IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Impara a pronunziar bene. Non parla bene chi pronunzia male. E noi, quasi tutti, pronunziamo l’italiano scelleratamente.
Una bella lingua pronunziata male è come una bella musica sciupata da un cattivo sonatore. Che vale che la nostra sia una lingua ammirabilmente musicale se noi in mille modi ne alteriamo i suoni, come se fosse per noi una lingua straniera? Che serve che tanti grandi poeti, nei quali erano profondi e finissimi il senso e l’arte dell’armonia, abbiano faticato a comporre tanti versi squisitamente armoniosi, quando noi li pronunziamo in maniera che se ci sentisse chi li fece ci tratterebbe di cani e si tapperebbe gli orecchi? Che giova che la lingua italiana abbia tante parole dolci, forti, gravi, agili, graziose, che suonano come note di canto, se le dolci noi inaspriamo pronunziando delle s che sembrano fischi di serpenti, se fiacchiamo le forti scempiando le consonanti doppie, se facciamo ridere con le gravi raddoppiando le consonanti semplici, se aggraviamo le leggiere e deformiamo le [76] graziose strascicando o squarciando o strozzando le vocali, e dando all’u un suono barbaro che trapassa l’orecchio come lo stridore d’un chiavistello arrugginito? E predichiamo agli stranieri l’armonia della nostra lingua! E ci vantiamo d’aver orecchio musicale! C’è da riderne, e da averne vergogna.
*
– Come ho da fare? – domanderai. – Ho da toscaneggiare? – Così chiamano, per canzonatura, il pronunziar corretto tutti coloro che pronunziano barbaro e se ne trovan contenti, come se non si potesse pronunziar l’italiano correttamente senza rifare il verso ai Toscani; chè non è altro, in fatti, la cattiva imitazione della loro pronunzia che fanno certuni fra noi. No, non c’è bisogno di toscaneggiare per pronunziar bene, che consiste nel dare a ogni lettera il suo vero suono e a ogni parola il suo giusto accento, come sono indicati nelle grammatiche, nei vocabolari e in trattatelli speciali. Tu non hai che da prendere uno di questi libri, e con la scorta delle regole e delle indicazioni che vi troverai, badare a correggere i difetti della tua pronunzia dialettale, cominciando dai più grossi e più ridicoli, i quali son quasi tutti comuni agl’italiani delle regioni subalpine. Avvèzzati prima d’ogni cosa a pronunziare l’a larga, che noi tendiamo a restringere; poichè c’è chi dice:
tanto gentile e tanto onesta pore,
e
cantando come donna innamorota
e
giunta sul pendìo
precipita l’etó;
[77] Dei del cielo! E a dir l’e e l’o larghe o strette nelle parole in cui hanno l’uno o l’altro suono: a non allargar la bocca come un imbuto per dir vérde, frésco, césto, Róma, dóno, enórme, e le desinenze degli avverbi in ente, che sono uno degli orrori della nostra pronunzia, veramante! E a dare il suono duro o molle all’s, e dolce o aspro alla z dove tale dev’essere; non come si suol fare da noi, che pronunziamo ad un modo rosa fiore e rosa participio, zaino e zampa, cosa e sposa, pranzo e pazzo; quando non si dice pranso e passo, come da molti si dice. Ma abbiamo altri difetti di pronunzia, dei quali i libri non ci possono correggere, come quello di triplicare spesso le consonanti per timore di non far sentire abbastanza le doppie, come usano i nostri burattinai quando fanno parlare i personaggi terribili: ferrro, guerrra, sconquassso, trapassso; di raddoppiare l’r in nero, fiero e simili, per rafforzarne il significato; di non far sentire l’sc nelle parole come scendere e scempio, che pronunziamo sendere e sempio; di pronunziare la doppia n faucale, come nel dialettale laña, luña, nelle parole donna, ginnastica e simili; di raddoppiare la c in molte parole dov’è semplice, come bacio, cacio, mendacio, e di metter la g in molte dove non entra (la povera Amaglia non sa gniente), e di sopprimerla in altre dove dev’esser pronunziata (sua filia li tien compania). Ma perchè quell’atto d’impazienza?...
