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Ne abbiamo già detto qualche cosa; ma di passata, ed è bene riparlarne.
Intendo dire principalmente di quel gran numero di nomi di cose, che noi non sappiamo e che non ci curiamo di sapere, perchè di quelle date cose non abbiamo mai occasione o bisogno di parlare se non nel dialetto; ma che deve imparare chi studia davvero la lingua, perchè questa non si saprà mai che malamente se non se ne studia più di quanto occorre a parlarla alla meglio fra di noi, dove non se ne parla che mezza. Noi la dobbiamo studiare, non in relazione coi nostri bisogni immediati e abituali, ma come se fossimo certi di dover quando che sia andar a vivere in una regione d’Italia dove neanche una parola del nostro dialetto sia intesa, e dove, per conseguenza, ci sia necessario parlare sempre e d’ogni cosa in lingua italiana. Ora le cose delle quali ignoriamo il nome italiano sono innumerevoli, e noi non c’illudiamo che sian poche se non perchè, parlando la lingua, ci siamo assuefatti per modo a scansare di [174] nominarle, che quasi non ci accorgiamo più del nostro gioco. E questa illusione è anche maggiore nei giovinetti che, vivendo in un giro più ristretto d’idee e di faccende, hanno di solito meno cose da dire che gli uomini, e con minori particolari, e con minor necessità d’essere esatti. Ma se potessero i giovanetti immaginare in quanti impicci si troverebbero parlando la lingua, quando fossero trasportati di sbalzo in un’altra regione d’Italia, fuor del piccolo mondo della famiglia e della scuola in cui è circoscritta la loro vita, quanta parte di lingua s’accorgerebbero d’ignorare, assolutamente necessaria, e soprattutto quante cose si troverebbero costretti ogni momento a descrivere, invece di nominarle, con molto stento e non senza vergogna, se questo potessero immaginare, credo che non occorrerebbe loro altro eccitamento per indursi allo studio.
A questo proposito ebbi da ragazzo una lezione che mi riuscì utilissima.
Da qualche tempo studiavo la lingua, e mi illudevo che fosse un gran che quel poco patrimonio di parole e di frasi letterarie, che m’ero ammucchiato nel capo; e ne menavo gran vanto. Un giorno fui invitato a colazione da un mio vecchio zio, che stava in una villetta, sulla riva d’un torrente, a qualche miglio dalla piccola città piemontese, dov’era stabilita allora la mia famiglia. Era uno spirito mordace, benchè buono d’indole, dotto di storia, e conoscitore profondo della lingua, della quale s’occupava ancora con amore. Eravamo alle frutte, quando il discorso cadde su quest’argomento, ed io vantai i miei studi di lingua col tono d’un filologo, che [175] potesse parlare in cattedra della materia. Spiacque la mia sicumera al buon vecchio; il quale sorrise con aria maliziosa, e mi disse: – Vediamo dunque un poco, signor linguista, se la dottrina corrisponde al vanto. Vuol ella scommettere che senza uscire dal giro delle cose che abbiamo sotto gli occhi, di nove su dieci che glie ne accenno ella non sa il nome, e neppure delle operazioni usualissime che vi si riferiscono? – E cominciò la prova, che m’è rimasta bene impressa nella mente, perchè egli mi fece notar le parole con la matita.
– Eccoti il fiasco –, mi disse. – Sai come si dice gettar via dal fiasco pieno un poco di vino per purgarlo da qualche cosa di poco netto? No? Sboccare il fiasco. Sai come si chiama l’operazione di riempire un fiasco scemo? No? Rabboccarlo. E come si dice con una sola parola vuotare un mezzo fiasco? Neppure. Si dice ammezzarlo, un fiasco ammezzato. Hai detto che questo vino è un po’ infortito, ed è vero: comincia a prendere il fuoco; ma sai come si dice del vino infortito che pizzica la lingua e il palato? La parola propria? No. Si dice che ha l’appinzo. Guarda questo bicchiere: vedi questo spazietto interposto nella sostanza del vetro? Sai come si chiama? Púlica. E la parte più sottile della lama di questo coltello, che è fermata nel manico? Códolo. E il dente della forchetta? Rebbio. E questo? Reggifiasco. E quest’altro? Reggiposate. E ciascuna di queste ciocchette di chicchi che formano il grappolo, sai che si chiama racìmolo? E fiócine la buccia dell’acino? E vinacciuolo il granello sodo che v’è dentro? E il nome di questa buccia interiore della [176] castagna? Peluria, andiamo. E questa parte della lattuga, composta delle foglie più piccole e più tenere, che fanno cesto, come la chiami? Grùmolo. E il reticino per scoter l’insalata? Nemmen questo. Scotitoio. O veda un po’, signor linguista!
