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Animo, dunque. Comincia fin d’oggi ad avvezzarti a parlar bene, e vedrai come sarai presto incoraggiato a proseguire dai vantaggi che ne ricaverai. Primissimo dei quali sarà quello di pensar meglio, perchè dal parlar chiaro, proprio, preciso, scolpito, dalla consuetudine di esprimer tutto il proprio pensiero nel miglior modo che ci è possibile, s’è immancabilmente condotti a “spiegarci con noi stessi e a meglio intenderci noi medesimi„, a formulare con maggior chiarezza e maggior precisione il pensiero anche nell’officina silenziosa della nostra mente. E sarai anche incoraggiato a proseguire dalla sodisfazione che il tuo parlar bene produrrà evidentemente negli altri, poichè è un fatto che chi parla con chiarezza, precisione, facilità e speditezza, facendoci risparmiar tempo e sforzo d’attenzione e imprimendoci nette nella mente quelle cose che ci preme di ricordare, ci procaccia, oltre che un piacere di natura artistica, un vantaggio, di cui gli siamo grati. E ti sarà incoraggiamento e compenso quello ch’io molte volte osservai ed [85] osservo: che è per quasi tutti una sodisfazione d’amor proprio il sentir parlar bene l’italiano da un concittadino della loro stessa regione, perchè vedono in lui una prova che essi pure, volendo, ci riuscirebbero, un argomento vivente contro l’opinione di quegli italiani d’altre regioni, i quali li dicono e li stimano inetti (la cosa è frequente e reciproca) a parlare un italiano italiano. E queste sodisfazioni avrai per tutta la vita, e con queste molte altre, in mille casi, a mille diversi propositi, in mille forme diverse e inaspettate, poichè non puoi immaginare quante simpatie, quanti atti cortesi, quanti consensi, quante agevolezze non ci derivan da altro nel mondo che dalla scioltezza, dalla grazia, dalla convenienza della parola.
Ma per parlare bene bisogna possedere il materiale della lingua, e in che maniera questo s’acquisti vedrai nella seconda parte del libro. Chiuderà la prima un bell’originale, che non è forse inutile che tu conosca.
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Aveva passato parecchi anni a Firenze; ma quello che per ogni altro italiano, come direbbe l’Alfieri, boreale, desideroso d’imparar la lingua, sarebbe stata una buona fortuna, per lui era stata una disgrazia, perchè in riva all’Arno aveva perduto la naturalezza del parlare, e raccattato soltanto le scorie idiomatiche che gli stessi toscani colti ributtano. Aveva fatto là una gran retata d’idiotismi e di vezzi di lingua mercatina, come se la fiorentinità non consistesse in altro, e preso per giunta il malanno di pronunziar più fiorentino dei fiorentini, esagerando istrionicamente tutte le inflessioni di voce loro proprie, e aspirando la c perfin nelle parole dov’essi non l’aspirano. Per questo lo chiamavamo l’amío Enrío, essendo Enrico il suo nome di battesimo. Non diceva più un tu, neanche a pagarglielo. – Vieni te a ber la birra? – Se’ stato te, se’ stato! – Te mi vorresti canzonare! – Bandiva il dittongo uo da ogni parola: non diceva più che core, omo, bono, spalancando la bocca come per [87] inghiottire un ovo sodo. E gl’icché t’ho da dire e i questecchequí e i l’aresti a avere li spacciava a canestrelli. Figurarsi la faccia che facevano a questa roba i suoi “rozzi„ amici pedemontani!
Ma quello che rendeva più uggioso il suo toscaneggiamento era l’inettitudine dell’imitazione, poichè spesso, anzi ogni momento, fra due parole pronunziate alla fiorentina ne pronunziava una alla piemontese, che sonava come una stecca falsa; ciò che faceva dire con ragione agli amici che in ogni suo periodo dietro Stenterello saltava fuori Gianduia.
E sarebbe stato un amico piacevole, perchè in fondo era di buona indole, e di spirito arguto; ma riusciva insopportabile per quella sua parlata artifiziosa e bastarda. C’era fra gli altri, nella brigata degli amici, un genovese, che pativa una vera tortura a sentirlo. – Che volete? – ci diceva. – Quand’io gli sento dire aritmetica per aritemetica, Enna per Etena, austríao per austriaco, mi vien la pelle d’oca. – E allora era un doppio spasso, perchè si rideva insieme del critico e del criticato.
