Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
Fra scuola e casa

UN POETA SCONOSCIUTO.

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UN POETA SCONOSCIUTO.

 

 

Arturo Ghigheri è uno dei ricordi più ameni della mia gioventù; ameno tanto che, nelle giornate nere, io me lo risuscito e me lo rivolgo nella mente come un personaggio del Ferravilla, per rimettermi di buon umore. E mi par che il suo ritratto non sia fuor di luogo in queste pagine perchè egli è un esempio singolare dei curiosissimi impasti di ignoranza inconscia e d'ambizioni e di illusioni fanciullesche, che possono uscire da certe scuole, dove l'educazione del buon senso ha l'ultimo posto, quando non è relegata fuor dell'uscio.

In che modo fosse entrato nella nostra allegra brigata fiorentina, tutta composta di precoci delinquenti letterari, non ricordo bene: egli si ficcava da per tutto con certe sue industrie di galoppino ossequioso, ed era così buono di pasta, garbato e servizievole, che finiva con farsi benvolere anche da quelli che lo trattavan da principio come un intruso importuno.

Era parmigiano, se non sbaglio, perchè scambiava l'u col v nei dittonghi, e impiegato in una società d'assicurazione contro la grandine. Aveva venticinque anni e una figura lepida: bassetto di statura e mingherlino, un viso grasso e senza barba, che pareva gonfio, con due occhi fuor dell'orbita e una bocca tonda e sempre aperta, arieggiante il muso del pesce luna; vestito sempre con certa eleganza, ma con un taglio di panni un po' scarso, che gli lasciava scoperte lo rotondità posteriori, le scarpette scollate e due enormi polsini; i quali si vedevano biancheggiare da un capo all'altro di via Calzaioli. Portava un'eterna tuba sul capo e un fiore perpetuo all'occhiello, camminava a piccoli passi rapidi, e spesso, per le strade appartate, quando aveva faccende di premura, pigliava la corsa, facendosi guardar da tutti come un borsaiolo inseguito.

Sotto quella onesta tuba d'impiegato era spuntato un giorno, credo all'improvviso, il bernoccolo dell'ambizione letteraria. E da che cosa, in qual maniera gli fosse potuto nascere non si capiva, poichè pareva rigorosamente digiuno d'ogni studio letterario antico o recente, ed era manifesto che la natura gli aveva negato anche il più lontano pretesto di cercar la gloria nel calamaio. E la cosa riusciva più strana perchè, fuor della letteratura, nel suo ufficio d'Assicurazioni, si diceva ch'egli fosse un fior d'impiegato.

La sua passione era la poesia lirica.

Doveva essersi svegliato una mattina con una strofa nella testa, piovutagli Dio sa di dove, e aver detto: — Prendo la via delle lettere, — come avrebbe detto: — Prendo l'abbonamento al Niccolini.

Quando entrò nella nostra compagnia aveva già sfornato una dozzina di poesie di soggetto patriottico o amoroso. Eran tutte brevissime, tutt'al più di quattro o sei quartine di settenari, perchè "le poesie" diceva lui "debbono essere come lampi". Ma che cosa fossero le sue d'ingenuo, di slavato, di sciapito, di povero, di nullo è impossibile dirlo. Eran roba che sfuggiva alla critica come il semolino alla forchetta, o che appena si poteva paragonare a certi versi di libretti d'opera diventati, per la loro sciocchezza, altrettanto famosi che la musica divina a cui servirono indegnamente di falsariga. E le aveva tutte scritte in caratteri pidocchini sur un quadernetto di carta velina, formato di tre fogli cuciti con un punto di fil di seta, e grande quanto la mano, che con un soffio si mandava per aria. Sotto una di queste poesie c'era scritto in caratteri più grandi:

Declamata dalla giovine filodrammatica tal dei tali, a una colazione della casa tale, la mattina del 3 di settembre del 1808, in Voghera. — Sotto un'altra:— Encomiata dal tal dei tali, cugino in secondo grado di Niccolò Tommaseo. — Il suo "bagaglio" poetico stava tutto in quei tre foglietti trasparenti. La sua persona, il suo vestiario, il cervello, il quadernetto, i versi, ogni cosa era in armonia: tutto era minuscolo, leggero, volante, sfuggevole, aeriforme ad un modo.

