Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
Fra scuola e casa

IL PROFESSOR PADALOCCHI

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IL PROFESSOR PADALOCCHI

 

Appena arrivato a Torino, il signor Ernesto Parletti, impiegato regio, trentanovenne e scapolo, andò a far visita al cavaliere professor Padalocchi, suo vicino di casa d'altri tempi, ch'egli non aveva più visto da sette anni. Non vi sarebbe andato, forse, se avesse saputo che nel giro di quel settennio, per effetto di una lenta malattia di fegato, il professore s'era venuto inferocendo a segno nella sua antica passione di linguaio, da costringere anche i suoi ultimi e più pazienti amici a voltargli le spalle. In fatti, di raccoglitore amoroso di fiori e di gemme della lingua, di purista severo e un po' litigioso, ma, per la bontà dell'indole, sopportabile, e qualche volta ameno, quale il Parletti l'aveva conosciuto, egli s'era ridotto a poco a poco un semplice chiappino di vocaboli e di modi errati, uno spazzaturaio di francesismi, un pedante accattabrighe senza discrezione e senza riguardi, col quale non c'era più verso di ragionare; e già si diceva che battesse la strada del manicomio. Ma l'impiegato, credendo di ritrovarlo come l'aveva lasciato, gli si presentò con la cordialità e col rispetto antico.

Lo trovò affondato nella sua vecchia poltrona, ingiallito e risecchito; ma con gli occhietti ancora luccicanti, e con una voce piena e viva, ch'era segno di buono stomaco e di vigor di nervi. Egli si mostrò lieto della visita, fece sedere il visitatore davanti al suo tavolino, ch'era coperto, come sempre, di vocabolari, di grammatiche e di lessici logori e postillati, e rinsaccandosi nella veste da camera, gli domandò benevolmente: — O come sta il nostro caro signor Parletti? come sta? come sta?

L'impiegato tentennò il capo.

Quanto a salute, — rispose, — non troppo bene, da qualche mese

Il professore l'interruppe, sorridendo. — Mi dispiace davvero, — disse; — ma... mi scusi. Dicendo non troppo bene ella non dice punto di star male: dice di non star bene eccessivamente.

L'impiegato rise, ricordandosi della consuetudine che aveva il professore di fargli ogni tanto un sermoncino filologico. Ed esclamò bonariamente: — Ah! Il signor professore è sempre quello, sempre con la proprietà della lingua. E ha ragione. Dunque, sto poco bene.... Ma è cosa di nulla. L'aria di Torino mi presto. Del rimanente... non mi lagno. Lei forse lo saprà: son stato tre anni a Foggia, due anni a Parma; poi fui promosso segretario e traslocato....

Trasferitodisse il professore.

Trasferito a Firenze, dove passai tre anni veramente fortunati. Lei sa che ho pochi bisogni. A Firenze la vita è facile. Con trecento lire al mese..,.

Il mese.

L'impiegato lo guardò, incerto s'egli facesse sul serio o per chiasso. Poi riprese: — Avevo trecento lire il mese, delle attribuzioni più confacenti ai miei mezzi, dei buoni superiori. Insomma, ero nel mio centro, salvo il desiderio di tornar qui, che ebbi sempre. Aggiunga che, per una felice combinazione, trovai sotto-segretario il Degiorgi, che lei ha conosciuto in casa mia, un giovane distinto e simpatico, in cui avevo una fiducia illimitata, e che in una certa circostanza critica mi diede una di quelle prove d'amicizia, che si ricordano per tutta la vita. Basta. Mi hanno rimandato a Torino, e ora sono completamente soddisfatto. E lei, signor cavaliere?