Un altro, che avesse parlato a quel modo, l’avremmo corretto a furia di canzonature e di risate; ma a questo con lui nessuno s’arrischiava, perchè era un buon giovane, ma ombroso, che non reggeva la celia, e tirava bene di scherma. I tolleranti se ne spassavano senza che se n’avvedesse, gli altri gonfiavano in silenzio, e così egli non aveva mai un sospetto di far ridere le gente alle proprie spalle, e toscaneggiava a tutto pasto, altero e felisce di tener lo scettro della buona lingua e della bella pronunzia. Ma non riusciva a ingannar nessuno, neppur la prima [88] volta che lo sentivano, e nemmeno persone incolte, o che non fossero mai state in Toscana, tanto è giusto il verso
Troppo toscano non toscan l’accusa.
Anche costoro, dopo venti parole, sentivano la caricatura, la contraffazione grossolana, e sorridevano, incerti, come domandando a sè stessi s’egli parlasse sul serio o per burla, e aspettando che da un momento all’altro ripigliasse il parlar naturale.
Di quando in quando, per effetto di quel suo parlare, gli seguivano dei casi comici.
Un giorno, credendo d’aver lasciata la canna (com’egli chiamava alla subalpina la mazza) in un caffè, vi ritornò mezz’ora dopo, e domandò al padrone: – Ha veduto la mi’ anna?
Quegli, pensando che domandasse se era stata a cercarlo nel caffè la sua signora, benchè gli paresse un po’ troppo famigliare quel modo di nominarla, gli rispose di no, perchè signore, in fatti, non ce n’era state.
E allora l’amío, rivolgendosi al cameriere: – Guarda un po’ sotto il biliardo.
Immaginate la risata.
Un’altra volta, a un conoscente che gli andò a chiedere informazioni intorno a un nuovo professore destinato al Ginnasio del proprio figliuolo, disse fra l’altro: – È d’umore un po’ vivo; bocia, bocia sempre; ma in fondo è un omo bono. – E quegli, scattando: – La grazia di quella bontà! Da un professore che boccia tutti il mio ragazzo non ce lo mando.
Ma queste piccole contrarietà non lo correggevano. Egli seguitava a ingollar le c e a [89] profondere i te sempre più allegramente; e con maggiore esagerazione e a voce più alta toscaneggiava nei caffè e nei teatri, dove ci occorreva spesso d’osservare intorno a lui quel fatto psichico curiosissimo, che si potrebbe chiamare l’inversione o la traslazione della vergogna: persone sconosciute che, udendolo, chinavano il capo e restavan lì impacciate, e qualche volta arrossivano, come se quel linguaggio falsificato e ridicolo uscisse a loro malgrado dalla loro bocca, nel modo che escon le parole dalla bocca dei farneticanti.
Ma quel mal vezzo finì con portargli disgrazia.
Fu un caso curioso. Una sera, nella platea d’un teatro, mentre egli toscaneggiava con un suo amico, a voce alta, com’era solito, fu inteso da un signore toscano, che discorreva con altri, lì accanto, e che, riconoscendo apocrifa quella toscanità ostentata, sospettò che parlasse a quel modo per rifare il verso a lui. Risentito, gli domandò spiegazione. L’amío rispose con buon garbo, ma rimangiando due o tre c di quelle che i toscani non mangiano; ciò che ribadì il sospetto nell’altro, che gli tirò un’impertinenza, la quale ebbe per risposta un urtone. Alle corte, si barattarono i biglietti di visita, non ci fu modo di raggiustarla, ne seguì un duello, e l’amío Enrío ebbe una leggiera sdrucitura al braccio destro.
Andai a visitare il ferito con un comune amico; il quale, prima di tirare il campanello, fece un’osservazione consolante. – Tutto il male non vien per nuocere – disse. – Quest’avventura l’avrà guarito dalla toscanite. – E lo credevo io pure.
Lo trovammo sulla poltrona, col braccio al [90] collo, d’ottimo umore. E proprio le prime parole che disse, rispondendo al mio: – Com’è andata? – furon queste: – O che vo’ tu ch’i’ ti dia?
– È incurabile! – esclamò l’amico quando uscimmo. – E glie ne toccherà dell’altre. È il suo destino. Egli ha da morir sul terreno, e di ferro etrusco.
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