Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE SECONDA.

APOLOGIA DEL PEGGIORATIVO.

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APOLOGIA DEL PEGGIORATIVO.

Eccomi qua, signorino. Sono il sor Accio, peggiorativo di professione, vecchio come il primo topo; ma sempre sano e pien di vita come un ragazzo. Non si sgomenti della mia faccia burbera e della mia voce grossa, chè sono un buon diavolaccio in fondo, nonostante la mia reputazione di persona grossolana, e benchè di solito si pronunzi il mio nome sporgendo il labbro di sotto in atto di disprezzo. Vero è che io servo quasi sempre a esprimere sentimenti di disistima e d’avversione, a sparlare del prossimo e a definir cose brutte e sgradite; ma, insomma, sono utile, perchè avversione e disistima sono ben sovente sentimenti onesti, e dir male di certa gente è dovere di coscienza, e sono mai tante le cose brutte e sgradite che gli uomini sono costretti a rammentare! E appunto perchè ho coscienza d’esser utile, mi fo lecito di offrirle i miei servizi, e di farle, modestamente, una lezioncina di lingua.

Perchè, parlando e scrivendo, ella si serve così raramente di me? Eppure io servo a dir molte cose, che non si possono dir bene se non per mezzo mio. Di molte idee accorcio [212] l’espressione; di certi sentimenti significo io solo certe sfumature che altrimenti non si saprebbero rendere; a molte parole do un particolare senso comico che per sole esse non hanno; e a chi esprime un giusto sentimento di disprezzo o di sdegno, il mio suono stesso un certo qual senso di sodisfazione, che nessun’altra parola gli darebbe, poichè è un suono largo e forte, che gli riempie la bocca e gli fa stringere i denti, non è vero? il suono come d’una palmata vigorosa, che pianti ben salda e ribadisca l’idea.

O perchè non si serve qualche volta di me quando vuol dire, per esempio: una trista idea, una mala giornata, una mossa o un’entrata o un’uscita villana, una cattiva ragione, un cattivo partito, una cattiva pratica, una brutta cera o un brutto momento? Perchè, invece di usare due parole o una perifrasi, non dice invece: – Questa è un’ideacciaOggi è una giornatacciaIl tale m’ha fatto una mossaccia, un’entrataccia, un’uscitacciaCodesta che tu adduci è una Ha trovato marito; ma è un partitaccioQuel giovane si mette male; ha delle praticacceIl tale oggi si deve sentir male; ha una ceracciaSe càpita ora quel poco di buono, mi piglia in un momentaccio –? Non esprimerebbe la sua idea con maggior brevità e con po’ più forza? E se per dire che un tale d’una cert’arte, ufficio o mestiere ha una certa pratica, ma affatto materiale, senza alcun lume di scienza, o che un impertinente l’ha messo al punto di fare uno sproposito, o che un trivialone di sua conoscenza ha mangiato come un bufalo, dormito come un ghiro e tenuto dei discorsi indecenti, ella dicesse: – Non [213] ha che una certa praticacciam’ha messo a un puntaccioha fatto una mangiataccia, una dormitaccia, dei discorsacci, – non direbbe la cosa più alla svelta e con più vigore d’espressione?

E non son mica grossolano come posso parere a primo aspetto, chè nel graduare o colorire il significato delle parole ho io pure le mie industrie e le mie finezze. Fare una levataccia, per esempio, non significa soltanto: levarsi più presto del solito; ma dice anche la violenza che si fa alla propria pigrizia, e il rincrescimento del farla. Fare una partaccia a uno non vuol dir solo fargli un rimprovero acerbo, o, famigliarmente, una lavata di testa, ma anche usare, facendogliela, aspre parole. Dicendo che uno ha un talentaccio, un ingegnaccio, si dice che ha molto talento, molto ingegno, ma in qualche lato manchevole, o poco ordinato, o non usato sempre degnamente: non si direbbe del Manzoni o del Carducci. Poveraccio! esprime una sfumatura di compassione o di pietà, che non si può sentire od esprimere riguardo a persone che ispirano reverenza: ella può dire poverino o poveretto, ma non poveraccio, di suo padre. Nell’espressione: un uomo fatto all’anticaccia, v’è una leggiera intenzione di canzonatura che non è in fatto all’antica. E con librucciaccio ella dice un libro non soltanto meschino nella forma (chè libruccio significa meschino nella forma più che nella sostanza) e non solo di poco pregio nella sostanza, ma anche in questa rozzo e cattivo. E s’ella dice che un tale fa il comodaccio suo, dice che fa il suo comodo con particolare indiscrezione e noncuranza del comodo altrui e del dovere proprio. Vede quante piccole cose, quante [214] minute diversità e graduazioni di idee io servo a dire e determinare!

E poi, ho stampato tante parole di forte rilievo e di color vivo e gaio, a cui nessun’altra equivale! Veda un po’ queste. Di un lavoro duro e misero, che dia appena da vivere: – È un panaccio. – Mangiare un panaccio arrabbiato. – Non t’immischiare con colui: è un arnesaccio, è robaccia. – S’è preso un cosaccio d’avvocato, che gli mangerà fin l’ultimo soldo. – Mi tocca a far certe facciacce per cagion sua! – S’è presentato con un pajaccio di scarpe rotte. – O figliaccio e po’ d’un cane! – E veda come servo anche a dare il fatto suo a un indegno, così di sbieco, senza parere: – L’hanno fatto cavaliere l’altro giornaccio, o uno di questi giornacci lo faranno. – Non è una bellezza? E non finirei più! Ma le dico ancor questa: che servo io solo, in Toscana, senz’essere appiccicato ad altra parola, a definire una persona: – È un ragazzo accio, ma accio bene; è un farabutto, ma di quegli acci; – o sono adoperato tre volte per rincarare la dose: – È un malandrinaccio.... accio, accio, accio. – E, in fine, m’accecherà l’orgoglio; ma io penso che uno scrittore che non sa giovarsi del fatto mio, o che mi trascura o mi disprezza, non può essere che uno scrittore da un tanto il mazzo. E me ne scappo, perchè vedo avvicinarsi un tale, un giovincello sdolcinato, con cui non me la dico, e non mi posso trovare insieme. La lascio con lui, che cercherà di rivogarle la sua mercanzia. Ma ritornerò. A rivederci a presto, e si guardi da un’indigestione di zuccherini.

 

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