Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE PRIMA.

LA LINGUA E L’AMOR PROPRIO.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

LA LINGUA E L’AMOR PROPRIO.

Ritorno a te, giovinetto.

Hai visto che cosa s’ha da rispondere a chi dice: – Che importano le parole? – A quella risposta debbo fare un’aggiunta, che ti persuaderà anche meglio della necessità di studiare la lingua.

In tutti i paesi del mondo sono argomento di ridicolo gli errori di lingua. Non è qui il caso di cercare da quale intima sorgente della ragione e del sentimento questo ridicolo nasca. Si ride degli errori dei bambini, piacevolmente, perchè nei bambini è naturale l’errore; si ride degli errori della gente del popolo, con un senso di compatimento, perchè derivano da un’ignoranza scusabile; si ride degli spropositi di chi appartiene alle classi colte, facendone le beffe, perchè sono effetto d’un’ignoranza colpevole. E avrai osservato che si ride involontariamente, spesso a nostro malgrado, anche degli errori delle persone che amiamo e rispettiamo. È quasi un istinto irresistibile, come al veder fare certe smorfie a chi mangia e certi traballoni a chi cammina.

[26]

Ora, com’è naturale in tutti questo sentimento, è anche naturale che tutti, chi più, chi meno, si vergognino e si stizziscano di suscitarlo. Benchè ancora giovinetto, tu avrai visto più volte anche uomini che non hanno alcuna pretensione a letterati, e che tollerano ogni specie di scherzi, risentirsi al veder ridere d’una parola o d’una frase sbagliata che sia loro sfuggita di bocca. Esiste veramente nell’uomo un particolare amor proprio, che si potrebbe definire l’amor proprio della parola, e che è singolarmente delicato e irritabile. Non ti lasciar ingannare da chi lo nega e dice di ridersene. Che cosa importano le parole? Ma l’importanza loro, che tanta gente finge di disconoscere, è dimostrata di continuo e da per tutto da infiniti segni. Domanda a quanti bazzicano caffè e trattorie da molti anni, quante volte hanno inteso a un tavolino accanto, anche fra gente di professioni lontanissime dalla letteratura, discussioni accanite e interminabili sull’italianità o sul significato d’un vocabolo. Vedi nei giornali che pubblicano corrispondenze dei piccoli comuni, quante volte i corrispondenti, polemizzando, si scherniscono e si dànno a vicenda dell’asino per uno svarione di lingua o di sintassi. Interroga qualunque scrittore noto, che non abbia reputazione di strapazzar la grammatica, e ti dirà quante lettere di sconosciuti riceve, che invocano il suo giudizio sulla legittimità d’una voce o d’una locuzione, sulla quale è corsa una scommessa. Fatti dire da maestri e da professori quante lettere ricevano da padri e da madri, che rivendicano la correttezza d’una parola o d’una frase segnata come errore in un componimento del loro figliuolo, ragionando, citando [27] esempi e accalorandosi come linguisti offesi nell’orgoglio. E quanti battibecchi seguono negli uffici di tutte le amministrazioni, per piccole quistioni di lingua, fra redattori di minute risentiti d’un appunto linguistico e superiori feriti nel sentimento della propria autorità letteraria! E in quante assemblee un discorso per ogni verso sensato fallisce allo scopo per una frase sgrammaticata che fa ridere! E quanti sono gli uomini politici, anche illustri, al cui nome è rimasto appiccicato per tutta la vita, come un’insegna derisoria, uno sproposito di lingua, sfuggito loro una volta più per sbadataggine che per ignoranza! Vedi se importano o no le parole, e per l’effetto che producono negli altri gli errori, e per il risentimento e le amarezze che da quegli effetti vengono a noi, e se sia da darsi retta a chi sconsiglia i giovani dallo studio della lingua, come da un perditempo.

E puoi farne la prova tu stesso. A chiunque ti dica che studiar la lingua è tempo perso, se te lo dice in italiano, prova a dir per ch’egli ha fatto un errore di proprietà o di grammatica, e vedrai che salta su, smentendo subito stesso, e ti rimbecca: – Come? Vuoi fare il maestro a me?... Ma studia prima la lingua!

E qui, supponendo che tu sia oramai arcipersuaso, chiudo la triplice prefazione, e mi metto in cammino.

 

[28]

DEL PARLARE.

Le miserie della loquela.

 

La prima cosa che ti devi proporre, mettendoti a studiare la lingua, è d’imparare a parlarla correttamente e facilmente.

A darti fermezza in questo proposito gioverà più che altro la consuetudine, che tu devi prendere, d’osservare la scorrettezza, la rozzezza, lo stento, le infinite miserie e ridicolaggini del modo di parlare dei più, non già nelle classi sociali inferiori, ma in quella medesima a cui tu appartieni.