Aggiungete a questo un particolare comico: che egli non rideva mai.

Naturalmente, quando entrò nella nostra brigata, non destando la gelosia di nessuno, ebbe del sapone da tutti. E allora prese animo a "tastare l'opinione pubblica" come egli diceva, per la prima volta. — Se riesco, — disse, — come spero, lascio l'impiego e mi do tutto all'Arte. Ma prima voglio tastar l'opinione con uno pseudonimo. In queste cose, bisogna andar con cautela. — Una sera gli cercammo tutti insieme un "nome di guerra" al che dava una grande importanza, e dopo lunghe ricerche e discussioni egli approvò con calore quello suggeritogli da un di noi: — Qualcosacè; poichè nei momenti d'entusiasmo egli soleva ripetere, senza saperlo, le parole che disse Andrea Chènier andando alla ghigliottina: si batteva una mano sulla fronte e esclamava: — Eppure, qui dentro qualche cosa c'è! — Con questa stramberia di pseudonimo, mandò la meglio delle sue poesie amorose al giornale letterario Le veglie fiorentine, e stette aspettando la risposta con gran trepidazione.

Il direttore, un giovane arguto, amico nostro, che noi pregammo d'essere pietoso, gli rimandò la poesia con qualche complimento, dicendogli che il suo giornale aveva "per legge" di non pubblicare poesie

Arturo Ghigheri si consolò del rifiuto coi complimenti, e mandò una poesia politica intitolata: Francia e Italia.

Il direttore gli rispose lodandolo, ma dicendo che il suo giornale non pubblicava poesie che potessero suscitare odi e provocare conflitti fra le nazioni.

L'idea che i suoi versi fossero parsi pericolosi all'Europa gli accarezzò così dolcemente l'amor proprio, ch'egli inghiottì senza pena anche il secondo rifiuto, e mandò subito una terza poesia, Al Mare, in versi sciolti; certissimo, questa volta, di vederla pubblicata.

Gli rispose allora, in nome del direttore, il segretario di redazione, dicendogli: — Il nostro direttore non pubblica versi sciolti. È una fissazione, una stortura, che cosa vuole? Non c'è rimedio. Egli odia i versi sciolti fin dall'infanzia, implacabilmente, per istinto. Le rimando il manoscritto con dolore. —

A questo terzo rifiuto il poeta s'insospettì; ma d'un sospetto che adombrò appena la sua illusione. Egli pensò che ci fosse nelle sue poesie qualche "piccola imperfezione esteriore" — di quelle che sfuggono nell'impeto dell'ispirazione, qualche parola o frase non "abbastanza classica" che il giornalista e noi stessi, per delicatezza, non gli volessimo accennare. Tirò fuori il suo ragnatelo di quadernetto, o posandolo aperto in mezzo al tavolino della birreria, ci pregò di esser sinceri, di indicargli i nei, se ce n'erano. Ma non badò quasi alle poche osservazioni che, pro forma, gli fece qualcuno. Egli pareva assorto in un pensiero che espresse poi a mezza voce, come parlando tra , con una locuzione di recente acquisto: — Già.... mi manca il lenocinio della forma. —

E un momento dopo, tutt'a un tratto, battendo il pugno sul tavolino, gridò: — Perdio, voglio farmi uno stile!

A quell'uscita, ridemmo tutti; ma egli, senza badarci, soggiunse che capiva benissimo come gli mancassero gli studi e come avesse bisogno di famigliarizzarsi con gli autori. E ci chiese dei consigli.

Uno gli domandò: — Ha letto il Parini?

Egli rispose con serena disinvoltura: — No.

Un altro gli domandò: — Ha letto il Foscolo?

Un poco, — rispose; — ma, lo confesso, di volo.

Un terzo gli domandò: — Ha letto il Carducci?

No, — rispose; — ma (testuale) l'ho inteso molto nominare.

