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FRA UN PARLATORE RICERCATO E UNO CHE PARLA ALLA BUONA.
Tizio. – Giunto che fui al bivio, stetti un momento in forse se dovessi volgere a destra o a sinistra.
Il Pedante. – Mi permetta. Io direi: arrivato che fui al bivio, stetti un momento in dubbio se dovessi voltare....
T. – ....Se dovessi voltare a destra o a sinistra. M’arrestai, attendendo che passasse qualcuno, per chiedergli l’indicazione che mi faceva d’uopo....
P. – Mi faceva d’uopo! E se dicesse semplicemente: che m’occorreva? E invece di “attendendo„: aspettando? E domandargli invece di “chiedergli?„
T. – Ma, non scorgendo anima nata....
P. – Non vedendo anima viva....
T. – Piegai a destra e procedetti fino a una chiesetta, cinta di cipressi, della quale mi sovvenne che m’aveva parlato mio padre, quando mi narrò la sua gita al castello.... Trova qualche cosa a ridire?
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P. – Cinque cosette. Io direi presi invece di “piegai„, andai innanzi invece di “procedetti„, circondata invece di “cinta„, mi ricordai invece di “mi sovvenne„, mi raccontò invece di mi “narrò„. Vuol seguitare?
T. – Quivi scorsi due uomini distesi al suolo....
P. – Quanto amore per quello scorgere! E perchè non lì invece di “quivi?„ E stesi per terra in luogo di “distesi al suolo?„ Il suolo!
T. – ....che sembravano assopiti....
P. – ....parevano addormentati, se non le par troppo comune.
T. – ....e, osservandoli, venni in sospetto che facessero sembianza, ma che non dormissero davvero. Non m’ero male apposto....
P. – Com’è detto bene! Sospettai sarebbe troppo andante; “far sembianza„ è più nobile di far mostra e di fingere; “non m’ero male apposto„ non è un modo di dozzina come non m’ero ingannato.
T. – Mi dileggia ella forse, signore?
P. – “Tolga il cielo!„ O come può ella “accogliere„ un tal pensiero? “Proceda„.
T. – Di repente, infatti, quasi per accordo, si destarono entrambi, e l’un d’essi....
P. – Un momento. Mi lasci ammirare quel “di repente„ per a un tratto, e quell’“entrambi„ per tutti e due, e l’“un d’essi„ per uno di loro. Questo si chiama “favellare„! Riprenda.
T. – (Capisco).... E l’un d’essi, con accento di cortesia, che mal s’accordava con l’atteggiamento del suo volto, mi disse: – Se passa di [61] qui per recarsi al castello, ha errato; la riporremo noi sul retto cammino....
P. – Mi perdoni. Qui, benchè ammiri ancora, mi parrebbe più naturale il dire: in tono cortese, e non corrispondeva all’espressione del suo viso. Quell’“un d’essi„, poi, le avrà detto andare e non “recarsi„, la rimetteremo, non “la riporremo„, sulla buona strada, non “sul retto cammino....„
T. – (Che insopportabile seccatore!) Ciò dicendo, sorsero ambedue da terra, e mossero alla mia volta....
P. – Approvato, e con plauso. Io avrei detto: dicendo questo, s’alzarono tutt’e due, e vennero verso di me –; ma riconosco che avrei parlato con meno squisita eleganza....
T. – Insospettito, indietreggiai. Essi accelerarono il passo. Avevano in animo d’assalirmi, non cadeva dubbio. Si figurerà di leggieri il mio spavento! Volli gridare; ma mi venne meno la voce. Mi volsi in fuga; ma fu indarno: mi sentii afferrare da tergo; mi fu forza arrestarmi....
P. – L’arresto anch’io per un momento, per farle osservare che parla troppo bene. Avrebbe potuto dire in forma più modesta: – Mi feci indietro. Quelli affrettarono il passo. Volevano assalirmi; non c’era dubbio. S’immaginerà facilmente il mio spavento! Volli gridare; ma mi mancò la voce. Mi diedi alla fuga; ma fu inutile; mi sentii afferrare di dietro; mi dovetti fermare… E allora?
T. – Allora gridai: – Aiuto! – Per buona ventura, transitava là presso una brigata di villici, che i malfattori non avevano veduti, perchè eran celati dagli alberi....
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P. – Respiro! Ma quel “transitava„ per passava, e “celati„ per nascosti, e “villici„ per contadini....
T. – Quelli trassero tosto alle mie grida....
P. – Vuol dire che accorsero subito....
T. – I malandrini dileguarono....
T. – Fui salvo. Mi palpai. Non rinvenni più il portamonete nella scarsella. Non c’eran che poche lire; non porta il pregio di parlarne. Il peggio fu la paura, che non le saprei ritrarre in parole.
P. – Capisco! “Ritrarre in parole„ dev’essere una cosa più difficile che l’esprimere semplicemente. Ma ella si compiace troppo del difficile. Perchè non dire alla buona che non si ritrovò più il portamonete in tasca? E perchè dire “non porta il pregio„ invece di non mette conto? In somma, se l’è cavata con la paura.
