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Ti do un altro consiglio, sul quale credo di dover insistere in particolar modo: di notare e d’imprimerti bene nella mente, leggendo gli scrittori e il dizionario, tutte le parole e le locuzioni che esprimono un’idea più brevemente di come tu sei usato ad esprimerla o a sentirla esprimere fra noi. Dirai: – Che importa una parola o una sillaba di più o di meno nell’espressione d’un’idea? – Poco – rispondo – nell’espressione di ciascuna idea presa a parte; ma siccome sono moltissime le cose che noi sogliamo dire con maggior numero di parole del necessario, ne segue che il nostro discorso, in generale, riuscirebbe notevolmente più breve, più sobrio e quindi più efficace, se accorciassimo tutte le espressioni del nostro pensiero che si possono accorciare. La brevità, quando non nuoce alla chiarezza, è bellezza e forza. Nel parlare come nello scrivere, c’è fra chi è breve e chi è lungo, per rispetto all’uditore e al lettore, la stessa differenza che fra chi paga in oro e chi paga in rame; chè, dandoti la stessa [189] somma, l’uno ti lascia leggiero e l’altro ti carica. E sai quello che dice il Leopardi: che tanto è più viva l’attenzione e maggiore il piacere di chi legge o ascolta quanto è più rapida la successione delle cose, dei pensieri, delle immagini che lo scrittore o il parlatore gli fa passare davanti.
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Per esempio; noi usiamo esprimere col verbo diventare o fare e con un aggettivo un gran numero d’idee che s’esprimono benissimo con una sola parola, con un verbo intransitivo. Della maggior parte dei verbi intransitivi, specialmente parlando, non ci serviamo quasi mai, come se fossero ferri della lingua che non sappiamo maneggiare. Diciamo quasi sempre: diventar rozzo, secco, triste, selvatico, vano, grullo, asino, canaglia, tozzo, furbo, zotico, bello, brutto, caparbio, grinzoso, minchione, sospettoso, insolente, e mai, o quasi mai: arrozzire, assecchire, intristire, inselvatichire, invanire, ingrullire o ringrullire, inasinire, incanaglire, intozzire, infurbire, inzotichire, imbellire, imbruttire, incaparbire, raggrinzire, rimminchionire, insospettire, insolentire. Diciamo sempre: i capelli tagliati diventano più fitti, non affittiscono o raffittiscono; si fa notte, si fa buio, non annotta, rabbuia; questa tela comincia a farsi rada, non: comincia a diradare; questo mobile non è bene accostato al muro, non: accosta bene al muro. E vedi se senti mai usare in forma intransitiva i verbi: – abbassare (la temperatura abbassa), raffrescare (verso sera raffresca), raddolcire (la stagione comincia a raddolcire), rabbruscare, [190] del tempo (cominciò a rabbruscare verso notte), riscaldare (appena riscalda, io vado in villa), rischiarare (aspetto che rischiari per uscir di casa), scorciare (le giornate cominciano a scorciare), alzare (la casa alza dalle fondamenta quindici metri), accordare (questa parte non accorda bene con l’altra), infortire (questo vino infortisce), abbozzolare (questa farina abbozzola), stingere, perdere il colore (questi panni stingono)? E tu diresti sempre che la carne diventa frolla non che infrollisce; che il burro diventa rancido, non che rancidisce; che il sangue si rappiglia, non che rappiglia; che un tale s’impunta, s’incaglia nel parlare, non che impunta, che incaglia; e che una passione si fa o diventa gagliarda, non che ingagliardisce, e che Tizio per ogni piccola cosa mette il grugno, non che ingrugna; e non mai infreddare, ma sempre: prendere un raffreddore. Non è forse vero? Differenze minime; ma son queste e tant’altre piccole abbreviature, ciascuna per sè trascurabile, che tutte insieme abbreviano e isveltiscono notevolmente il discorso.