Il cavaliere tacque qualche momento. Poi disse con accento affabile: — Mi gode l'animo della sua buona fortuna, glie l'assicuro. Ma.... poichè ho affetto per lei e la stimo, consenta ch'io le faccia un'osservazione, che per me è un dovere d'amicizia. Io vorrei, mi perdoni, ch'ella parlasse con maggior proprietà e con un po' più di correttezza la propria lingua, da quell'uomo colto e da quel buon italiano ch'ella è; cosa che non le costerebbe se non un leggerissimo sforzo. Non si rammenta i miei consigli di sette anni addietro? Io mi ricordo, per grazia d'esempio, d'averle notato un giorno che mezzi, senz'altro, nel significato di facoltà intellettuali, non è voce propria. Poi: essere nel suo centro non è buon modo italiano; combinazione per caso non regge. E anche distinto, nel senso di egregio, ragguardevole, sarebbe da riprendere. Lascio correre il simpatico, del quale oggi si abusa. Ma "fiducia illimitata" per piena o intera, circostanza critica per congiuntura difficile son francesismi scussi. E perchè dice ella "completamente soddisfatto" che è modo affettato e senza garbo, invece di compiutamente o perfettamente, eh?

L'impiegato rise da capo, ma un po' di mala voglia, perchè, in fondo, senza pretenderla a linguista, s'era sempre creduto, se non altro, un buon orecchiante, e anni prima aveva scritto in un giornale di Parma certe rassegne cittadine, delle quali era stato detto che avevano "buon sapore d'italianità". Rispose non di meno con buona maniera: — Lei ha mille ragioni, cavaliere. Ma veda, io, nella mia qualità d'impiegato contabile....

Computista, — osservò il professore.

Come lei vuole, — disse il Parletti; — nella mia qualità d'impiegato computista, non ho l'obbligo la pretesa di parlare come un accademico della Crusca: una volta che mi son fatto intendere, ho raggiunto il mio scopo.

No, mi scusi, — ribattè con vivacità il professore, — non basta. Basta per il volgo rozzo o per i faccendieri sciamannati, che nulla hanno a cuore, fuor dal danaro; ma non basta per un buon cittadino e un bravo ufficiale dello Stato com'ella è. Intanto, noti, pretesa è un brutto smozzicone della parola pretensione. Una volta che mi faccio intendere, è francese serio serio. Raggiunger lo scopo non è modo usato dai buoni parlanti. Lo scopo s'ottiene, si consegue, non si raggiunge. Dica liberamente, se ha esempi o ragioni da oppormi: discuteremo.

Non ho nulla da opporre, — rispose il Parletti, un po' piccato. — Non ho che a pregarla di compatire la pochezza della mia coltura.

L'insufficienza, vuol dire. Ma non è il caso. Appunto perchè la tengo in conto di persona colta io le faccio queste osservazioni, delle quali ella più che altri mai è in grado di trarre giovamento; e gliele faccio da amico.

E io non lo prendo in cattivo senso.

In cattiva parte, dica. Non ne dubito, perchè la conosco. Ella pure conosce me. Io non posso vincere nasconder l'animo mio. Per me, veda, la lingua è tutto. Dove non è lingua, non è nazione; dove la lingua è corrotta, son corrotti i pensieri e i costumi, e la civiltà stessa è bacata, se ancora si può dire che essa sia. Ora, in tal condizione è l'Italia. Il perchè io credo che il combattere in difesa della purità della nostra favella sia il primo dover civile d'ogni onest'uomo, e stimo che l'adoperarsi a ricacciare di dall'Alpi una parola barbara sia opera altrettanto meritoria, più meritoria che il respingere con l'archibugio alla mano un soldato invasore. E avrebbe a essere una guerra di tutti, veda, una guerra senza tregua, a parole e per iscritto, per via di precetto e d'esempio, contro nemici ed amici, e fin coi più stretti congiunti, a costo anche delle più care amicizie, e della pace domestica, e della salute. Questa è la mia fede, e mi farei squartare per essa. Per me, mi scusi, chi contamina la lingua è un traditore della patria.

Ne convengo, — rispose l'impiegato con un sorriso ironico.

È il francese j'en conviens, badi bene.

Eh! andiamo! — esclamò il Parletti, alzandosi impazientito. Ma si contenne, e si rimise a seder subito, con l'idea di dare pacatamente al cavaliere una brava lezione, in lingua inappuntabile, chiamando a raccolta tutte le sue frasi più castigate.

