si voltarono. — Vedi un po' tu, — le disse la Dorini, porgendolo il giornale e segnandole il fatto. — Non ci sono che le iniziali dei nomi; ma si deve trattare del signor Orveggi e del signor Vinini. C'est du propre!
La Galli lesse e le si empirono gli occhi di lacrime; tutte le iniziali corrispondevano. Era l'Orveggi, senza dubbio. La funesta scoperta l'aveva strappato dalla sua rassegnazione. Accecato dal furore, egli aveva cercato sua moglie da ogni parte, l'aveva incontrata davanti al caffè Ligure, la sera avanti, a braccetto con un signore. S'era avventato contro di lei come un forsennato. Essa era fuggita, e; il signore, voltatosi contro di lui, l'aveva stramazzato con un manrovescio dentro una fossa della fognatura. Lo guardie l'avevano raccolto e portato in una farmacia, tutto intriso di fango e di sangue.
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Passò una settimana. La Galli non lo vide più. Intese dire che era partito un'altra volta da Torino, e ci credette, poichè non vide più alla figliuola del facchino nè vestito nuovo nè orecchini, che la madre doveva aver venduti, essendo mancata la sorgente dei soccorsi. Ma una sera, uscendo dalla classe, ebbe un nuovo e maggior spavento dei passati: l'Orveggi era là, al posto solito, più sparuto, più arruffato, più sucido di prima, guardato curiosamente da tutti i circostanti. La maestra, reggendosi male sulle gambe, gli passò dinanzi alla larga, senza mostrar di vederlo. Ma egli le si avvicinò, e le domandò con la dolcezza d'una volta, guardando intorno: — Dov'è Giulia? — Essa rimase senza sangue; ma bisognava rispondere. E balbettò: — Giulia.... Giulia.... — invocando con gli occhi il soccorso delle colleghe. Ma quegli, dopo un momento d'apparente riflessione: — Eh non serve.... — disse — so bene che è morta. E s'accompagnò alla maestra, come soleva fare per il passato; ma la lasciò improvvisamente alla prima cantonata, come preso da un altro pensiero. E così fece il giorno dopo, e i successivi, tra la curiosità crescente di tutti. La direttrice se ne impensierì e pensò di ricorrere al municipio. Poi si ristrinse a avvertire la guardia civica che non lo lasciasse più entrare. Allora egli aspettò la maestra dall'altro lato nella strada, stando con le spalle al muro in faccia alla porta, e dando alla guardia delle occhiate furtive, d'una timidità fanciullesca. All'uscir delle alunne, cercava con lo sguardo nella folla, avidamente, come per trovar la figliuola. Non vedendola, scoteva il capo, come per dire: — Lo so: non c'è, perchè è morta. — Ed essendosi accorto che la maestra aveva paura di lui, non le s'accompagnò più: si contentò di seguitarla, a cinque passi di distanza, come un cane, guardandola sempre con tenerezza, mormorando parole indistinte, in tuono di pianto e di affetto, chiamandola qualche volte sotto voce, col nome di battesimo: — Faustina, Faustina. — Quando poi, arrivata a casa, entrando nel portone, essa si voltava a farle un cenno pietoso di saluto, egli accorreva e le baciava le mani, le maniche, l'ombrellino, quanto le riusciva d'afferrare prima ch'ella fuggisse su per le scale.
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Era corsa intanto per tutte le classi e fuori della scuola la notizia delle sue stranezze. Le alunne, uscendo, si fermavano in gruppi a guardarlo. I ragazzi della sezione vicina cominciarono a fargli cerchio intorno, e a dire prima piano, poi forte: — 'l foll! 'l foll! — (il matto, il matto), — e lui li guardava, stupito, come se non capisse. Era un ludibrio che stringeva l'anima e che non si poteva tollerare davanti a una scuola. E una mattina, finalmente, la direttrice decise di ricorrere in Città. La sera stessa di quel giorno, all'ora dell'uscita, i ragazzi tirarono all'Orveggi delle bucce di legumi e delle palle di carta, vociando, mentre egli teneva dietro alla maestra, che piangeva sotto il velo: intervenne la guardia; i ragazzi scapparono: ma per andarsi a radunare in altra parte. Egli continuò seguitare la Galli fino a casa, la raggiunse sotto il portone, le si parò davanti in atto ossequioso, e con un viso da parer che avesse riacquistato in quel punto tutto il suo senno, lo disse con straordinaria dolcezza:
— Come si fa, cara maestra, come si fa, con una bambina senza madre?
E la fissò, aspettando una risposta. Era lacero, aveva delle bucce e delle palle di carta tra la camicia e il vestito, la barba piena di pagliolo, e una bontà infinita, una tenerezza inesprimibile sul viso.
— Cara signora maestra — riprese — io son venuto per dirle che la voglio sposare
E allungò le mani per prendere le sue. La maestra indietreggiò, soffocata. Egli fece un passo innanzi
In quel momento comparve davanti al portone una frotta di scolaretti, mormorando: — Il matto! Il matto!
La Galli fuggì su per la scala. Egli le gridò con voce supplichevole, tendendo le mani giunte: — Mi sposi, maestra! Sposiamoci per la mia Giulia! O maestra cara! O Faustina! O mia Faustina!...
Una urlata dei ragazzi gli troncò la parola: egli si voltò, e la maestra, dal mezzo della scala, lo vide allontanarsi lentamente per la strada, strascicando, sotto una tempesta di bucce e di grida.
