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Era un antico spaccapietre di montagna, rimasto montanaro d'abitudini e di maniere, benchè avesse messo insieme un bel patrimonio facendo l'appaltatore d'opere stradali; e abitava ancora dov'era nato, in un villaggio mezzo selvatico di Valle Maira, donde non scendeva a Torino che una volta al mese, per certe sue faccende. Appena arrivato, soleva venire al Liceo-Ginnasio Brofferio, per lo più all'uscita della mattina, ad aspettare il suo figliuolo, che stava a dozzina da una vecchia parente, merciaia. Come gli fosse saltato in capo di mettere agli studi letterari quello solo dei suoi ragazzi, mentre gli altri erano avviati per le arti meccaniche, e le sorelle menavan le capre in pastura, che cosa disegnasse di cavare da quel piccolo pezzo di roccia alpina, che non parea fatto ad altro che a rotolare sulla via battuta dal padre, non si capiva. Salvo che gli fosse venuta quella ispirazione classica in Grecia, dove era stato un anno e mezzo per la costruzione d'un tronco di strada ferrata, poichè di là aveva mandato l'ordine a suo fratello di far entrare il ragazzo al Ginnasio, appena finite le elementari.
Conoscevo di vista il piccolo scolaro, e me ne dava notizie un suo compagno di classe, che mi stava molto a cuore. Aveva fatto il salto dalla prima alla seconda, con maraviglia di tutti, in grazia d'uno sbaglio di votazione. Era un ragazzotto tarchiato e sano, di aspetto benevolo, un po' sonnolento, compassato in ogni sua mossa, e pieno di cure per i suoi panni rozzi, non per vanità, ma per ispirito d'economia, e soprattutto per le sue grosse scarpe inchiodate, che esaminava a ogni tratto, con occhio esperto ed inquieto. E non l'avevano sbozzacchito punto nè la vita urbana nè gli studi. Camminava sempre alla montanara, a passi lunghi e a ondate, e salutava in un suo modo comico, levandosi il cappello con l'atto di chi scoperchia una pentola, senza alzar gli occhi da terra. Oltrechè era lo spasso dei compagni per la sua maniera stranissima di pronunziar l'italiano, come se rivoltasse in bocca delle grosse pillole, e ne inghiottisse una a ogni frase. Il primo giorno di scuola il professore gli aveva fatto ripetere sette volte, inutilmente, la parola tergiversazione, ch'egli pronunciava tregivessassiune, tacendo la smorfia di chi addenta un limone. Il latino, a sentirlo leggere da lui, pareva inglese. Per sciogliergli lo scilinguagnolo il professore gli aveva consigliato d'esercitarsi a pronunciare quel diabolico verso del Boito
Il freddo è tal che i baffi stalattitificanomisi;
ma il povero ragazzo faceva delle insalate di sillabe da fare scoppiar la classe dalle risa. S'esercitava non di meno, in segreto. E studiava; ma era invincibilmente ribelle al latino e alla composizione italiana. Aveva una così disperata povertà d'immaginazione, che da nessun tema poteva cavare più di dieci righe; non riusciva a capire in qual maniera, dovendosi fare, per esempio, la descrizione d'un temporale o d'una nevicata, si potesse scrivere ancora una parola non affatto superflua dopo aver scritto: scoppiò un temporale o nevicò. Agli esami mensili sudava sul quaderno come a un bagno turco, e non andava più in là del primo periodo, o riscriveva questo, variando l'ordine delle parole, con delle contorsioni di sintassi da far venire la pelle d'oca.
Vidi la prima volta suo padre una mattina di gennaio, nei corridoi del ginnasio, mentre aspettava il figliuolo. Era un uomo tozzo, con una larga faccia schiacciata e un'ispida barba rossa, un po' zoppo, vestito da muratore indomenicato e armato d'uno di quei poderosi bastoni, che si chiamano in lombardo pagadebiti; aveva un viso petulante ed aspro, come quasi tutti coloro che hanno fatto fortuna a duro prezzo. Dai movimenti bruschi con cui voltava il capo a destra e a sinistra, capii che veniva là per la prima volta, e che non aveva mai visto un istituto scolastico di quel genere. Arrivato davanti all'ufficio del preside, si fermò a guardare i busti dei quattro Poeti, schierati lungo il muro, e s'avvicinò al Petrarca in un modo curioso, come se volesse attaccar lite: seppi in seguito che li aveva presi per busti di professori morti. Rivolse la parola con rozza franchezza ai bidelli, a me, ad altri parenti di scolari, che aspettavano. Si capiva che godeva una soddisfazione d'amor proprio a respirare quell'aria di tempio della scienza, in mezzo a quei cartelloni di botanica, a quei busti, a quelle iscrizioni.