Signor professore, — disse, — abbia la bontà di ascoltarmi cinque minuti.

E poi che vide il Padalocchi in atto di prestargli attenzione, cominciò: — Io non ho bisogno di dire che mi vanto d'essere italiano, e che nutro il massimo rispetto per la lingua nazionale: chiunque, che abbia cuor di patriotta, lo nutre. Le dirò anzi che un tempo sono stato anch'io appassionato per lo studio della lingua, quanto era compatibile con l'impiego che coprivo, il quale non mi consentiva d'approfondire alcuna materia estranea all'amministrazione. Le dirò di più che, durante la mia residenza a Firenze, avendo fatto relazione col cavaliere Fanfani, che in fatto di lingua è una sommità, e avendo l'onore di avvicinarlo soventi, lo consultavo, e lo stavo a sentire con grande interessamento, e posso dire ch'egli ha contribuito moltissimo a darmi quella modesta istruzione letteraria che mi lusingo d'avere: tanto è che non scrivo come un barbaro, e che quel poco di prosa dei miei resoconti d'ufficio mi valse diverse volte le felicitazioni del mio direttore capo; il quale, tra parentesi, senz'essere un letterato di mestiere, scrive alla perfezione.

Qui riprese fiato, rallegrandosi del silenzio del professore, come di segno ch'ei non trovasse nulla a ridire. Poi continuò:

Come vede, tengo la lingua italiana nel debito conto. Ma non posso lasciar di dire che il farne l'assunto il più importante della vita, come fanno certuni, e il sollevar questioni di parole a ogni passo, mi pare che sia un andare all'eccesso, e quasi a dire una mania, una tirannia, che paralizza il pensiero, e che, oltre al mortificare e al mettere nell'imbarazzo la gente, finisce per ispirare odio per la lingua, invece che amore, e, mi perdoni, converte la conversazione in un incubo detestabile, in una schiavitù, passi la parola, rivoltante. Scusi la mia franchezza, cavaliere. Ella è d'ingegno e d'animo troppo elevato per aversi a male che le si parli francamente.

E qui tacque, maravigliato della eloquenza e della eleganza della sua tirata, e prese un atteggiamento di vincitore.

Il professore che era stato a sentire col capo basso, menando la matita alla lesta sopra un taccuino stretto fra le ginocchia, udite le ultime parole si morse lo labbra, e parve sul punto di metter fuori una grossa impertinenza. Ma, la tenne dentro, e disse invece con pacatezza forzata, lanciando al Parletti uno sguardo feroce al di sopra degli occhiali: — Sa ella, signor mio, tra gallicismi, neologismi, improprietà, locuzioni errate, quanti spropositi, grandi e piccoli, ha snocciolati in quattro minuti?

Come! — esclamò l'impiegato.

Quarantasette! — disse il professore.

Il Parletti saltò su per pigliar l'uscio; ma una curiosità stizzosa lo rattenne.