[78]
*
Ho capito. Ti pare ch’io metta alla berlina della cattiva pronunzia la nostra cara provincia, e questo ti dispiace. Ma non temere. Nessuno dei tuoi fratelli italiani ti lancerà la prima buccia di mela, perchè hanno tutti coscienza d’esser grandi peccatori. Oltre che parecchi dei nostri difetti di pronunzia sono comuni a varie regioni d’Italia, ciascuna ne ha altri suoi propri, che stanno a paro coi nostri peggiori. Rassicùrati. Non ti canzonerà il milanese che allarga l’e senza discreziune e converte in u le o finali, e pronunzia l’u alla francese cont una frequenza lacrimevole; nè il genovese che muta in ou il dittongo au, dice aritemetica per aritmetica, e fa strage delle z; nè il tuo fratelo veneziano che di tutti i cittadini dell’aregno d’Italia è il più indomabile ribelle alla leie della doppia consonante. E il bolognese sostituisce l’e all’a nella finale dell’infinito dei verbi, fa rimar Roma con gomma, toglie la z alle ragaze, fa scomparir le vocali quanto pió gli è possibile; e il romano ti dice che lo interressano le notizie della guera, che le sue crature son ghiotte delle brugne e ch’egli ha un debbole per i fonghi; e il napoletano.... No, non darà la baia al piemondese il napolitano, che muta il t in d dopo l’n, che pronunzia inghiostro e angora, e mobbile e doppo; e neppure l’abruzzese che distende il dittongo uo in maniera da attribuire a ogni buono una bontà infinita, e mette fra due vocali un suono gutturale aspirato: non ti burlerà neppur per idega. E neanche il siciliano sarrà fra i tuoi canzonatori, egli che cangia in ea il dittongo ia e in u [79] tante o e che dà all’s davanti alle consonanti il suono dello sh inglese, e ficca cossí spesso l’i fra il c e l’e, anche chiamando la Concietta del suo cuore; e nemmeno il sardo, che nel raddoppiar la consonante dove è semplice, e scempiarla dov’è doppia, non la cede a nessuno. Intesi appunto ieri note due proffessori che discuttevano su quest’argomento.
*
Dunque, stùdiati di correggere la tua pronunzia. Ma pronunziar le parole corrette non basta. Il nostro parlare manca generalmente d’armonia e di speditezza perchè non facciamo abbastanza troncamenti e elisioni, perchè diciamo una quantità di vocaboli e di sillabe superflue, che allungan le frasi e rompono l’onda armonica e c’impacciano la lingua. Sono, ciascuna per sè, superfluità minime e durezze appena sensibili; ma che quando s’affollano, come segue spesso, in un breve giro di parole, fanno un brutto sentire. Se, per esempio, in un periodo, dove t’occorra di dire: gl’impeti d’amore, l’ha detto senz’arrossire, m’ha fatto girar la testa, quell’ingrato, un altr’anno, quella gran virtù, in un mar di guai, non facevan nulla, non m’accorsi in tempo, per la qual ragione, tu non tronchi e non elidi nulla, e dici invece: gli impeti di amore, lo ha detto senza arrossire, mi ha fatto girare la testa, quello ingrato, un altro anno, quella grande virtù, in un mare di guai, non facevano nulla, per la quale ragione, tu senti che il tuo parlare riesce assai meno armonico e sciolto che nell’altra forma. Ed è singolare che, mentre [80] riusciamo duri nel parlare per non far troncamenti e elisioni dove potrebbero farsi, riusciamo spesso egualmente duri in più d’un caso, in cui, in luogo di togliere, aggiungiamo appunto per evitar la durezza, come nel dire: fanciulli ed adolescenti, scrissi ad Edvige o ad Edgardo, selvatici od addomesticati.
Bada a tutte queste piccole cose, e se vuoi avere una buona norma, prendi l’edizione del romanzo I promessi sposi, dove è raffrontato il primo testo con quello corretto nel 1840. Il Manzoni, nel troncare e nell’elidere, s’è attenuto rigorosamente alla norma del parlar fiorentino; e si potrà discutere sulla sua idea, che la lingua parlata a Firenze debba esser la lingua di tutti; ma non sul fatto che l’uso fiorentino, per ciò che riguarda l’armonia del discorso, si possa seguir da tutti fedelmente, senza timor di sbagliare. Bada all’armonia nelle due edizioni comparate del romanzo, e ci troverai un insegnamento utilissimo a scansar nel parlare ogni ridondanza e ogni durezza di suoni.