Ma quando s'apersero gli usci delle classi, e cominciarono a venir fuori da tutte le parti interminabili file di scolari d'ogni pelo e d'ogni statura, egli si stupì e si rannuvolò: non s'aspettava forse che il suo figliuolo avesse una tale moltitudine di concorrenti, e guardava quell'esercito di futuri avvocati, ingegneri e dottori con la faccia del contadino che scopre all'orizzonte il nuvolo nero delle cavallette. Ma fu peggio quando vide uscire ultime le studentesse, grandi e piccole, alcune vestite con eleganza e pettinate poeticamente, parecchie belle, qualche visetto ardito, delle gambe pienotte. Quell'anno appunto ce n'era un visibilio. Che ce ne fossero, forse l'aveva inteso dire; ma la realtà visibile gli faceva l'effetto d'una cosa nuova e sgradita. Vidi che le guardava l'una dopo l'altra con uno sguardo severo, che esprimeva tutti i suoi pensieri. Senza dubbio, quel mandar le ragazze a scuola coi maschi, e a scuola di latino, gli pareva una sconvenienza, uno scandalo, una pazzia addirittura, e doveva formarsi senz'altro delle ragazze stesse e delle loro famiglie un orribile concetto. E non potendo nasconder l'animo suo, mentre passava una delle più grandi, mi domandò: — Ma come.... ce n'è in tutte le classi? — e capii che avrebbe voluto aggiungere: — di questa infezione? — E rimase pensieroso, con le sopracciglia aggrottate.
Strana fu poi l'accoglienza che fece al figliuolo, Questi gli venne incontro placidamente, come se si fossero visti un'ora prima, e non si vedevan da un mese: non portava che una giacchetta cortissima, benchè si fosse nel cuore dell'inverno, ma era così gonfio dalla gran roba di sotto, che pareva uno di quelli dei circhi equestri che fanno i sette travestimenti. Il padre non lo baciò, non gli strinse la mano: gli guardò soltanto i panni e le scarpe. Poi gli domandò bruscamente: — Come va il latino? — Ma visto il professore, non aspettò la risposta, e corse a chiedere informazioni.
Ero già in fondo alla scala quando vidi scendere a precipizio il ragazzo, col viso spaventato, e dopo qualche momento suo padre, con la faccia accesa, che lo inseguiva, per legnarlo. Le informazioni non erano state soddisfacenti.
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Il mese dopo ritornò, gli riparlai, e rimasi stupefatto al sentir dalla sua bocca che una delle ragioni per cui aveva messo il ragazzo al ginnasio era che chi non sa il latino non sa l'italiano. Chi diamine glie l'aveva ficcato nel capo? E ripetè più volte la sentenza, della quale, certamente, non si rendeva alcuna ragione. Arrivò fino a dire: — Senza quello, un uomo non è uomo. — Insomma, era un classicista, e dei più rigorosi. Poi mi accennò le sue idee in materia d'educazione. Egli educava il figliuolo rigidamente, com'avevano educato lui, che a dodici anni era partito con due scudi in tasca dalle sue montagne, per andare a cercar fortuna, e da quel giorno non era più costato un soldo alla famiglia. In confronto agli stenti che aveva durato lui, studiare il latino doveva essere una delizia. Per questo non voleva che il suo figliolo s'infiacchisse nella vita comoda. Gli faceva portar la testa rapata anche d'inverno, niente cappotto, camice di tela grossa, mangiar pane asciutto la mattina, e guai se si fosse lavato una volta con l'acqua calda! Con simili idee si può immaginare che impressione gli facessero la più parte degli scolari che si vedeva intorno. Non li poteva patire. Quei perticoni della terza e della quarta che portavano ancora i