Signorsì, — riprese il Padalocchi, mostrando il taccuino, — e son qui a provarglielo. Apra bene i buchi degli orecchi. Come ha incominciato? Non ho bisogno di dire è un pessimo traslato francese: si dice; non occorre ch'io dica. Ella ha detto che nutre rispetto per la lingua nazionale; nutrire un sentimento è una improprietà matricolata. Ha detto chiunque scambio d'ognuno, che è errore. Ha detto per buon cittadino patriotta, che non è voce di buona lega. Poi: l'impiego che coprivo è una frasaccia da pigliar con le molle, e non si approfondisce uno studio come si approfondisce una buca. Andiamo innanzi. I modi aver l'onore, aver la bontà di fare una cosa senton di francioso di qui a Piazza Castello. Nella frase è una sommità in fatto di lingua v'hanno due pecche; una sommità, che, riferito ad uomo, è un astratto ridicolo, e il modo tra fatto di, che tutti i purgati scrittori riprovano. Avanti. Ha detto residenza in vece di dimora, relazione in luogo di conoscenza, soventi in iscambio di sovente, che è un solecismo deplorabile. Ha detto interessamento che è una parolaccia mostruosa, diversi per alquanti, che è un granciporro, resoconto, che non è altro che uno sguaiato gallicismo capovolto. E non siamo che a mezzo cammino, badi bene. Appassionato allo studio è una delle solite metaforacce transalpine, che fanno stomaco. Contribuire all'istruzione, invece di giovare o cooperare, è una locuzione anche peggiore. Compatibile, nel senso in cui l'ha usato lei, è orribile. Poi ha buttato giù un fascio di sgangherati francesismi dicendo avvicinare una persona, lusingarsi, andavo all'eccesso, paralizzare il pensiero, il massimo rispetto, direttore capo (en chef), scrivere alla perfezione.... Che altro c'è? Sollevare quistioni! È una frase bollata da tutti i linguisti. Non lascerò di dire, per ometterò, è un modo sgarbato. È una leziosaggine il quasi a dire. È una stranezza mortificare per confondere. È una sgrammaticatura "l'assunto il più importante". È una sgrammaticatura anche più sformata il finire per invece di finire con. E non basta. È un'improprietà marchiana l'accoppiare il sostantivo odio e il verbo ispirare, che s'ha a dir soltanto dei sentimenti degni. Ed è un modo falsissimo il dire mi valsero delle lodi in luogo di mi fruttarono. Ed è un odioso costrutto francese "lei è d'animo troppo elevato per" invece di "troppo elevato da". E infine elevato per nobile, manìa per smania, felicitazioni per congratulazioni, detestabile per abbominevole, e quel rivoltante appiccicato a schiavitù, e' son tutta robaccia d'oltremonte da buttare tra la spazzatura turandosi il naso con la pezzuola. E tralascio il resto. Ahi! serva Italia! E tenga a mente che si pronuncia ìncubo, non incùbo,

Il Parletti restò avvilito.

Ma alla vista del sorriso di trionfo con cui il professore gli domandò: — Ebbene, che ha da dire? — fu ripreso dal dispetto, e, mandata giù la saliva amara, rispose seccamente: — Anzi tutto, mi permetto di farle osservare....

Tre erroriinterruppe il Padalocchi; — si dice prima di tutto, mi faccio lecito di osservarle, non di farle osservare.

A questo punto, finalmente, il Parletti perdette gli ultimi resti della pazienza.

Eh! mi faccia il santo favore di finirla! — gridò, pigliando il cappello. — Io non sono soverchiamente suscettibile; ma il troppo stroppia, alla fin delle fini. E le dirò, signor cavaliere, che i pedanti hanno fatto il loro tempo, e che la sua mi pare una pedanteria sconveniente, se lei parla sul serio, e uno scherzo di cattivissimo genere, se fa per celia.

Il professore si levò in piedi, e rispose lentamente, in tuono di disprezzo:

Pedanti furon sempre chiamati dai barattieri della lingua i custodi della sua purità e i vendicatori del suo onor vilipeso. Mi glorio d'essere un pedante, signor Parletti. Del resto.... suscettibile per permaloso e " i pedanti hanno fatto il loro tempo" sono due dei più sconci e fetenti francesismi che appestino le bocche italiane.

Se li tenga dunque, — rispose il Parletti andando verso l'uscio — che saranno al loro posto nella collezione di un pedante marcio!

Signor Parletti! —gridò il Padalocchi infiammandosi. — Ella dimentica con chi parla!

L'ha dimenticato lei prima di me, — rispose l'altro. — Ha dimenticato che chi veniva a farle visita non era uno scolaretto di grammatica, ma un funzionario dello Stato!

Un'altra pestilenziale parola! — urlò il professore. — Ebbene, no, non l'ho dimenticato. E le dirò che è l'odio che ho contro la sua classe quello che m'ha fatto uscire dei termini, se pur ne sono uscito; onesto odio, onde m'onoro, e che durerà in me fino alla morte. Poichè siete voi con le vostre scempiate voci e petulanti sgrammaticature segretariesche, voi, dicasterica peste, con le vostre evasioni, controemarginazioni, regolarizzazioni, e infiniti scerpelloni d'acciabattoni, voi e la vostra cognata iniqua progenie dei curiali e dei gazzettieri, quelli che trascinate all'ultimo esterminio la lingua, e l'Italia con essa!