Qui mancò poco che andassimo a traverso alle seggiole; ma non badando nemmen questa volta alle nostre risa, egli continuò: — Eh si, ho delle lacune.... ma ora mi piglio tutti questi autori e la prima giornata che ho di permesso me il leggo dal primo all'ultimo tutti d'un fiato. In ventiquattr'ore se ne insacca della roba, e con un po' di ritentiva.... Infine, qualche cosa c'è qui dentro. Tutto sta a rompere il ghiaccio. I principî, si sa, son duri per tutti.

E ricominciò a figliar poesie microscopiche, che ricopiava man mano sul quaderno.

farò tante — diceva, — che qualcheduna che s'imponga bisogna che mi riesca per forza.

Egli tirava al capolavoro così in furia o a casaccio, profondamente persuaso che, anche senz'ombra di cultura, ostinandosi a sfiondare dei versi, si potesse cogliere a volo un'ode immortale, come anche chi non ha mai preso in mano un fucile, tempestando il bersaglio di palle, può dar nel centro una volta.

Ma quanto più lo conoscevamo tanto più ci appariva maraviglioso. Non so in che occasioni, per via di terzi, era riuscito a barattar qualche parola, a una cantonata o davanti a un caffè, col Prati, con l'Aleardi, col dall'Ongaro, ed altri; dopo di che non mancava mai di fermarli, sprofondando la tuba, ogni volta che gl'intoppava. E ci portava religiosamente le loro notizie. — Prati è infreddato. — Aleardi prese un torcipiede, avantieri mattina, uscendo dall'Accademia di belle arti. — Questo per lui era stare a giorno della letteratura contemporanea. Il più bello è che dopo un certo tempo, per darsi l'aria di familiarità con quei signori, non li nominava più che col nome di battesimo; ciò che dava luogo a equivoci continui. — Stassera arriva Domenico. — Chi, Domenico? — domandavamo. Era Francesco Domenico Guerrazzi. — Ho incontralo in via degli Uffizi AndreinoAndreino? Quale Andreino? — Eh diavolo, il traduttore del Fausto, Andrea Maffei.

Ma queste vanesiate che in un altro avrebbero fatto stomaco, in lui riuscivano piacevoli, tanta era l'ingenua franchezza che ci metteva. Ed era ingenuo e buono al segno che non solo reggeva alla celia, ma il più sovente non la capiva. Accadeva alle volte che trovandoci sette o otto insieme a un canto di strada, di notte, a strascicar la conversazione, egli diceva ex abrupto:— Sentite questi pochi versi che....

A quelle parole, dicendo tutti a una voce: — Con permesso! — scappavamo tutti a un punto per quattro strade diverse, come per sfuggire allo scoppio d'una palla a mitraglia, senza farci più rivedere; e mentre il giorno dopo credevamo di trovarlo offeso, egli non dava il minimo segno di rancore, come se avesse creduto davvero alla simultaneità d'un bisogno urgente in tutti e sette i suoi uditori.

In seguito, essendosi messo a fare, com'egli diceva, degli studi enormi di lingua poetica, cioè a ribruscolar per liriche e poemi certe frasi, che sloggiava poi, come trovate per , nel nostro crocchio, noi ci mettemmo d'intesa per non lasciargliele mai terminare. Cominciava a dire, per esempio, in una discussione:

Quando sorge nell'animo concitato...,

Appena riconosciuta la frase di magazzino, ci rivolgevamo la parola a vicenda, sopra un altro argomento, tutti in coro, coprendogli la voce; e così si rifaceva tre o quattro volte, fin che egli rinunciava a esporre la sua perla, guardandosi intorno stupito coi suoi due occhi di pan tondo; ma senza mostrar mai d'accorgersi del nostro perfido gioco. Ma non si sarebbe creduti a dirle tutte. Per citarne ancor una, la sua maniera preferita per far credere che conosceva a fondo un prosatore o un poeta, era di lamentare che non gli fosse reso giustizia abbastanza. Udendo una sera parlar del Leopardi, esclamò con accento di sincera indignazione:

Che poeta!... E così poco conosciuto!

Oppure, d'uno scrittore che ammirasse diceva: — Quello .. va lasciato stare! — Lasciate star l'Ariosto, fate il piacere! — Guerrazzi? Oh quanto al Guerrazzi lasciamolo stare.

E si chiudeva infatti, per fortuna dell'autore ammirato, in un silenzio di pesce.