calzoncini corti, quei marmocchi alti un palmo con dei cappottoni che toccavano i piedi, coi solini insaldati, con polsini, guanti, e orologio, quando gli passavano accanto, lo facevano fremere. La terza volta che venne me lo disse aperto: — Ma sa lei che si dà una gran porca educazione ai ragazzi, a Torino? — Aveva osservato che non uno degli scolari, andando incontro al padre o alla madre, si levava il cappello. Era un voler tirar su dei mascalzoni per forza. Egli si doveva voltar da un'altra parte per non dire un'impertinenza ai parenti. Era lo stesso dei ragazzi di dieci anni che, appena scesi nella strada, fumavano: a vederli, gli montavan le vampe al capo; un giorno o l'altro avrebbe strappato il sigaro di bocca a qualcuno: in verità, ogni volta che veniva al ginnasio, si faceva un'oncia di cattivo sangue. E non di meno eran le studentesse quelle che gli urtavan più i nervi. Un giorno mi disse: — Ma cosa voglion fare tutte queste... donne? — Risposi che volevano andare all'Università per prender la laurea in lettere, in legge, in medicina. — Per fare il mestiere? — domandò. — Naturalmente, — risposi. Non disse parola; si mise a dondolare il capo, accompagnando le ragazze con uno sguardo obliquo fin che scomparvero allo svolto del corridoio.
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In seguito, ne riseppi una più strana. Perchè il ragazzo facesse rapido progresso in latino, qualcuno aveva suggerito al padre di costringerlo a scrivergli in latino le lettere con le quali ogni tanto gli doveva chiedere qualche cosa. E il padre aveva posto in atto l'idea: si faceva tradurre le lettere da un amico prete, e rispondeva in italiano. Ma il povero ragazzo, incapace di accozzar quattro parole, non scriveva di suo: ricorreva per mezzo di qualche compagno ad alunni delle classi superiori, i quali gli mettevano insieme quel po' di prosa in un latino bislacco, spassandosi alle spalle di lui e del suo corrispondente; e le frasi più lepide giravano poi di bocca in bocca. Così seppi che una volta, avendo egli bisogno di due camiciole di lana, gli fecero scrivere duo indusia ex lana, che il prete traduttore non capì che diavolo d'arnese si fossero. Un'altra volta, occorrendogli un ombrello, i suoi segretari non trovaron di meglio che instrumentum quod nos a pluvia defendit. Ma la perla più preziosa fu una frase con cui tradussero la sua lagnanza contro la padrona di casa, perchè da dieci giorni non gli dava più che minestra di cavoli e patate. Ad te scribo, pater, ut queœrar quod jamdiu domina dormus meae nihil aliud mihi quam jus cum oleribus et terrestria tubera praebeat. Questa era d'un liceista. Insomma, il piccolo montanaro, non ostante il suo ammirabile buon volere, non solo non avanzava d'un passo nella lingua madre, ma pareva che tornasse indietro. La letteratura non gli si attaccava da nessuna parte. Egli leggeva l'enunciato d'un problema d'aritmetica e una strofa del Berchet con lo stessissimo accento. E seguitava a fare quei certi embrioni di componimenti. Quindi gli zeri fioccavano, e il padre si cominciò ad inasprire. Una mattina che stava aspettando in un caffè vicino al ginnasio, quando il ragazzo venne, gli levò di mano le Favole di Fedro, e aperto il libro a caso, e mosso il dito sopra un verso, gli gridò: — Cosa dice lì? — Il ragazzo, arrossendo, rispose che non capiva. — Come! — esclamò il padre; — neppure queste righe così corte?... — E brontolò, tentennando il capo: — Ho paura che facciamo una cattiva speculazione.