Basta così! — rispose il ParlottiOra lei non offende soltanto l'ospite; lei intacca l'onore dell'impiegato!

Intacca l'onore! — esclamò il Padalocchi, con un sorriso di sarcasmo.

La prevengo che non tollero una parola di più!

La prevengo!

Esigo una soddisfazione!

Esigere una soddisfazione!

Ah! questo è troppo! — gridò allora l'impiegalo. — Mi son frenato finora in omaggio alla sua età....

In omaggio!

Saccentone insolente! Ci voglion dunque le vie di fatto....

Voies de fait! gridò il cavaliere, mettendosi in parata. — In casa mia?...

E mentre il Parlotti, furibondo, afferrato un giunco da battere i panni, cercava d'avvicinarseli per darglielo sul muso, quegli, di dietro al tavolino, prese a tirargli addosso quanto si trovava a mano, accompagnando i proiettili con parole d'ingiuria e con affannose chiamate alla serva,

To', infrancesato mariuolo! Adelaide! Piglia su, camarlingo dei barbarismi! Adelaide! A te, vile profanatore dell'idioma gentil.... — e gli tirò lo strofinaccio, — sonante..., — e gli lanciò il campanello, — e puro...! — e gli scaraventò il calamaio. — Adelaide!

Ma nel far l'ultimo tiro o nel punto che l'altro stava per rifilargli un colpo di giunco, trattandolo di "linguaiuolo screanzato" il professore mise un piede in falso e stramazzò sull'impiantito, battendo forte della guancia, sopra la gamba d'uno sgabello rovesciato.

La serva sopraggiunse gridando, il Parletti buttò via il giunco ed accorse; fra tutti o due lo rialzarono e l'adagiarono sulla poltrona: aveva la guancia enfiata, null'altro. Gli fecero allungar le gambe sopra una seggiola, e appoggiare il capo sulla spalliera. La serva che, al primo accorrere, aveva gridato: — Ai ladri! — si rassicurò, vedendo la premura inquieta con cui l'impiegato interrogava il suo padrone.

Signor cavaliere! — disse il Parletti con aria contrita. — Perdoni se, in un accesso di collera, ho mancato: sono spiacente dell'accaduto: mi valga di scusa il dolore che ne provo.

All'udir le parole accesso di collera, il professore, che aveva ancora gli occhi chiusi, si scosse; alla frase spiacente dell'accaduto aperse gli occhi; al dolore che provo lanciò al Parietti un occhiata severa.

Poi accennò che non serbava rancore.

Me lo dimostridisse l'impiegatodandomi una stretta di mano.

No! — sospirò il Padalocchi. — Stretta di mano non è un bel modo. Lo riprende perfino il Fanfani, che gabella tutto.... Ma, via, nel parlar familiare.... glielo passo.

E porse la mano.

Il Paletti se n'andò timidamente, o quando fu sull'uscio, voltatosi indietro, disse ancora: — Lo rinnovo le mie scuse. — Ed uscì.

Ancora questa! — mormorò il professore, ansando e distendendosi sulle gambe una coperta che gli porgeva la serva. — Le rinnovo le mie scuse! È la frecciata del Parto.

Ah! signor cavaliere, lei è troppo buono! — esclamò la donna, premendogli sulla guancia un pannolino immollato. — Lei dovrebbe sporger querela contro quel mascalzone!

No, — rispose con voce stanca il Padalocchi, accomodandosi per dormire. — È bello combattere e cadere per la lingua, come per la patria.

Poi mormorò: — In ogni caso, non sporgerei querela, la moverei. Va, ostrogota.

E quando fu solo: — Ostrogoti tutti! —esclamò. — La barbarie ci affoga. È finita.

E soggiunse con un fil di voce, addormentandosi:

Non c'è più lingua italiana.

 

 

 


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