Riprese fiato e tirò innanzi. – Ora ti servo le frutte. Son certo che non sai che si dicono sfarinate le pere come queste, che non reggono al dente, come le patate, che sfarinano; nè che si dicono maculate quelle che portano segni delle mani; nè che si chiamano nocchi queste specie d’osserelli dei frutti, che è lo stesso nome, nocchio, della parte del fusto dell’albero indurita e gonfiata per la pullulazione dei rami. E guarda questo baco della pera che s’attorce: tu non sai che con parola propria si dice che s’assérpola. Rifacciamoci un po’ indietro. Tu hai rotto la punta a un ovo a bere: sai che si chiama scocciare l’ovo? Hai preso la parte superiore del gelato: sai che si dice scolmare il gelato? E a proposito dei tordi che hai mangiati, sai che si dice dare un fermo ai tordi la prima cottura che si da loro perchè non vadano a male? Ora senti: come dici del pan fresco che fa questo rumore, quando si preme? Che scroscia, signorino. E di questa crostata sotto il dente? Che scrógiola, da non confondersi con sgrigiolare, che è il rumore delle scarpe nuove. E dell’olio che bolle? Che grilla o grilletta; e sfriggolare del rumore che fa il pesce o altra cosa, posta a soffriggere nella padella. E agitar così il liquido nella bottiglia sai che si dice sciaguattare? E uscire a gorgo l’uscir dall’acqua così, dalla bottiglia capovolta? E l’uscire in quest’altro modo: venir giù filo filo? To’, e come si chiama questa pozza che ha fatto [177] l’acqua buttata in terra? Stroscia. E a questa radura del tovagliolo che nome dài? Ragnatura. E questo, dove infilerai il tovagliolo? Girello, signor linguista. E potrei seguitare, se ti garbasse.
Io m’alzai da tavola, stizzito, e per nascondere la stizza, m’andai a affacciare alla finestra. Ma il vocabolarista implacabile mi si venne a mettere accanto, e riattaccò. – Ti voglio regalare un’appendice – mi disse. – Supponi di dover andare di qua, partendo dall’orto, fino a quel ceppo di case che è là di faccia. Tu parti da quell’angolo dove son piantati i baccelli, e non sai che si chiama baccellaio, ci scommetto. Suppongo che tu inciampi nel ceppo di quel noce tagliato a fior di terra, e non sai che si chiama ceppaia. Passi all’ombra di quel filare d’alberi, e non sapresti dire che son potati a capitozza. E non sai neppure che si chiama cavaticcio quel mucchio di terra intorno al quale devi girare, e palancola il tavolone su cui passerai quella gora, dove si raccolgono tutti gli scoli del campo, e che ha pure un nome che non sai: capifosso. Non ti domando neppure se sai che si chiama capezza quell’ultimo solco che fa vivagno al lato del campo, e callaia quell’apertura fatta nella siepe per entrar nel campo vicino, e macereto quell’ammasso di macerie d’una vecchia casa che è in riva al torrente, dove vedi quel ragazzo che bada alle vacche. E a proposito, qual è il nome proprio della campanella che hanno al collo le vacche? E quello del tempo nel quale l’erba suol nascere? E quello della rena raccolta sulle rive del torrente, dove passa ora quel contadino che v’affonda i piedi?... Cam-pá-no, er-ba-tu-ra, re-nic-cio. E quei punti del torrente dove l’acqua è [178] profonda, e una pietra che vi si getti fa un tonfo, si chiaman tónfani, una bella parola onomatopeica; e quello dove il torrente fa una gran voltata si chiama girone; e dove l’acqua fa un rigiro vorticoso si dice che fa un mulinello.... Che cosa ne dici? C’è ancora qualche lacunetta, pare, nella tua dottrina linguistica.
Mentre egli parlava, io mi tenni sempre in un silenzio cocciuto, sorridendo un po’ ironicamente, per fargli supporre che molte di quelle parole le sapessi, e non le volessi dire per dispetto; ma in realtà mi riuscivan nuove quasi tutte. E seguitai a tacere mentre le notavo sur un foglio di carta, a sua dettatura. Ma mi rodevo dal dispetto davvero, e in cuor mio lo trattavo di pedante fradicio e di spazzaturaio di vocaboli, e dicevo che aver nel capo un magazzino di parole non era saper la lingua. La lezione fece frutto, non di meno. Quando fui a casa, pensai che in cento altri luoghi, in mezzo a cose affatto diverse da quelle che mio zio m’aveva indicate, io avrei dovuto rispondere altrettante volte: – non so – a chi m’avesse interrogato com’egli aveva fatto, e compresi per la prima volta il vuoto enorme che mi restava a riempire nella mente prima di potermi vantare di saper la lingua. Mi posi allora sul serio allo studio della nomenclatura. Ma non ebbi la costanza di proseguirlo come avrei dovuto. E dell’averlo trasandato risento e lamento il danno spessissimo, perchè son costretto a ogni tratto, scrivendo, a posar la penna per cercare come si chiama questa o quella cosa, e non sempre trovando subito, perdo la pazienza e il filo delle idee e il calore dell’ispirazione; e spesso non [179] trovo, e mi tocca a interrogare amici, a voce e anche per lettera; e qualche volta son ridotto a non scrivere una cosa che vorrei scrivere perchè mi manca la parola e il tempo di cercarla. E non dico della vergogna di dover rispondere molte volte: – non lo so – a chi mi domanda il nome di questo o di quell’oggetto, che tutti i ragazzi toscani sanno nominare; vergogna, dico, perchè nel sorriso degl’interrogatori non sodisfatti leggo bene il pensiero che non m’esprimono: – E son cinquant’anni che studia la lingua!
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