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E il suo inasprimento andò crescendo sempre, manifestandosi in special modo contro i segni ch'ei credeva veder da ogni parte d'una abbominevole corruzione. L'aveva con gli scolari che giocavano al biliardo nel caffè di sotto, con quelli che pigliavano il tranvai per tornare a casa, con certi liceisti che i giorni di cattivo tempo venivano alla scuola con gli stivali alla scudiera. Un giorno uscì in parole indignate perchè aveva visto un ragazzo arrivare al Ginnasio sul velocipede, accompagnato da un servitore. — Ma dove andiamo? — mi disse. — Ma son cose dell'altro mondo! Come permettono i professori...? E mi pare che sia tutta una gabbia di matti. Io non ci capisco più nulla, non ci capisco. — E guardava tutti per traverso. Il male era che quella figura rude e arcigna aveva principiato a dar nell'occhio ai ragazzi, i quali pareva che indovinassero l'antipatia che gl'ispiravano, e passandogli accanto, si toccavano l'un l'altro coi gomiti, e lo guardavano in aria burlona; di che egli s'irritava sempre più, e fissava alle volte i più arditi, mormorando parole provocanti. — Cos'ha quel farfanicchio, da guardarmi in quel modo? — Cosa vuole quest'altro scricciolo, con le sue scarpette da madamigella? — Odiava sopra tutti un alunno della terza ginnasiale, il quale, passandogli davanti, faceva uscire un fischio da uno spillone da cravatta in forma di galletto, congiunto da un tubo di gomma elastica ad una vescica ch'egli premeva sotto il panciotto. — Un dì o l'altro gli do una lezione — brontolava, guardandolo con occhi di falco. — E dire che avrà speso un paio di scudi in quell'ordigno!... In parola d'onore, se avessi saputo che mondo era, non avrei cacciato qui il mio figliuolo. — Mondo marcio! — ripeteva spesso. E per darmene una prova di più mi disse di aver visto girar per le strade un magnifico carrozzone a tiro a due, con cocchiere e servitore, che ogni giorno andavano a prendere i ragazzi alle case per portarli a non so che Istituto. — Ah! questa le passa tutte! — esclamò, con una risata ironica. — Non resta più altro che metterli a letto in iscuola, e fargli fare una poppata tra una lezione e l'altra. Che sfiancata razza! Io dico che il mondo vuol finire.
Continuando a grandinare gli zeri, benchè egli fosse severo col ragazzo, cominciò a pigliarsela anche coi professori e a far loro osservazioni e raccomandazioni singolari riguardo all'insegnamento, le quali li avrebbero offesi, se non li avessero esilarati. Se ne lagnava con me pure. — Non spiegano le cose chiaro, — diceva, — non pensano che a far bella figura loro con dei gran parlamenti; ma non hanno pazienza a far entrare bene le cose nelle teste. — Poi andò più in là. Diceva ch'era un insegnamento senza sostanza. — Tute bale. — Sa lei — mi disse — che son quattro mesi che tirano avanti con le storie dell'asino, del bue e della volpe? Non c'è da stupirsi che il ragazzo inasinisca. M'infischio del loro latinorum, se non mena ad altro. Sono stufo io. — Il latino non era più che latinorum: gravissimo segno. Eppure si capiva che se gli avessero promosso il figliuolo anche quell'anno, non fosse che per tener alto l'onor del casato in valle Maira, gli avrebbe fatto tirar avanti gli studi. Tra l'altre cose, lasciò trapelare il sospetto che il ragazzo fosse distratto dalle scolarine. Nella sua classe ce n'eran sette: il nostro uomo le conosceva tutte, e le squadrava con l'occhio d'un frate inquisitore, le scrutava con l'immaginazione, pareva che le fiutasse da un capo all'altro dei corridoi: una sopra tutte, una brunetta con gli occhiali, ricciuta e graziosissima, la quale doveva parere a lui, orso di montagna, dominato da un concetto fantastico della corruzione cittadina, un mostro di precocità sensuale e di raffinata civetteria. — Guardi che faccia! — mi diceva. — Quella lì.... No? Ah, caro lei, si vede che non conosce il mondo. Se avesse visto quelle che ho visto io.... Madonna santa, che scuole! — E anche la sua avversione alle studentesse essendo stata capita, per questo pure egli diventò argomento di curiosità e di ogni specie di lepidezze agli studenti, a segno che da un giorno all'altro c'era da aspettarsi qualche scenata. Una mattina, in fatti, seguì un mezzo tafferuglio perchè, avendo visto in mano a un ragazzo di prima un numero della Luna con una donna nuda, egli fece l'atto di strappargli il foglio, dicendogli che si vergognasse, e un gruppo di scolari gli diede la baia, in mezzo alla strada. Un'altra volta venne su sbuffando a dire che aveva visto dei monelli appostati carponi a pie della scala per guardar di sotto in su una ragazza che scendeva, e ch'egli li aveva trattati di sudicioni. Voleva andare dal Preside. Sarebbe anche ricorso alla Prefettura. Davvero, il suo figliuolo era capitato bene, per imparar l'educazione. E tutti quei professoroni che non vedevan nulla, che non sapevan nulla! Avrebbe voluto aver lui il comando, diceva brandendo il bastone, e tutto sarebbe stato all'ordine in ventiquattr'ore. Già, per prima cosa, avrebbe rimandato le signorine a far la calza a suon di scapaccioni.