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Ti cito un’altra serie di verbi, usati pochissimo da noi, ciascuno dei quali ci farebbe risparmiare una o più parole, e qualche volta una proposizione intera. – Con quella pipa egli m’appuzza tutta la casa. Noi diremmo: mi riempie di puzzo. – Dopo che è cavaliere non mi degna più. Non si può esprimere altrimenti l’idea con una sola parola. – Appena mi vide, si difilò verso di me. Noi diremmo: venne difilato. – Quel ragazzo [191] dirazza dai suoi genitori. – Il terreno comincia a erbire. – Ho appratito (ridotto a prato) tutto il mio podere. – Il sole di maggio fiorisce tutta la campagna. – Gli alberi cominciano a frondeggiare. – Il prato colmeggia verso il mezzo. – Il terreno in quel punto pianeggia. – La strada in quel punto forcheggia. – Quest’anno le biade graniscono bene. – Quell’abito le rifà la persona, quelle tende nuove rifanno il salotto. – Non è vero che tutti questi verbi non li usiamo quasi mai nella forma e nel significato che hanno negli esempi citati, e che quasi sempre ci occorrono parecchie parole per dire quello che essi dicono? E si può dir lo stesso dei seguenti: – entrare, senz’altro, per entrare a parlare (quando qualcuno gli entrava sull’affare dell’eredità, era un guaio) –, cabalare, per ordire inganni –, incappellare, per prender cappello –, insignorirsi, per diventar signore –, dimoiare (il liquefarsi della neve. Faceva un umidiccio come quando dimoia), – imbaulare la roba –, discoleggiare, facicchiare (un far leggero e poco concludente: non fa, ma facicchia) –, frivoleggiare, ghiribizzare (che vai ghiribizzando?) –, giovaneggiare, labbreggiare (recitar sotto voce) –, legneggiare (far legna) –, lenteggiare (questa corda lenteggia, non è abbastanza tesa) –, molleggiare (questo canape molleggia) –, sfrottolare, sfuriare (ora che è sfuriato, possiamo uscir noi, senza farsi pigiare) –, riavere (una pioggia a tempo rià la campagna) –, riguardarsi (usarsi dei riguardi) –, rimpollare (la roba in quella casa pare che ci rimpolli, che cresca a misura che si consuma) –, rimanere, restare, senz’altro, per rimaner maravigliato, stupito –, riparare [192] (il tal bottegaio non ripara, ossia: ci ha continuamente gente) –, scampagnare (andare o stare in campagna per ricreazione o divertimento) –, schiassare (fare del chiasso per divertirsi) –, scrupoleggiare –, sbraccettare una signora, per accompagnarla a spasso, dandole il braccio –, scaponire un testardo, vincerlo in ostinazione –, scasare (andar via da un luogo dove s’aveva casa), scarognare, sfaccendare, scoronciare, spaternostrare –, scrudire l’acqua troppo fredda –, soleggiare, esporre al sole (bisogna soleggiare quest’uva) –, scuriosire, scaltrire, sneghittire, spigrire uno –, spiovere, cessar di piovere (aspettiamo che spiova) –, spoliticare, svecchiare: toglier via il vecchiume (svecchiare una selva, svecchiare la lingua degli arcaismi) –, sfondar poco, non sfondare: aver poca intelligenza (s’è messo a studiar le matematiche, ma non isfonda; in quanto a talento, non isfonda) –, tavoleggiare, trattenersi a tavola, discorrendo e centellando –, tentennare un tavolino, per veder se sta saldo. – Vedi un po’: son certo d’aver detto la cosa cento volte in vita mia, e d’averla sempre detta, non con quella sola parola, ma con un’altra, meno propria, e appunto per questo, accompagnata quasi sempre da una spiegazione.
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Poichè t’ho fatta una confessione, te ne fo dell’altre. So bene che si dice: – una cosa non mi finisce – per: non mi sodisfa, o non mi contenta pienamente; e non di meno, parlando, esprimo sempre quel pensiero nella seconda maniera, con nove sillabe invece di cinque. Dico: [193] – il tal podere ha un circuito di sette chilometri – quando potrei dire con due sole sillabe: – gira sette chilometri. Potrei dire: – un salone che riquadra cento metri –, e dico: ha la superfice di cento metri quadrati. Non oso dirti quali locuzioni stentate e ridicole usai qualche volta per dire che una certa sostanza, nel ribollire, rientra o ricresce, che un dato legno, o una stufa, rende poco o molto, che il legno non bene stagionato rimbarca. Dissi per anni con una locuzione di tredici sillabe quello che si può dire in cinque: alfabetare, per esempio, le note sulla lingua. Ricordo d’aver fatto un giorno un interminabile giro di parole per dire d’aver trovato un tal pittore occupato a graticolare, o reticolare, o retare la tela. Non espressi mai con una parola sola l’idea che esprime benissimo il verbo avventare negli esempi: – un colore che avventa, una ragazza che avventa a primo aspetto, ma non è bella, uno stile che avventa alla prima lettura, ma è vizioso. – E così: abbambinare una cosa che non si può portare, agghiaiare una strada, allentarsi dopo aver mangiato, arrivare una vivanda, assodare un uovo, avviare una candela, spicciolare uno scudo, calettare o non calettar bene (d’un uscio, per esempio, che sia bene o male aggiustato, in modo da lasciare, o no, trapelare l’aria), son tutti modi che non mi vengono mai alla bocca, e in luogo dei quali uso sempre parecchie parole, che, per giunta, quasi sempre dicono meno chiaramente la cosa. E per farti ancora una confessione, aggiungo che pochi giorni fa, avendomi detto un toscano: – Gli è tutto un figurarselo; quando sarai là non ti parrà niente – io osservai tra [192] me che se avessi dovuto esprimere lì per lì quell’idea, non avrei saputo dire altrimenti che: – la tua immaginazione t’ingrandisce la cosa –; che non è solamente più lungo, ma meno famigliare, e quasi comicamente solenne nel parlare fra amici.