Frattanto seguitava a scaricar poesie e a mandarne a tutti i giornali, non scoraggiandosi mai dei rifiuti, ai quali attribuiva sempre tutt'altra cagione che la vera; e ad ogni rifiuto, dopo averlo giustificato con noi, esclamava: — Eppure..., qui dentro qualche cosa c'è!

A quando a quando, però, gli nasceva un dubbio; ma fuggitivo. Egli prendeva ora l'uno o l'altro a braccetto e domandava con accento affettuoso: — Dimmi la verità: credi che riuscirò a farmi un nome?

Tu l'hai già, — gli rispose una volta un di noi, senza ridere.

E lui, franco: — Sì.... capisco.... in una piccola cerchia. Ma la vera fama è ben altro. Ah! mio caro, la via è lunga e difficile, io non mi faccio illusioni.

Egli era veramente d'una ingenuità senza fondo. Noi lo studiavamo con curiosità quasi amorosa. Cercando di scoprire come fosse potuto sorgere e come potesse mantenersi in lui un concetto così sformato delle sue facoltà, lo tastavamo su cento argomenti, ci affacciavamo alla sua mente da cento parti, e non ci vedevamo che lunghi anditi nudi, una casa assolutamente smobiliata, in cui le illusioni letterarie potevano ballare una danza perpetua, in una libertà assoluta, cantando un canto che nell'edifizio vuoto si ripercoteva con tanta sonorità da non lasciargli sentire alcuna voce dal di fuori. Il nostro buon amico Socci definiva mirabilmente il suo cervello: — Un asilo infantile d'idee.

Ma i rifiuti dei giornali s'andarono accumulando per modo che, stuzzicato anche da noi, egli finì con credere a una guerra segreta d'invidiosi, congiurati a impedirgli di farsi un nome, e allora, avendogli noi suggerito di fondare un giornaletto letterario, che gli sarebbe servito di bandiera e di spada, scoprimmo ch'egli covava quest'idea da lungo tempo. Aveva fatto il conto che trecento lire gli sarebbero bastate per le spese d'annunzi e per i primi due numeri; possedeva qualche risparmio; qualche cosa avrebbe raggranellato fra i conoscenti. Lo nostre esortazioni lo decisero. Trovò lui il titolo del giornale: Forse!, ch'era un'allusione alle proprie speranze, galoppò una settimana per Firenze, con la tuba e le scarpette, in cerca d'uno stampatore e d'un segretario, e si mise per morto alla caccia epistolare dei corrispondenti in tutte le parti d'Italia.

E qui si palesò tutta quanta la sua prodigiosa facoltà d'illusione.

Egli s'era immaginatlo (e in questo non s'ingannava, poveretto) che il giornale si sarebbe avviato bene e presto, se avesse avuto per critico musicale Giuseppe Verdi, per corrispondente letterario da Parigi Victor Hugo, per collaboratore a Londra Carlo Dickens, ed altri, della stessa tacca, in altri paesi. E non è da stupire che accogliesse sul serio questa idea poichè egli era nel mondo intellettuale com'è nel mondo fisico il bambino, che non avendo concetto senso di distanze o di grandezze, allunga le mani per afferrare lo stelle. Intatti, scrisse a tutti. Il processo della sua illusione era ammirabile. Diceva oggi a un amico, dandogli di gomito, con la coscienza di dire una cosa molto ardita: — Se si potesse avere la collaborazione di Hugo, eh? che ne dici? Che colpo! — Il giorno dopo diceva a un altro amico, come la cosa più naturale del mondo: — Sai, ho scritto per la collaborazione a Victor Hugo. — Tre giorni appresso diceva a un terzo: — Una buona notizia. Abbiamo la collaborazione di Victor Hugo. — E aspettando la risposta da Parigi, ci credeva davvero.

il Verdi, l'Hugo, il Dickens, non si sa perchè, non accettarono l'offerta. Ma il Forse ne fece di meno.