Verso la fin dell'anno ebbe ancora una cagione di malcontento. Capitò a chiedere informazioni al professore di lettere una mattina appunto in cui il suo ragazzo, recitando la lezione, ch'era un brano del Celeo del Baldi, aveva con la sua barbarica pronunzia suscitato nella scuola una ilarità irrefrenabile. Il professore consigliò al padre di far correggere il difetto ortofonico del figliuolo da qualche maestro specialista, di mandarlo a prendere delle lezioni di pronunzia.
— Ma come! — esclamò il padre. — Ma se prende lezioni di pronunzia da un anno!
Il professore restò con la bocca spalancata. Poi disse: — In tal caso... non c'è più nulla da fare. Era così. Il povero ragazzo, per liberarsi dalle canzonature dei compagni, aveva fin dal principio dell'anno scolastico indotto suo padre a mandarlo a prender lezioni da un povero diavolo, di cui si leggeva il nome e il recapito in un piccolo cartello appeso a un banco di giornali, con quest'avviso scritto a mano: — Vera scuola di lettura a di pronunzia toscana, ad uso degli studenti dei Ginnasi e delle Scuole tecniche. — Era un ex commediante famelico, che dava per toscana la pronunzia di Mondovì, e pigliava trenta centesimi per lezione. Sarebbe stato impossibile di trovare un modo più miserando di sprecar del rame.
Del resto il professore disse al padre una cosa assai più spiacevole. Pregato di dichiarargli "francamente" se avrebbe fatto bene o no a far continuare al figliuolo gli studi classici, gli rispose senza ambagi che sarebbe stato meglio di metterlo per un'altra via; ma all'udir la verità presentita e domandata, come accade quasi sempre, il padre, punto nell'orgoglio, s'arruffò come un'istrice. Io lo incontrai per le scale, che sagrava. — E continuerà il latino a dispetto di tutti. Cosa credono? Perchè non è figliuolo d'un commendatore? Bisogna nascer con la grazia, a sentir questi cacasodi. Oh la vedremo, dovessi spender cento lire il mese in ripetizioni. Ma tu— soggiunse, afferrando per la cravatta e scuotendo forte il figliuolo — tu t'hai da mettere a studiare con l'arco della schiena, o giuraddio ti mando a portar la secchia a Marsiglia, e non ti do più la croce d'un centesimo per dieci anni. Perchè la voglio spuntare, la voglio.... O non son chi sono.
Il ragazzo studiò — studiò tanto da risicare una malattia — ma, riprovato all'esame nelle due composizioni e nel francese, non fu nemmeno ammesso ai verbali. Trovai il padre col figliuolo nei corridoi del ginnasio, la mattina ch'era andato a prender la sentenza, in mezzo a un andirivieni di ragazzi, di parenti e di professori.
S'era già sfogato col preside, aveva già cappottato la vittima e preso la sua risoluzione: non gli restava più che una rabbia fredda.
— Lo sa? — mi disse, abbordandomi a capo alto, — levo il ragazzo dal latinorum. L'ho cantata al professore, in presenza di tutti. È deciso. Non voglio finir d'incretinirlo qui dentro. Farà la strada che ho fatto io e andrà più lontano di tutti questi dottori pieni di vento.... D'altronde — soggiunse, lanciando un'occhiata torva a due studentesse che passavano — non è un luogo pulito.
Io feci un atto canzonatorio.
— So quel che mi dico, — rispose, appuntando l'indice a un occhio. — Qui non hanno fortuna che i figliuoli dei pezzi grossi.... e le ragazze. Ho capito il gioco. Son fino, io. Del resto, il figliuolo ne sa abbastanza. Non ne sapevo tanto io quando ho cominciato. E poi, se non altro, non si frusterà più il cervello per imparare delle minchionerie.