T. – Se non mi toccò maggior danno, debbo saperne grado....
P. – Basta che ne sia grato....
T. – A quei buoni contadini. Ma la sera mi sopravvenne la febbre.
P. – Le “sopravvenne„?
T. – Mi prese, andiamo; mi saltò addosso. Questo m’incolse.... mi seguì per aver posto in non cale....
P. – Se dicesse per aver trascurato....
T. – .... l’avvertimento di mio padre: che non è saggio l’aggirarsi in quei pressi senza compagnia. Me ne ricorderò quind’innanzi.
P. – Suo padre le avrà detto che non è prudente l’andare in giro soli in quei dintorni. E farà bene a ricordarsene. Ma farà anche bene d’ora in avanti a parlare in un altro modo....
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T. – Ma, insomma, non m’è sfuggito un errore!
P. – No; ma il suo discorso è stato una stonatura da capo a fondo, un tessuto di parole e di frasi che non s’usano mai da chi parla con naturalezza e con gusto, e che riescono sgradevoli quanto gli errori, e rendono il suo parlar corretto poco meno ridicolo d’un parlare sgrammaticato.
T. – Troppo gentile! La ringrazio.
P. – “Non porta il pregio.„ Ma non ponga “in non cale„ i miei consigli. “Se ne rinverrà„ contento e me ne “saprà grado.„ La riverisco e “mi dileguo.„
T. – (Impertinente!)
Varie altre osservazioni che ti dovrei esporre intorno all’affettazione nel parlare, le farai tu stesso intrattenendoti qualche minuto con una rispettabile e amabile signora, che ho l’onore di presentarti.
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LA SIGNORA PIESOSPINTO.
Le avevan messo questo soprannome perchè il bel modo letterario a ogni piè sospinto era uno dei fiori più frequenti del suo linguaggio abituale, tutto fiorito di parole e di frasi eleganti.
Era vedova e sola, come la Roma di Dante; non più giovane, d’ottimo cuore, stimata da tutti; ma aveva un difetto terribile, per il quale s’eran ridotti pochissimi i frequentatori del suo salottino, un tempo assai numerosi: il difetto di parlare poeticamente. Cosa tanto più strana in quanto la buona signora non la pretendeva punto a letterata, quantunque di letteratura e d’arte discorresse quasi sempre; era anzi in tali discorsi molto guardinga e modesta. Quel linguaggio, che a noi riusciva affettato, per lei era naturalissimo, ed era in fatti in perfetto accordo con tutte le altre manifestazioni del suo essere. La sua voce, il suo accento, il suo modo d’atteggiarsi e di camminare, la sua bizzarra pettinatura, tutta cernecchi e riccioli artefatti, che le tremolavano intorno al capo come bùbboli, e il suo abbigliamento tutto gale e fronzoli di gusto [65] dubbio: ogni cosa rassomigliava al suo vocabolario e alla sua fraseologia prescelta, che pareva fatta di rottami di versi. Parlava in maniera da far credere che ogni parola d’uso comune fosse per lei una parola triviale, che ogni frase famigliare le ripugnasse come una frase indecorosa. Per esempio: allegrezza, gioia, desiderio, ricordo, avvenimento, momento, erano modi sbanditi dal suo dizionario; diceva: letizia, giubilo, vaghezza, rimembranza, evento, istante. All’amico che entrava in casa sua gettava qualche volta addosso una manata di fiori poetici anche prima ch’egli si fosse seduto. – Ah, la riveggo alla fine! Che accadde di lei? Credevo che avesse spiccato il volo verso altri lidi o che fosse di mal ferma salute; vissi in affanno; s’assida, ingrato amico, e si scagioni. – Anche parlando delle cose più comuni usava questo linguaggio di gala. Era famosa fra i suoi conoscenti la frase con cui aveva annunziato a un di loro una piccola disgrazia toccata a una sua cagnetta, ricciuta e infronzolata come lei; la quale faceva un certo mugolo strano, che certi capi ameni dicevano un’affettazione. – Ah, signor mio! – aveva detto. – Tale era la moltitudine di piccoli insetti che infestavano la cute di questo sventurato animaletto....
Ma benchè affettato il linguaggio, era sempre sincero il sentimento ch’ella esprimeva. Era commossa veramente quando raccontava d’esser stata costretta, con suo gran dolore, ad espellere una vecchia fante, dopo molti anni che l’aveva in casa, per aver risaputo che quella la vilipendeva nel vicinato con le più nefande calunnie. Quale atroce disinganno! Chi avrebbe potuto [66] sospettare che con quel sembiante tutto dolcezza ella albergasse nel petto un animo così malvagio! Che schianto era stato per lei lo scoprire una nemica in quella donna, con la quale essa aveva sempre largheggiato di doni e di favori, per lei che aveva tanto bisogno di sentirsi aleggiare intorno la benevolenza e la simpatia!