Ricordo con piacere indicibile la sera ch'egli invitò gli amici a festeggiare l'uscita imminente del primo numero con due fiaschi di Chianti e due dozzine d'acciughe. L'ufficio del Forse era in uno sgabuzzino nudo e poco pulito, ch'egli affittava a ore dalla Direzione d'un giornaletto politico popolare, installato a un quarto piano di via dei Servi. Il mobilio consisteva in una lunga tavola di legno greggio, fatta di due assi e di due cavalletti, e in quattro seggiole di paglia sbilenche. Due o tre sedemmo su dei vecchi cestini rovesciati. Il Ghigheri ci presentò come segretario, amministratore, correttore, tagliafasce e spedizioniere un piccolo gobbo con la zazzera grigia, suo compaesano, che aveva scovato non so dove, e la cui deformità compassionevole non ci tolse di dare una grassa risata quando leggemmo sul suo biglietto di visita: Già professore di lingue occidentali. Eh caspita! Sta bene il rispetto dei disgraziati; ma ci son certe provocazioni.... Il Ghigheri, col suo eterno fiore all'occhiello, era felice. La sua faccia di pesce luna fosforeggiava. Aveva sopra alla testa un'aureola luminosa di speranze. Ma che speranze! Era sicuro del fatto suo. Ci domandò che cosa si dicesse del Forse per le vie di Firenze. Aveva un primo numero splendido, con un sonetto inedito del Prati, con una poesia sua intitolata: — Malcavti! diretta contro i suoi avversari; aveva fatto attaccare per la città cento e cinquanta annunzi; s'era assicurata la collaborazione d'una falange di signorine. Gli abbonati sarebbero piovuti a rifascio. Ci fece vuotare i due fiaschi. Recitò dei versi. Parlò di suo padre e di sua madre. Ubriaccò il gobbo. Pianse. Ci trattenne fin che furon consumate le due candele di sego, e di sull'uscio, quando uscimmo, ci ridisse: — Qualche cosa c'è — con un accento così caldo e giubilante di persuasione, che ci mandò fuori quasi commossi. Ma, ahimè! il giornale, che uscì il giorno dopo, un quadratino di carta floscia che pareva un fazzoletto da naso, era un così miserando tritume di chincaglierie arcadiche e di luoghi comuni scolareschi da superare anche lo più vituperevoli previsioni. Figurarsi, poi, che c'era stampato il sonetto del Prati con una terzina sola, e che il gobbo briaco aveva fatto nella terza pagina tali sbagli d'impaginazione, che bisognava andar cercando qua e le membra sparse degli articoli come fanno i ragazzi coi piccoli cubi dipinti per ricomporre il quadro nella scatoletta. Uscito il secondo numero, il Forse spirò. Ma non senz'aver fatto un certo rumore a cagione della originalità della sua Piccola posta, alla quale il Ghigheri aveva data una grande ampiezza. Quel poveretto aveva la disgrazia di non poter dirigere quattro parole a una signorina senza cadere in equivoci deplorevoli. Alcuni di questi, apparsi nel secondo numero, fecero il giro di mezza Firenze. — Signorina L. S., Sassuolo. Mandateci qualcuna delle vostre poesie. Le pubblicheremo in prima pagina. Siete già conosciuta anche qui. Si sa che ne avete fatte dello belle! - Signora A. R. D., Modena. — Buona la novella. Ma un po' fredda la chiusa. Ci permette d'introdurvi qualche cosa di nostro? Con pochi tocchi si otterrebbe l'effetto. — Signorina Z., Livorno. — A quando la pubblicazione del poemetto? Se ci volesse accordare le sue primizie! Ne avremmo un gran piacere noi e se ne avvantaggerebbe forse il suo volume. — Per questo, la morte del giornale fu sinceramente lamentata da molti.

Ma il Ghigheri non si perse d'animo. Parlò di mene di nemici, di congiura del silenzio; ma confessò pure che s'era arrischiato con fondi insufficienti. — Se avessi potuto durare fino al decimo numero!... Tutto sarebbe mutato. M'aveva promesso un articolo Franceschino

Chi, Franceschino?

De Sanctis. Il Verdi pareva ben disposto. Avevo un monte di manoscritti. Basta, ritenterò. Non è una strada coperta di rose, lo sapevo bene.

