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Ora, dei cinque modi, che abbiamo visti, di studiare la lingua, tu domanderai quale sia il meglio.
Il meglio, a mio parere, è il sesto. Voglio dire un metodo, il quale raccolga quanto v’è di buono in quei cinque.
Leggere attentamente i buoni scrittori, segnando sul libro, se si può, per ritrovarle poi facilmente, le voci e le locuzioni che ci riescon nuove e che ci vogliamo appropriare, cercando di fissarcene nella mente, senza l’aiuto della penna, il maggior numero possibile, con quanto occorre del testo a chiarirne bene il significato e a farne sentire tutto il valore; mandar a memoria poesie e squarci di prosa, nei quali al pregio del pensiero o del sentimento e alla bellezza dello stile sia congiunta una particolar ricchezza di lingua; notare il meglio del materiale che si ricava dalle letture, dividendolo e raggruppandolo intorno a certi soggetti, perchè riesca più facile ritenerlo e ritrovarlo; esercitarsi, scrivendo, a maneggiare il materiale [119] raccolto con abbozzi di componimenti, di periodi, anche di semplici frasi, che siano come i bozzetti che buttan giù i pittori per acquistare la padronanza della tavolozza; e leggere ad un tempo, rileggere, studiare il vocabolario.
Quest’ultimo studio ti raccomando in particolar modo, perchè è quello che più difficilmente s’inducono a fare i giovinetti.
Ma occorre intendersi bene.
Una trentina d’anni fa, con uno scritto diretto particolarmente ai giovani, io raccomandai la lettura del vocabolario. Nel corso di questi trent’anni parecchi mi scrissero, e altri mi dissero presso a poco quello che segue: – Abbiamo seguìto il suo consiglio, o meglio, ci siamo provati a seguirlo; ma non c’è riuscito di tirare innanzi: la lettura del vocabolario ci addormentava; ci vuole una pazienza di Benedettini per reggerci; abbiamo smesso.
Ecco. Rispondo prima di tutto che senza pazienza non si riesce a imparar la lingua in nessuna maniera, e che la pazienza di studiare il vocabolario l’ebbero scrittori di grande ingegno, come il Manzoni che postillò la Crusca per modo da non lasciarne vedere i margini, Teofilo Gautier, che teneva il vocabolario sul tavolino da notte, Gabriele d’Annunzio, che legge persino dei vocabolari tecnici, dalla prima all’ultima parola. Rispondo in secondo luogo che quella è una lettura che non va fatta a modo dell’altre. Se tu ti metti a leggere il vocabolario come un romanzo o una storia, con l’idea di correrlo tutto d’un fiato, per finirlo il più presto possibile, e liberarti dalla fatica, non solo ti farai nella mente una grande confusione, senza [120] cavarne alcun frutto; ma non reggerai a leggerne una decima parte, si capisce, chè t’ammazzerà la noia prima d’arrivarci. È una lettura che si deve fare a poco per volta, a pezzi e bocconi, con l’animo tranquillo, quando ci si ha disposto lo spirito, e non di corsa, ma a rilento, accompagnandola passo per passo, come ti disse il Vocabolarista, con un lavoro di memoria, di ragionamento e d’immaginazione. Bisogna, insomma, mettersi alla lettura e procedervi per modo, che quello studio finisca a poco a poco con non più richiedere uno sforzo di volontà, e diventi una consuetudine, cessi d’essere una fatica, e si muti in un piacere.
Hai ragione: è presto detto. Ebbene, farò qualche cosa di più. Ti propongo di fare una prova insieme. Pigliamo, per esempio, il Novo dizionario italiano del Petrocchi: una lettera qualunque, la lettera P, e leggiamola tutta. M’ingegnerò di farti vedere come si deve leggere il vocabolario, o, per dir meglio, ti farò vedere come io lo leggo, in che maniera mi ci diverto e c’imparo, che è la maniera in cui mi pare che anche tu ti ci possa divertire, imparando; e nel far questo, userò con te la più grande sincerità, come con un compagno di scuola: ti confesserò le mie ignoranze, i miei stupori e i miei dubbi, che ti gioveranno forse, se te ne ricorderai, nelle tue letture avvenire. Sarà una prova un po’ lunghetta, benchè io proceda alla lesta, omettendo le parole più comuni, e anche molte che non son tali, e un gran numero di vocaboli tecnici e storici; ma ci occorrerà spesso di ricrearci divagando e scherzando. All’opera, [121] dunque. Apro il secondo volume, alla lettera P. Incominciamo.