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V’è un gran numero d’altri modi abbreviativi, usatissimi in Toscana, che noi non usiamo, come: – anno, per l’anno passato; sabato notte, per esempio, per nella notte di sabato; a buio (stasera a buio sarò qui); di levata (fare una cosa di levata, ossia, appena scesi da letto); fare un’usciata, una finestrata, per isbattere l’uscio o la finestra in faccia a uno. E vedi il significato della parola aria, che tien luogo di più parole, negli esempi: – gli volevo parlare di quell’affare; ma vidi che non era aria; – oggi non è aria; lasciatemi stare –; e la brevità efficace dell’espressione: – una casa a uscio e tetto – per dire una casa bassa, che ha soltanto il pian terreno; e della parola riesci – è un riesci – per dire una cosa che imprendiamo a fare senza deliberato proposito e studio precedente, e che non sappiamo se riuscirà bene o male. E nota negli esempi: – mettere delle frutte sul cassettone per bellezza –, sapere una cosa di rimbalzo –, non verrà certo, ma se per impossibile egli venisse.... – se ti riuscirebbe d’esprimere con eguale evidenza, non usando più di due parole, l’idea che quei tre modi esprimono. E ora una filza di vocaboli, ciascuno dei quali ne fa risparmiare parecchi. Cimiciaio, una casa o un mobile pieno di cimici. – Birbonaio, [195] un covo di birboni. – Ladronaia. (Quell’Amministrazione è diventata una ladronaia). – Serpaio, viperaio, un luogo pieno di serpi o di vipere. – Scannatoio, una trattoria, un albergo, dove si pelano gli avventori. E ti potrei anche citare, come vocaboli ai quali ne sostituiamo quasi sempre più d’uno: – Frasconaia (per traslato, ornamenti e addobbi eccessivi e senz’ordine: d’una sala e anche d’una donna, che si metta troppa roba in capo). – Frascume (ornamenti vani d’opere d’arte, e anche di stile). – Tritume (soverchia quantità, varietà e minuziosità di parti o membri in opera d’architettura, o anche di pittura). – Rifrittume (lavoro composto di cose dette e ridette da molti, e anche dall’autore stesso). – Grinzume, una quantità di grinze considerate insieme, o d’un viso o d’un vestito. – Vietume, roba vieta. E per finire con qualche cosa di fresco: fiorita di neve, un modo graziosissimo, col quale possiamo far di meno di dire: uno strato leggerissimo, o anche più lungamente: tanta neve che ricopra appena il terreno.
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V’è poi un ordine di vocaboli (più ricco nella nostra, credo, che in ogni altra lingua) ai quali noi sostituiamo quasi sempre una definizione, che rallenta il discorso e rende con meno immediata evidenza l’idea. Ne feci già un cenno nella Corsa nel vocabolario. Sono vocaboli che significano l’indole e l’aspetto d’una persona, certi difetti e vizi e abiti fisici e morali, e modi d’essere, di moversi, di fare, di vivere. Te ne metto sotto gli occhi una serie, di cui la [196] maggior parte non richiede spiegazione, e che son non di meno d’uso rarissimo fra noi. Sono come tanti piccoli ritratti chiusi in una parola.
Abbacone – Abbaione – Almanaccone – Annaspone – Badalone – Baione – Baffone – Barbuglione – Belone – Biascicone – Boccalone – Brodolone – Cabalone – Ciabattone – Ciaccione – Ciampicone – Ciarpone – Cincischione – Ciondolone – Combriccolone – Dimenticone – Dondolone – Ficcone – Fiottone – Fracassone – Frittellone – Gamberone – Gingillone – Gonfione – Gracchione – Impiccione – Lanternone – Lasagnone – Leccone – Lezzone – Machione – Massiccione – Nappone – Ninnolone – Nonnone – Pataccone – Pecorone – Pencolone – Piaccione – Picchione – Pigolone – Praticone – Perticone – Raggirone – Sbracione – Sbraitone – Sbrendolone – Scioperone – Sgomentone – Soppiattone – Spilungone – Squarcione – Tatticone – Tenerone – Tentennone – Appiccichino – Attacchino – Attizzino – Cicalino – Ficchino – Frucchino – Frustino – Galoppino – Gambino – Girandolino – Lecchino – Rabattino – Pepino – Stillino – Tritino – Ferraccio – Falcaccio – Lamaccia – Annaspo – Scricciolo – Reciticcio.
Considera quanto di frequente, parlando o scrivendo, occorre di definire o di descrivere o d’accennare di volo qualche particolarità fisica o morale d’una persona, e comprenderai come dal fatto di non conoscere i vocaboli citati, o di non averli alla mano, o di non volerli usare per timore che altri non gl’intenda, si sia costretti ogni momento a dir molte parole che si [197] potrebbero risparmiare, con l’aggiunta d’esprimere stentatamente e male la nostra idea, e quasi sempre con minor effetto comico di quello che vorremmo ottenere.
Mi sono diffuso alquanto su quest’argomento perchè nell’arte del parlare e dello scrivere è d’importanza primissima il precetto del poeta: – Sii breve ed arguto. – So che a me tu potresti dire: – Da che pulpiti! – E avresti ragione. Ma non badare al mio; bada al pulpito del Parini.
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