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APOLOGIA DEL DIMINUTIVO.
Giovanettino, ti saluto. Io sono il diminutivo...
Comprendo il tuo sorriso; ma non mo ne risento, perchè sono un buon figliuolo. Da qualcuno tu avrai inteso dir corna di me, e sei mal prevenuto a mio riguardo. T’avranno detto che sono uno sdolcinato stucchevole, che stempero le parole e snervo la lingua, empiendola di lezi femminei e di vezzi bambineschi. Ma tu non devi dar retta a costoro: gente di grossa pasta, che non mi capisce e non mi sente. Io son modesto di natura, e non per vanagloria, lo puoi credere, ti affermo che chi mi maltratta o per ignoranza o per rozzezza d’animo, chi non ha famigliarità con le mie forme innumerevoli e le tiene in conto di vane frasche, non può saper quanto è ricca, quanto è flessibile, quant’è dolce la lingua della sua patria. Cascano nella leziosaggine e ristuccano, non c’è dubbio, tutti coloro che abusano di me, appiccicandomi a cinque parole su dieci, che dicono a un modo bellino e carino un fiore e un campanile, un bambino e una montagna, che non possono [216] esprimere un’idea senza rimpicciolirla alla misura della loro animetta, un sentimento senza indolcirlo fino alla nausea, col giulebbe che hanno nelle vene invece del sangue. Ma, usato con discernimento da chi ha intelletto e gusto fine, io compio nella lingua un ufficio nobile e utile; io do alla parola gentilezza e grazia e soavità di suono e sapore di scherzo garbato e cento significati delicatissimi d’affetto, di pietà, di simpatia, d’indulgenza; io attenuo e scuso colpe ed errori di persone care, velo infermità e deformità d’infelici, esprimo quanto vi è di più tenero nel cuore delle madri e degli amanti, rendo tutte le più delicate gradazioni della bellezza e delle virtù gentili e dei sensi ch’esse ispirano; e addolcisco il rimprovero, e spunto l’offesa, e accarezzo e compiango e conforto. E non vezzeggio alla cieca ogni cosa, come afferma chi non m’intende o mi calunnia; ma dico anche verità sgradite a chi in altra forma non le vorrebbe udire, e faccio atto di giustizia temperando la lode eccessiva, restringendo il concetto ingiustamente ingrandito di molte cose, mettendo un’ombra di rampogna, quando occorre, anche nell’espressione della pietà e dell’affetto. Non vezzeggio soltanto; ma definisco, distinguo, dipingo, scolpisco ed illumino. E non è la mia vanità, è la voce universale che mi chiama una bellezza e un privilegio della lingua italiana.
Imita dunque la gentilezza di chi, volendo designare un piccolo infelice, di cui non sa il nome, e sentendo che nel modo il piccolo storpiato non suona la pietà, dice – lo storpiatino –, come chiama loschina una ragazza losca, e [217] dicendo d’un’altra che ha la bazza, fa intendere insieme ch’ella ha qualche cosa di grazioso, che quasi fa piacere il difetto, chiamandola: – Una bazzina. – Ecco la bazzina. – È una bazzina, bionda, piena di vita. – E dicendo d’una giovinetta o d’una bimba: boriosina, invece di: un po’ boriosa, farai comprender meglio che, pure avendo quel difetto, non ha animo cattivo. E se chiamerai un’altra: beatina, dirai, come non potresti meglio, ch’essa è devota alle pratiche del culto, ma non pinzochera, e che il sentimento religioso in lei è gentilezza. E quando vorrai dire che una donna ha un carattere alquanto astioso, tu potrai chiamarla astiosina, senz’offenderla; ciò che non ti riuscirebbe nè premettendo un po’ all’aggettivo, nè con altra parola attenuante.