Ma no. Tu avrai bisogno di respirare. Svaghiamoci prima insieme con qualche personaggio ameno: con un nemico del vocabolario, questa volta, per non uscir d’argomento.
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Falso monetario della lingua, s’intende. Era un pittore ligure, digiuno di lettere, ma pieno d’ingegno, che parlava il più bizzarro italiano ch’io abbia mai inteso dagli scali di Levante alle Colonie del rio de La Plata: tutte parole storpiate, mutate di desinenza e di genere, o usate in tutt’altro significato da quello loro proprio. Il suo magazzino linguistico era come una tesoreria di monete false, adulterate o calanti, ch’egli dava via a casaccio e in tutta buona fede. Questo derivava principalmente dal fatto strano (ma nella gente incolta non raro), che ogni parola insolita ch’egli leggesse o sentisse si confondeva nella sua mente con un’altra parola usuale di suono affine, o acquistava stabilmente nel suo concetto il primo significato che, per certe analogie misteriose con altri vocaboli, gli pareva dovesse avere. E siccome, avendo immaginazione viva e spirito arguto, aveva bisogno, per esprimersi, d’un gran numero di parole, e se ne appropriava di continuo, così gli fiorivano sulla bocca gli spropositi con una [123] fecondità maravigliosa. Per lui, ad esempio, donna in ghingheri e donna in gangheri, inciprignita o incipriata erano la stessa cosa, e faceva tutt’uno d’immerso e sommerso, evento e avvento, immane e immune, stame e strame, eminente e imminente. Parlava nel modo che può parlare un orecchiante della lingua, che ode a frullo e legge a vànvera, com’egli infatti udiva e leggeva. Usava sgattaiolare per imitar la voce del gatto, sobbillare per fare il solletico, cincischiato per azzimato. Diceva a un amico che s’era fatto rader la barba: – Come sei tutto cincischiato questa mattina! – e quello subito si tastava il viso, credendo che il suo Sfregia lo avesse lavorato d’intaglio. Ricordo sfruconare, che per lui era verbo omnibus. –. Questa mattina mi sono sfruconato a colazione mezzo pollo. – Mi sfruconai l’abito contro il muro. – Lo colsero sul fatto e lo sfruconarono ben bene. – Ho pagato dieci lire questo straccio di cappello: m’hanno sfruconato. – Ad altre parole faceva far cento servizi. Per esempio ad ambiente. Quando il cielo era sereno: – Che bell’ambiente questa sera! – Che cos’hai? Oggi non ti trovo nel tuo ambiente. – Per gli amici era uno spasso. N’aveva ogni giorno una nuova, o parecchie. Fra le più belle, che non riuscimmo mai a fargli smettere, c’era voce stentorea per voce stentata e aureola per arietta. – Tirava un’aureola deliziosa! – Un giorno, ritornando da Cavoretto, ci disse che aveva trovato il paese tutto infestato. – Da qual malanno? – domandammo. – Ma che malanno! – Voleva dire: il paese in festa. Ma il più comico era la sicurezza con cui le diceva, senza un sospetto al mondo dei [124] suoi reati filologici, il colpo ardito con cui piantava lo sproposito, come una bandiera vittoriosa. Le nostre risate non lo sconcertavano minimamente. Alle osservazioni critiche scrollava le spalle. – Oh che pedanti! – diceva. – Digrignare, digrugnare, ammaccare, ammiccare, ruzzolare e razzolare, su per giù è lo stesso. So bene che parlo un po’ così, all’insaputa. Ma mi capite sì o no? E tanto basta. – Di certi suoi qui pro quo si capiva l’origine: era l’analogia fonetica fra due parole: da sfracellare cavava sfracelo; gemicare credeva che volesse dire: gemere sommesso. Ma come diamine poteva dire “una scaramuccia di bicchieri sopra una tavola„ per dire una quantità di bicchieri in disordine, e si attuffarono per vennero alle mani? E anche per quei nomi delle citazioni storiche proverbiali, che si sogliono dir giusti anche da chi non ha cognizione alcuna del fatto, faceva lo stesso lavoro. – La spada d’Empedocle. – L’anello di Gigi. – L’orecchio di Dionisia. – Una che è una non l’infilava, e aveva una grande smania di citare. Per gli amici che conoscevano il suo ingegno, il suo modo vivo e colorito di raccontare e di descrivere e la vera eloquenza con cui parlava qualche volta dell’arte sua, quella profluvie di svarioni era una singolarità piacevole, non derivante che da un’imperfezione del suo organo uditorio e della sua facoltà mnemonica; ma chi non lo conosceva, la prima volta che l’udiva parlare a quel modo, sospettava che n’avesse un ramo, e lo guardava con diffidenza.