E si rituffò nella lirica. Lo vedevamo qualche volta a sera tarda girare a passetti rapidi per piazza del Duomo, con la tuba in mano, che creava. Una sera lo trovai tutto solo, piantato a un canto di via del Cocomero, immerso nei suoi pensieri. Me gli feci accanto in punta di piedi, e battendogli una mano sulla spalla— Che cosa fai? — gli dissi.

Egli si voltò in tronco e rispose: — Mi faccio uno stile.

E chi vuoi aggredire? — domandai. Credeva che gli avessi domandato che cosa stava facendo in quei giorni. Stava facendo appunto una raccolta di modi del Giordani perchè, dopo averci pensato bene, aveva riconosciuto la necessita di fortificarsi anche nella prosa. — La mia grande difficoltàdisse — sono i trapassi. — S'era invaghito di questa parola, di cui non capiva perfettamente il significato. Parlava ogni momento di trapassi. — Bel trapasso! — diceva, udendo leggere un bel periodo di giornale.

Poi, per un po' di giorni, scomparve. Risapemmo che aveva presa e destata una passione: una letterata un po' frolla, con un lungo collo d'uccello spennato, moglie d'un impiegato del ministero della guerra; la quale gli aveva mandato un miriagramma di versi martelliani per il secondo numero del Forse. Gliela vedemmo una sera a braccetto. Egli aveva il viso trionfante. Porse si riprometteva da quell'amore un soffio d'ispirazione nuova e potente, e fors'anche gli pareva che giovasse alla sua gloria quel po' d'aureola dongiovannesca sovrapposta alla corona di poeta. Venne una volta fra noi, e accennò misteriosamente alla sua passione con certe frasi straordinarie, che noi gli tagliammo in bocca subito, col solito artifizio, appena ci accorgemmo che erano state pescate nel Giordani. Ma l'intrighetto non durò. Ci dissero che il marito, indovinato il trapasso della moglie dal ministero della guerra al Parnaso, aveva messo il poeta alla porta. Una sera egli ci lesse una poesia satirica di due strofette, alludente al marito, la quale mi ricordo che terminava con questo verso:

 

Nacqui poeta e guai a chi mi tocca!

 

Ma si capiva che il chi doveva averlo toccato. Di più egli aveva un segno rosso sotto un orecchio. Ci disse che era la rosa d'un bacio. A noi, veramente, pareva una legnata. Ma non ci riuscì di saper altro.

Andato a picco l'amore, ritornò in mezzo a noi, con tutta la freschezza delle sue prime speranze. A dire il vero, c'era più d'uno nella compagnia, a cui quella allucinazione ostinata cominciava a dar sui nervi, e che aveva una matta voglia di spiattellargli in faccia una buona volta la verità nuda e cruda. Ma noi li persuademmo a tacere. Era un così buon ragazzo! E d'altra parte, che sugo c'era a ferirlo brutalmente nell'amor proprio, se tutti se ne potevano spassare a loro piacere? Una volta solo lo vidi aversi per male d'uno scherzo, e fu una sera che un di noi, che aveva in mano il famoso quadernetto dei versi, lo mise sopra un piattino da caffè, che non copriva tutto, e soffiandovi sotto, lo mandò come un volante agli amici d'un tavolo vicino. Il Ghigheri corse a raccoglierlo e, mettendolo in tasca, disse con risentimento: — Non si gioca coi manoscritti.

Non racconto le burlette innumerevoli e i tiri birboni che gli si fecero da noi e da altri: lettere supplichevoli di editori, carte di visita di grandi scrittori stranieri, fatte stampare apposta, e ficcate nella serratura del suo uscio, e altre cose simili; delle quali egli non faceva che sorridere bonariamente perchè le considerava come anticipazioni scherzose d'un tempo avvenire, in cui gli sarebbero state fatte sul serio. E fra una celia o l'altra continuava a scodellar poesie e a trascriverle sul quadernetto; il quale, nondimeno, non so per che proprietà miracolosa, le conteneva tutte senza crescer mai di volume o serbando sempre bianche le ultime pagine. Ma sotto il furore poetico gli durava l'idea fissa del giornale. E dopo molti sforzi, infatti, riuscì finalmente a rimetterlo fuori. Ne uscirono questa volta quattro numeri, la piccola posta tornò a far del chiasso; ma il giornale morì di fame in capo a un mese come l'anno avanti.