Il ragazzo rispose con un cenno del capo a quelle parole insolitamente benevole; ma parve che non le capisse. Egli volgeva gii occhi intorno, e pareva che sentisse tristezza di uscir come un reietto da quel luogo, il quale pure non gli ricordava altro che fatiche e umiliazioni. Dei suoi compagni, che andavano e venivano, alcuni lo guardavano con un sorriso di pietà. Ma altri, riprovati come lui, gli rivolgevano uno sguardo quasi d'invidia, sapendo ch'egli lasciava per sempre quella dura via, su cui essi avrebbero dovuto per molti anni ancora trascinar la croce del latino e del greco. E veniva fatto di pensare, guardando costoro e l'invidiato, a quanti altri c'eran là dentro, e non di un solo sesso, condannati da una stupida ambizione paterna a forzare inutilmente delle facoltà ribelli, lasciando sonnecchiar quelle sole che un giorno avrebbero dato loro sostentamento e buon nome; a quanti, in quella lotta ingrata e umiliante, si fiaccavan l'ingegno e pigliavano in odio anche gli studi per cui eran nati, o si avvelenavano l'animo in rabbie ed invidie impotenti, facendo una sterminata corsa circolare per arrivare poi a una bottega o a un tavolino d'impiegato d'ordine o a un'officina, a cui avrebbero potuto giungere per una brevissima via diritta, senza delusioni o senza affanni!
— E con questo — concluse lo "spaccapietre" — servitor vi resto, — e sarebbe uscito così, senza scandali; ma nel passare davanti all'ufficio dei preside, dov'era un crocchio di professori, che ridevano, credendo che si burlassero di lui, si sentì ribollire le ire sopite, e disse forte, soffermandosi:
— Già, c'è veramente da ridere per aver fatto sciupar due anni a un ragazzo! Belle imprese! Val proprio la pena che si facciano far delle statue dopo morti! — e accennò ì busti dei quattro poeti.
A quest'ultima uscita, i professori si guardarono un momento in faccia e, indovinato l'equivoco, diedero in una risata dai precordi.
— Eh non ridano tanto! — riprese quegli, perdendo i lumi. — È un riso che suona morto, con quel po' d'appetito che si rimpastano! Sentano un po' se suona meglio questo! — e con un colpo della mano fece sonar le monete nel taschino della sottoveste.
Il figliuolo, vergognato, lo tirò verso l'uscita. S'erano intanto avvicinati molti studenti e facevano ala al suo passaggio e gli s'affollavano dietro, ghignando. Fin che furono nel corridoio, si contentarono di far quel mormorio sordo che prelude alle urlate, e lui non fece che smozzicar delle minaccie fra i denti: — Li vorrei pigliare a uno a uno.... A momenti fo alla tonda con la canna.... Si levin dai contorni delle scarpe, signori belli....
Ma quando furon nella strada, la dimostrazione prese forza. Gli scolari cominciarono a gridargli: — A la montagna! Abbasso Gambacorta! Rustica progenies!
Egli si voltò e rispose: — Andate a lavorare, mangiapanacci a ufo! Frustabanchi muffiti! Latinorum dei miei cordoni! V'accarezzo la groppa io, a momenti!
Quelli ricominciarono a urlar più forte, incalzandolo in schiera. Egli avrebbe voluto affrontarli. Il figliuolo, piangente, lo tirò via per un braccio.
Ma quando fu alla cantonata vicina, si voltò indietro ancora una volta; titubò un momento come se cercasse un'ingiuria vittoriosa; poi rivolgendosi, non più soltanto alla folla schiamazzante dei suoi insecutori, ma all'edifizio intero delle scuole, videlicet, alla scolaresca, agli insegnanti, al latino, a tutte le glorie e a tutte le vanità del mondo classico che l'avevano abbagliato e tradito, fece loro per ultimo saluto.... Come dire? O musa bolognese, soccorrimi.
Braccio col pugno chiuso, in alto il mosse
E colla destra aperta un picciol colpo
Diessi là dove suol punger la vena
Poi sparì dietro la cantonata, col suo piccolo latinista fallito, ranchettando.