Fra le molte scene lepide di cui fu causa la sua maniera di parlare, ricordo quella che seguì in casa d’una colta signora, alla quale lo presentammo. [125] – Signora – le diss’egli, appena presentato –, io son fatto alla buona, non so spiaccicare complimenti; ma so che lei preferisce la sincerità alla raffineria.
La signora lo guardò, stupita; poi rispose: – È vero. Preferisco mille volte la brusca sincerità alla finzione cortese.
– Quanto a questo – ribattè l’artista – le assicuro che l’infingardaggine non è fra i miei difetti.
Ciò detto, si staccò dal crocchio, per parlar con altri; ma, voltatosi a un tratto e colto a volo un atto che faceva a noi la signora, come per dirci: – Ma quest’artista non ha il cervello a segno – credendo ch’ella accennasse d’aver male al capo, le disse cortesemente: – È effetto del tempo, signora. Anche a me questo tempo linfatico rende la testa pesante.
Fu quello
uno dei suoi più “brillanti successi.„ E appunto quello strano epiteto
affibbiato da lui al tempo, confondendo l’idea della linfa, umore del corpo
umano, che somiglia all’acqua, con l’idea dell’acqua piovana, è un esempio che
spiega
come si formassero nella sua mente certi strafalcioni.
E son più frequenti che non si creda i parlatori di questo stampo, questi sbadatoni e fracassoni terribili, che nel campo della lingua rovesciano e rompono ogni cosa, come farebbe un toro imbizzarrito in un magazzino di chincaglierie. Ma di maravigliosi come lui non n’intesi altri. Quanti ameni ricordi ci lasciò, che sono nella nostra mente sorgenti inesauribili di buon umore! Che impareggiabili trovate! Quel tenore del teatro Balbo che gli stralciava gli orecchi con le sue [126] detonazioni! E quel certo suo amico che gli aveva raccomandato che gli telegrafacesse immediatamente l’esito di non so quale concorso! E quel Crispi, il suo adorato Crispi, che sarebbe diventato il perno motrice della politica europea! E quelle guerre intestinali della Francia!
Tu mi perdonerai, mio buon anarchico della grammatica e del dizionario, d’aver fatto ridere qualcuno alle tue spalle: tu comprenderai che non l’ho fatto per mal animo. Non posso aver mal animo con te, poichè per te serbo la più viva gratitudine. Vedendoti pigliare quei granchi enormi, imparai a scansare certi granchi minori, che di tanto in tanto pescavo io pure; tu m’infondesti nell’animo, meglio d’ogni professore di lettere, il terrore salutare del farfallone; e un’altra saggia cosa m’insegnasti: a non giudicar mai lì per lì dal modo di parlare, per malandato che questo sia, le facoltà intellettuali d’un mio simile. Ti ringrazio dunque pubblicamente; e non per burla, ma per affetto mi servo ancora delle tue parole per dirti che la tua memoria mi è sempre sommersa nel cuore, e che vi rimarrà finchè la Parca non recida lo strame della mia vita.
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