Troverai molti che, parlando italiano, perdono ogni vivacità dello spirito, come se cambiassero natura; che ti fanno sospirar mezzo minuto ogni parola, come avari a cui ogni parola costasse uno scudo, e par che le posino l’una dopo l’altra con gran riguardo come oggetti fragili e preziosi; che per raccontar la cosa più semplice e più futile fanno una lunga e lenta tiritera, che metterebbe alla prova la pazienza d’un santo.

Conoscerai altri che, per parlar corretto, si [29] rifanno ogni momento indietro a rettificar una parola o a correggere una frase, ti presentano due volte un periodo, prima in brutta copia e poi messo a pulito, ti fanno assistere a tutta la faticosa fabbricazione del proprio discorso, pezzo per pezzo e giuntura per giuntura, e quando credi che l’abbian finito, v’aggiungono ancora qualche commento e gli dànno qualche ritocco; dopo di che, affaticati dal lavoro fatto, non hanno più capo ad ascoltare la tua risposta.

Sentirai parecchi, che metton fuori ogni tanto una parola o una frase francese, o del dialetto, o del loro gergo professionale, con l’aria di non avvedersene, o di dirla per dar varietà capricciosa o colorito comico al discorso; ma in realtà perchè non sanno l’espressione corrispondente italiana; e screziano così il loro italiano per modo, che non si sa ben dire che lingua parlino, e par di sentire di quei sonatori ambulanti che suonano tre strumenti, tutti e tre malamente, in una volta sola.

Udirai certi tali, che cercano di nascondere gli spropositi come i prestigiatori fanno sparire le pallottole, assordandoti con un precipizio di parole; che per distrarre la tua attenzione dalla loro grammatica alzano la voce o dànno in risate fuor di proposito, e si mangiano a mezzo le forme verbali di cui non sono sicuri, e confondono le frasi dubbie con l’accompagnamento d’una specie di rantolo catarrale, somigliante al rugliare che fanno i cani tra l’uno e l’altro latrato.

Ma chi può dire tutte le industrie puerili e ridicole a cui si ricorre per salvare il decoro nella disperata lotta con la lingua italiana? Gli uni si riducono a parlare più coi gesti e con gli [30] ammicchi che con le parole; gli altri vanno avanti a furia d’intercalari e di luoghi comuni, coi quali coprono tutti gli sbrani e tappano tutti i buchi del discorso; questi, per prender tempo a cercare il vocabolo, sciorinano dei ma che non hanno più fine, o piantano dei però enormi, su cui s’appoggiano come sopra un bastone; quelli, per poter raccogliere il periodo che scappa da tutte le parti, fanno lunghe pause, anche nel dire una bazzecola, fingendo un lavorìo profondo del pensiero, o una distrazione improvvisa, o una svogliatezza di gente annoiata, che dica tanto per dire, senza badare a quello che dice. Quante arti, quante fatiche e figure ridicole per iscansare il ridicolo di non saper parlare la propria lingua!

Ma per compier la mostra bisogna ricordare anche quelli che non parlano; quelli che nelle compagnie dove si parla italiano non vanno, o ci vanno come a un castigo, e ci stanno come sulle spine, senza rifiatare, o parlando il meno possibile, anche con danno proprio, e a costo di parere imbronciati o villani; quelli che, per la stessa ragione, pigliano in uggia i conoscenti, e anche gli amici italianeggianti, e da questi si fanno prendere in uggia alla volta loro, burlandoli come d’una ostentazione di saccenti e d’aristocratici; quelli che vanno più oltre, che non nascondono la propria antipatia, dandole un altro colore, verso tutti quegli italiani d’altre regioni, coi quali, per farsi intendere, dovendo trattar con loro per forza, sono costretti a parlare italiano. E c’è ancora la famiglia numerosissima degli screanzati incorreggibili, che in qualunque compagnia si trovino, pure sapendo di non esser capiti, s’ostinano sfacciatamente a parlare il [31] proprio dialetto, a sventolare la bandiera della propria ignoranza, sulla quale hanno scritto: – Chi mi capisce, bene; chi non mi capisce, s’accomodi –; somiglianti a quegli ubbriachi allucinati, che tiran via a ragionar coi pilastri.

Ma c’è nella gran famiglia dei poveri della parola un personaggio, che tu devi conoscere più intimamente degli altri, perchè rappresenta una tendenza pericolosa e comunissima, dalla quale più che da ogni altra ti hai da guardare. Egli sarà il primo d’una serie di personaggi singolari, che io conobbi, e che ti farò conoscere man mano, per ammaestramento e per ricreazione, nel corso del viaggio che faremo insieme.

Ti presento per il primo il signor Coso.

 

[32]


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2010. Content in this page is licensed under a Creative Commons License