Sennonchè, questa volta, le conseguenze furon diverse, pur troppo.

Noi non le conoscemmo subito perchè, durante la vita del Forse, il Ghigheri era vissuto in un altro giro d'amici; le sospettammo soltanto quando ritornò nel nostro, due mesi dopo, come un figliuol prodigo. Era seguito un mutamento in lui. Pareva affaticato e impensierito. Chiedemmo informazioni qua e : ci fu detto che, a cagione delle sue troppo prolungate distrazioni letterarie, era stato sfrattato dalla Società d'assicurazioni, ch'egli si trovava al perso, e che picchiava inutilmente in cerca d'impiego a tutti gli usci della capitale. E del suo nuovo stato vedemmo ben presto i segni sulla sua persona. La sua eterna tuba perdeva il pelo, il soprabitino luccicava ai gomiti, la bianchezza dei grandi polsini s'andava come velando d'un'ombra azzurrognola. Poi cominciammo a vederlo qualche volta un po' pallido e con gli occhi pesti, il che ci fece sospettare che non si nutrisse abbastanza. E allora anche quelli che l'avevan preso in tasca non ebbero più per lui che un sentimento di schietta pietà.

Ma debbo dire che nascose e sopportò la bolletta eroicamente, non chiedendo nulla a nessuno, accettando solo qualche desinare ogni tanto, quasi per forza; sempre avviticchiato più stretto alle sue speranze, e più amorosamente perduto dietro alla sua Musa. Anzi, quanto più intristivano gli affari suoi, tanto più fiorivano le sue illusioni. Gli venivan su dallo stomaco vuoto le più audaci idee. Gliene sbocciava una nuova ogni giorno. Una volta, visto la difficoltà d'aprirsi una strada in Italia, disegnava di' andare in Francia, di farsi un nome , e col battesimo della gloria parigina ritornare in patria, dove, per certo, gli sarebbero state spalancate tutte lo porte. Un'altra volta fece una pensata stupefacente: scrivere un romanzo a chiave, — in versi, s'intende, — un romanzo di cui nessuno capisse nulla, che torturasse i cervelli come un enigma sovrumano; al quale poi avrebbe fatto seguire un libriccino, la chiave, dove tutti i misteri sarebbero stati svelati in modo da provocare nel lettore una esclamazione continua di maraviglia e di stupore, un nuovo genere di piacere artistico, acutissimo, quasi insopportabile, come quello d'un uomo che ad ogni tic tac dell'orologio avesse la visione d'un mondo nuovo. Un altro giorno, un'altra idea sfolgorante: una fiaba in ottave, con illustrazioni di Domenico.... — Quale Domenico? — Eh, diavolo, Domenico Morelli, il pittore in auge, la gloria dell'arte napoletana. — Il libro avrebbe avuto un successo immenso. Non c'era che la piccola difficoltà di persuadere l'artista; ma egli diceva d'esser certo che, letta la fiaba, non gli avrebbe rifiutata l'opera sua. E così sognando, sperando, dimagrando, ripetendo sempre il suo "qualche cosa c'è", correndo dietro a un impiego che correva più di lui, mangiando non si sa come e mostrando un po' più ogni giorno le corde dei panni, ma senza smettere mai il suo fiore all'occhiello, egli tirò avanti per quasi un anno.

Poi sparì tutto a un tratto, una sera, nel modo più strano.