*
Un’altra cosa. Ciascun dialetto è parlato con certe intonazioni, modulazioni, cadenze, strascicamenti di voce e raggruppamenti di suoni, che noi, quasi tutti, facciamo sentire anche parlando italiano, e che dànno al nostro italiano il colorito musicale, per dir così, del dialetto medesimo. Dirai che questa musica dialettale essendo naturale in noi, noi non la sentiamo, e quindi non possiamo liberarcene. No: la sentiamo, chi più chi meno, perchè mettiamo in canzonatura [81] chi la esagera. La sentiamo in ogni modo quando udiamo parlare italiano uno della nostra regione con uno d’un’altra, perchè, anche non conoscendolo di persona, lo riconosciamo dei nostri. Ebbene, quando questo t’accade, osserva le modulazioni e le cadenze a cui lo riconosci, e t’avvedrai che sono proprie a te pure. E non pensare che perchè tu non le avverti abitualmente o non ti riescono sgradevoli, non siano sentite dagli italiani delle altre regioni, o non riescano sgradevoli neppure a loro. Tanto le sentono che non son pochi quelli che, pure non comprendendo il nostro dialetto, ci rifanno il verso per modo che noi stessi ci riconosciamo nella caricatura; la quale essi non farebbero se la nostra musica dialettale non li facesse ridere. Ora, ogni volta che ti segua un caso simile, sta’ bene attento, chè ti può molto giovare. Io mi corressi di certe intonazioni del dialetto udendo un attore toscano che imitava mirabilmente il modo di recitare d’un celebre attore piemontese, perchè sentii la prima volta in quella imitazione quelle intonazioni, come un’eco della mia voce. E credi che non riuscirai a pronunziar bene l’italiano fin che non ti sarai liberato di questa specie di melopea vernacola, perchè è quella che ti fa forza, in certo modo, nella pronunzia viziosa delle parole, che quasi ti costringe, senza che tu te n’avveda, a pronunziare ciascun vocabolo all’uso dialettale, in maniera che suoni in tono con essa. Fa a questo caso il proverbio francese, che dice: è la musica quella che fa la canzone.
[82]
*
Un mazzetto di consigli, per finire. Avvèzzati a leggere a voce alta scolpendo bene le parole. Quando vai al teatro, sta’ attento alla pronunzia degli attori che pronunzian bene, e paragonala con quella di quegli altri attori, dei quali riconosci il dialetto nativo. Fa’ attenzione al modo di pronunziare di tutti quegli italiani, dei quali non ti riesce di capire in che parte d’Italia sian nati. E non dar retta ai pigri che ti dicono: – È tempo perso; a nascondere il dialetto nella lingua non si riesce. – Non è vero, e non è tanto difficile riuscirvi. Tutte le regioni d’Italia, anche quelle dove si parla un dialetto più dissimile dalla lingua, dànno oratori forensi e politici, attori drammatici, conferenzieri, professori, conversatori, che pronunziano l’italiano perfettamente, o quasi; nei quali non si sente indizio alcuno dei loro propri dialetti. Fa’ il proposito di riuscire a questo tu pure, ridendoti di chi chiama affettazione il pronunziar l’italiano da italiani, e induci a farlo anche le signorine di casa tua; poichè io m’immagino che tu abbia delle sorelle, una almeno. E poichè me l’immagino, e vedo che la signorina scrolla il capo, mi rivolgo a lei pure. Sì, signorina, lei che sentirà molte volte nella sua vita lodar la dolcezza della sua voce, si studi anche lei di pronunziar meglio; ciò che riuscirà facile ai suoi muscoli labiali fini ed elastici; perchè a che serve avere la voce dolce se la sciupa una pronunzia ingrata? Se viaggerà fuori d’Italia vedrà molte volte degli stranieri, che l’avranno riconosciuta italiana, porger l’orecchio [83] per raccoglier dalla sua bocca la musica decantata della sua lingua: vorrà che rimangano disingannati? E faccia anche propaganda di buona pronunzia, perchè la può fare senza suo incomodo. Basterà che torca leggermente la bocca quando sentirà lodare la sua bellessa, o dir che è graziosa come un fiure, o splendida come una stela, o seducende come una dega, o che si darebbe la vita per darle un baccio. E non risparmi neppure quei toscaneggianti che, credendo di pronunziar toscano, non fanno di quella bella pronunzia che una caricatura stucchevole.
[84]