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Dopo d'allora egli non si fece più vedere. Si disse che l'avevan ricoverato in una casa di salute. Passarono due settimane. Era uno dei primi giorni di luglio, e degli ultimi dell'anno scolastico: la maestra Galli stava nella sua classe, guardando, mentre dettava, gli alberi del giardino, che riempivano come una tenda verde il vano della finestra. Il tempo era bello e fresco; ma essa era triste. Aveva assistito la mattina, nella stanza d'aspetto, a una scena dolorosa. Una signora belga, separata dal marito piemontese, al quale era rimasta una bimba, alunna della Dorini, era venuta, approfittando d'una assenza del padre da Torino, per portarsi via la figliuola; ma questa non l'aveva voluta seguire, e la madre l'aveva supplicata inutilmente per un'ora, piangendo, gettandosi perfino in ginocchio, e commovendo tutti, fuorchè lei e la sua maestra, troppo contenta d'aver un'occasione di parlar francese. La Galli era triste pensando a questa e a tant'altre tristezze e miserie sociali, che si vedono o s'indovinano in una grande scuola d'una città grande. E andava ricorrendo tra sè il libro nero della sua breve esperienza. Quante n'aveva viste o inteso in pochi anni! Oh povera società cittadina, guardata di sotto in su, da una scuola elementare! Oh educazione dei genitori! Oh santuario della famiglia! Essa n'aveva trovate ben poche delle buone madri, come se l'era foggiate in mente da giovinetta, studiando i libri educativi. Certo, la maggior parte erano affezionate ai loro figliuoli; ma in qual maniera, giusto cielo! Alcune li amavano come un trastullo, finchè eran piccini e lepidi; altre per vanità, se eran forti e belli; altre per ambizione, se avevano ingegno e studiavano; e della loro figliolanza non amavano che i piccoli, i belli e gl'intelligenti. Essa aveva conosciuto delle madri di bimbi gracili, le quali per far loro ottenere il premio, li costringevano a far "lavori di diligenza" e a imparar "lezioni straordinarie" levandoli da letto alle cinque e coricandoli alle undici, tanto che li riducevan malati, e anche durante la malattia, stavano al loro capezzale col quaderno in mano, a farli studiare e recitare, fin che ricadevano sfiniti sui cuscini. N'aveva conosciute altre che, pure per ambizione, le venivano a proporre a faccia franca di fare un falso, alterando sui registri i voti dell'esame mensile; altre così rabbiosamente gelose di quelli che ai loro figliuoli contendevano il primato, che gioivano palesemente quando un piccolo rivale era malato grave; e che per mandare avanti le proprio creature scendevano a sfacciate civetterie coi maestri, o per vendicarsi d'una supposta ingiustizia, denunciavan con lettere ceche alle autorità fatti privati della loro vita. E aveva notato in quasi tutti i padri e le madri una miserabile smania di far sapere agli insegnanti, a fine di lusinga o di minaccia, le loro aderenze, questi col consigliere, quella col deputato, l'altra col marchese, e con ciò un'ostentazione stomachevole della ricchezza e del fasto accompagnata anche da più miserandi esempi di tirchieria. C'eran delle famiglie signorili che facevano aspettar tre mesi al figliuolo un libro da trenta soldi di cui aveva bisogno; delle signore che davan dei balli in casa, e che il dì dopo mandavano il bimbe alla scuola senza camicia, con un tovagliolo sul petto e uno sulla schiena fermati con due punti alle spalle; dei signori nuotanti nel grasso che punivano i ragazzi col digiuno e li lasciavano venire a scuola piangenti di fame; e delle belle e giovani mamme che, alteramente, come una prova d'alta signoria, dicevano di non aver allattata nessuna — neppur una, davvero! — delle loro quattro bambine, e facevano scopare le camere alle figliuole per non disturbare la fantesca che serbava loro il segreto postale. E aveva anche conosciuto dei padri che dimenticavano aperti sul tavolino dei libri nefandi, che le bambine sfogliavano, ritenendone delle frasi con cui le venivano a appestare la scuola. E tutta questa gente vestiva bene, sorrideva, con grazia, carezzava amorevolmente i figliuoli; molti dei quali, ella capiva che non sentivano mai in casa loro nè un discorso affettuoso, nè una lettura gentile, nè una conversazione che s'innalzasse d'un filo al di sopra del più basso pettegolume; quando pure, come avveniva spesso, non erano educati dai parenti a odiare e a schernire i loro nemici, a trattar con alterigia i compagni, a disprezzare e a vituperare tutto ciò che stava al di sopra o al di sotto della propria classe sociale. Ipocrita razza, che gridava alla volgarità e ai vizi del popolo! Ed eran quelle le famiglie che l'aiutavano nell'opera educatrice? Per questo bel mondo essa lavorava? E per quei bei frutti avrebbe lavorato altri trent'anni?
Essa pensava a queste cose, dando senz'avvedersene alla dettatura l'accento dello sdegno triste che le fremeva nel cuore, quando le arrivò all'orecchio dal camerone la voce della portinaia, che gridava con tutta la sua forza: — Indietro! Indietro!
Nello stesso punto si spalancò l'uscio, e l'Orveggi irruppe nella scuola, trafelato, col capo scoperto, con gli abiti laceri, orribile.
La maestra e le bambine balzarono in piedi, atterrite.
Egli si gettò sul banco della sua bimba con tanto impeto che vi urtò col mento e si ruppe i denti, l'abbracciò e lo baciò rantolando, poi si precipitò verso la maestra con le braccia in alto, e gittando un urlo disperato d'amore e d'agonia, le stramazzò davanti, battendole la fronte sui piedi.
Le alunne misero un grido, molte svennero. La maestra piegò i ginocchi e, presa tra le mani la testa bianca, la rivoltò. Era morto.