Stavamo seduti davanti a un caffè di piazza del Duomo, sei o sette amici. Egli era più triste del solito. Pareva che da un po' di tempo avesse suggezione dei camerieri, che, fiutando la sua miseria, gli davan delle sbirciate impertinenti. A un dato punto, eccitato un poco dalla birra, che aveva forse bevuta a digiuno, cavò di tasca il suo quadernetto di carta velina e principiò a leggere dei versi dedicati a sua madre, nei quali, sotto la solita povertà disperata della forma, c'era pure una certa dolcezza di sentimento; e leggendo, si commosse; gli vennero le lagrime agli occhi. Ed ora proprio sul punto d'ottenere un piccolo "successo di stima", il primo della sua carriera letteraria, quando il destino avverso c'entrò di mezzo. Egli teneva il quaderno aperto sopra una mano, tirava vento, uno spiffero improvviso glielo portò via e lo sbattè sul lastrico. Mentre si slanciava per raccattarlo, una ventata più forte lo travolse più in , come una foglia secca. Qualcuno di noi si mise a ridere, i camerieri si sbellicarono. Rosso in viso dal dispetto, egli continuò a inseguire il manoscritto che continuò a scappare, rigirato dal vento, danzando nel polverìo. Era una cosa buffa e triste ad un tempo: mai non s'era vista una più miserevole immagine dell'uomo che corre dietro a un'illusione! E pareva che il vento infuriasse per fargli dispetto: i foglietti si scucirono, si sparpagliarono, turbinarono più leggeri e più lesti, e lui dietro sempre, piegato in due, tenendosi la tuba con una mano e fendendo l'altra dietro ai suoi parti fuggenti, fin che disparve con essi dietro al Duomo.... Che cosa seguì nell'animo suo? Fu offeso dalle risate dei camerieri? Gli si mutò il cuore tutt'a un tratto verso di noi? Chi lo può sapere! Il fatto è che non tornò più quella sera, che non lo rivedemmo il giorno dopo in seguito, e che nessuno de' suoi conoscenti lo rivide più per Firenze d'allora in poi. E noi rimanemmo con quell'ultima impressione comica e pietosa del povero Ghigheri portato via con tutto il suo patrimonio poetico e tutte le sue speranze di gloria da un soffio di tramontana.

Non lo rividi più che una volta, dieci anni dopo, a Milano, dove c'incontrammo a viso a viso, urtandoci quasi, a uno svolto di via Solferino. Ci riconoscemmo subito. Egli mi salutò con certa cordialità rattenuta e un po' malinconica. Non era gran che mutato: aveva solo qualche pelo bianco alle tempie, e la bocca di pesce luna un po' cascante dai lati. Ma non più fiore all'occhiello, non più tuba, non più polsini: era vestito come un lavorante pulito. Al primo saluto riconobbi la nota buona della sua voce. Gli domandai: — E la poesia? — Egli scrollò una spalla. — Ora son nella prosa, — rispose, e mi spiegò la sua risposta mostrandomi una mano aperta, in cui teneva un campione di frumento. Faceva il sensale di granaglie.

Dopo questo, un po' impicciati tutti e due, non trovando più altro da dire, ci lasciammo.

Addio, — gli dissi.

Tanti auguri, — rispose.

Ma, come seguo spesso fra persone che si rivedono dopo molti anni, fatti appena dieci passi in direzioni opposte, ci voltammo tutti o due per riguardarci, furtivamente.

Io finsi d'essermi voltato per risalutarlo, e lui, con un sorriso triste, si toccò la fronte con la mano, e disse qualche parola che non intesi, ma che indovinai. — Eppure... qualche cosa c'è!

Poi scantonò.

Povero Ghigheri! L'illusione durava ancora!

Povero Ghigheri?

Ah, Dio buono, se ci si pensa.... Tutti quanti ci battiamo la mano sulla fronte, dicendo: — Qualche cosa c'è! — Egli credeva che dietro la sua fronte ci fosse della poesia, mentre non c'eran che delle gramaglie. Sta bene. Ma altri crede che dietro la propria ci sia molto di molte cose, mentre non c'è che un piccolo campione di una cosa sola; altri crede che ci sia tutta roba sua, mentre non c'è che della roba d'altri; altri, infine, credendo d'averne cavato per vent'anni dei pensieri liberi e generosi, s'accorge un bel giorno con amarezza, di non aver dato fuori che delle cabalette, delle bugie ereditate e delle adulazioni codarde per la consorteria sociale in cui è nato. E per tutti viene il colpo di vento che ci strappa di mano il quadernetto, e facciamo tutti la stessa magra figura correndogli dietro, fin che scompariamo, come il Ghigheri, dietro a una chiesa. Ah! ridi di noi alla tua volta, mio buon Ghigheri, e in grazia della sincerità con cui mi riconosco della tua famiglia, se un giorno ravviserai il tuo ritratto in queste pagine, accetta la canzonatura come vent'anni fa, e perdona all'autore.

 

 

 

 


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