Naturalmente, il maggior piacere che ci attirasse nel suo salotto era quello d’ammiccarsi l’un con l’altro e di sorridere di nascosto alle più belle delle sue frasi: dico le più belle perchè il suo discorso era un ordito così fitto di poeticherie, che non si sarebbe potuto rilevarle tutte senza farsi scorgere; del che ci saremmo vergognati. Ma essa non sospettava. Povera signora Piesospinto! Se ci avesse sentiti giù per le scale! Il suo frasario c’era diventato così famigliare che, fra di noi, andando da lei ed uscendo, non parlavamo quasi più altro che alla sua maniera. E, com’è naturale, glie n’erano affibbiate anche parecchie che non le appartenevano. Ma la più amena di tutte, qualcuno sosteneva che l’avesse detta davvero a una delle sue amiche più strette, ed era un modo comunissimo, che dice un’occorrenza altrettanto comune, nobilitato da lei nella nuova forma: – andare della persona. –
Ammirabile era la costanza con cui usava certi modi illustri invece di altri volgari, i quali non le venivano mai alla bocca, come s’ella non li avesse mai nè intesi nè letti, da tanto che le si era connaturata l’affettazione. Non diceva mai sposare, per esempio, ma impalmare; mai, non so una cosa, ma la ignoro; mai mi fa pietà, ma mi move a pietà; mai aversi per male, ma recarsi ad onta. Gli aggettivi, più che altro, erano [67] il suo forte; non poteva metter fuori un sostantivo senza attaccargliene uno, che era sempre pescato fra i più signorili della lingua.
– È un pezzo, signora, che non è stata a Napoli?
– Da dieci anni non ho più veduto quella nobilissima città.
– Ha letto la notizia della morte del tale?
– Si, ho letto la malaugurosa notizia.
– Le ha fatto piacere la promozione di suo cugino?
– Sì, ne ho avuto un piacere ineffabile.
Colta un inverno da grave malore, e condotta in forse della vita, giacque a letto per lo spazio d’oltre due mesi, e chi la trasse a salvamento, prodigandole ogni più amorevole cura, fu un giovine medico amico nostro e suo, che della sua vezzosa favella prendeva diletto grandissimo. Con lui e con un altro frequentatore del salotto, non sì tosto ella fu fuor di pericolo, mi recai a visitarla. Poi che fummo seduti accanto al letto, la buona signora chiamò la fante, e le disse con fievole voce: – Appressati, Carolina; dischiudi lievemente le imposte, che entri un po’ di chiarore....
Poi ci ringraziò, espresse la sua gratitudine al medico, ci raccontò la storia del suo malore. E fu una tal pioggia di fiori poetici da far pensare che durante la malattia glie ne fosse germinato in casa un nuovo giardino. La malattia le era saltata addosso ad un tratto, a guisa d’un colpo di folgore. Stava per uscire di casa, era già sul limitare dell’uscio, quando una subita nube le aveva come offuscato l’intelletto, e s’era impossessata di lei una così grande debolezza, che [68] appena aveva fatto in tempo a invocar soccorso, e le erano mancati i sensi. Il portinaio, la portinaia, la fante, accorsi tosto, vedendo il pallore mortale del suo volto, l’avevano creduta esanime, e s’eran sciolti in pianto; poi l’avevan portata sul suo letticciuolo, ed essa era rimasta tre giorni così, quasi inconsapevole, come in istato di sopore, agitato da torbidi sogni. E in questo modo continuò a fiorettare, fin che ci accomiatò cortesemente lei stessa, dicendoci d’uscire a più spirabil aere, ma che tornassimo presto a riportarle il refrigerio della nostra cara amicizia.
Scendendo le scale, il medico faceto ci disse che la povera signora era stata veramente gravissima; ma che anche quando si trovava in pericolo aveva sempre parlato nel modo solito. Egli si ricordava le parole testuali. – Ah, signor dottore! – gli aveva detto. – Non mi lusinghi di vane speranze: io sento bene che questa mia spossatezza è foriera di prossima fine. – E soggiunse che, sentendola parlare a quel modo, aveva riconosciuto la grande verità d’una osservazione fatta da Vittor Hugo, a proposito d’un condannato a morte, il cui discorso gli era parso mancante di naturalezza: che tutto si cancella davanti alla morte, eccetto l’affettazione: che la bontà svanisce, che la malvagità scompare, che l’uomo benevolo diventa amaro, che l’uomo duro diventa dolce; ma l’uomo affettato rimane affettato. – E concluse: – Basta, è scampata; fra un mese sarà guarita; e io ne sono felicissimo perchè, con tutti i suoi fiori poetici, è una gran buona signora.
– Ah, questo è fuor di dubbio – disse il comune amico – di gentili sensi dotata....
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– E di non inculto intelletto – aggiunse il medico.
– E di non illeggiadro sembiante....
– Finiamola; non sta bene scherzare fin che non s’è rimessa; ricominceremo quando sulla sua guancia “torni a fiorir la rosa„.
E si ricominciò, come Dio volle, con diletto ineffabile.
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