Ma è l’affetto, è il sentimento della delicatezza che suggerisce a chi parla le mie forme più gentili; esse non si cercano, vengon via spontanee, come certe inflessioni carezzevoli della voce. Senti le mamme del popolo, in Toscana. Chiamano maggiorino il maggiore dei loro figliuoli piccoli. Dicono vergognosina una bimba timida, e magari anche un po’ selvatica. Non chiameranno un loro bimbo: spersonito o malsano, ma stentino, e per non dir gracile, diranno: – È così minutino, ma sano, – e per non dire d’una ragazza che è di complessione delicata, diranno: gentilina; e capacino, per modestia, d’un ragazzino intelligente o bravo in qualunque cosa. – Ammodino, ragazzi! – dicono spesso, invece di: ammodo, per addolcire l’avvertimento. Tu potresti urtare il loro amor proprio dicendo che un loro [218] figliuoletto ha già le sue malizie; non l’urteresti dicendo che ha le sue malizine; che esprime l’idea d’un accorgimento fine meglio che quella dell’astuzia. E così, se vorranno dirti che un loro bimbo è schifiltoso nel mangiare, te lo diranno con un’espressione graziosissima: – È tanto boccuccia, che è capace di rifiutarmi un piatto se ci trova un bruscolo. – E dicono al pigretto che chiede una cosa: – Allunga il santo manino, e pìgliatela da te. – E quante altre espressioni graziose ti potrei citare, fatte col mio conio! Di una piccola donna o ragazza seducente: – È una cosolina simpaticissima – Ha un’ideina che piace – Una camera raccoltina: non è significata nel diminutivo anche la piccolezza e quasi la giocondità della camera? E se uno ti dice: – A tastar per terra nel buio c’è il casetto di raccattare qualche cosa di spiacevole – non senti in quel casetto un sapor comico che ti fa sorridere? E se ti dice un altro che: – bisognerà aspettare un paietto d’ore –, non senti in questo diminutivo l’intenzione cortese d’abbreviare il tempo nel tuo concetto e di esortarti ad aver pazienza? Ma chi può noverare la varietà degli effetti ch’io posso ottenere? Anche l’attenuazione del peggiorativo! Sentirai dire nella campagna toscana, in val d’Elsa: – Animaccina! – che è come dar dell’animaccia a uno e chiedergli scusa ad un tempo, riconoscendo d’aver detto troppo. Donnaccina! Dieci vocaboli ammontati, nota un filologo illustre, non saprebbero dire altrettanto. E di annatina che i contadini toscani dicono qualche volta per “annataccia affamata„ dice lo stesso filologo che v’è in quel diminutivo una mirabile [219] disposizione d’animo, la quale attenua il dolore e quasi ingentilisce il bisogno; e si sottintende: un sentimento di rassegnazione cristiana, per cui si vuol dire la cosa senza lagnarsi, per timor di Dio, che l’ha mandata. Che potrei fare di più, mondo birbetta?
Sarai dunque persuaso, carino mio, che non è mia colpa se molti seccano il prossimo e mi fanno prendere in uggia con gl’ini, con gli etti, e con gli ucci; che è soltanto l’abuso e il mal uso che mi rendono indigesto; che il vizio non è in me, ma in chi mi violenta e mi snatura. E lascia ch’io batta ancora su questo chiodo, facendoti considerare, per esempio, che se è proprio e grazioso il dire d’un ragazzo: ravviatino, ravversatino, ricciutino, fa venire il latte ai gomiti l’udirlo dire d’un uomo tanto fatto; che se è gentile il dire che una bimba è tutta pensierini per la sua mamma, è sdolcinato davvero il dir lo stesso d’un padre per la sua figliuola; e che è ridicolo il dire d’un barbuto impiegato postale, cortese col pubblico, che ha una manierina amabilissima, e che stonerebbe un ufficiale con la sciabola in pugno, che gridasse ai suoi soldati, chiamandoli alle file: – Fate prestino!
Giovati dunque di me, giovinetto, e dirai molte cose propriamente e con garbo e con arguzia; ma non mi chiamare in ballo troppo spesso, e, sopra tutto, non m’usare che quando calzo appunto al sentimento e all’idea. Perchè io sono nella lingua come il sorriso sul volto umano. Che c’è di più gradevole d’un sorriso gentile? Ma chi sorride a tutti, ogni momento e a qualunque proposito, è uno smanceroso che [220] viene a noia. E qui fo punto. Parto per un viaggio di propaganda nell’Italia nordica; ma ritornerò ogni tantino nel paese tuo, dove mi pare d’esser tenuto anche in minor conto che altrove. Ricordati di me, e fa’ spallucce ai tangheri che mi vorrebbero bandire dalla lingua: fratelli nati di quei padroni di casa villani, che in casa loro non vogliono nè bambini nè fiori.
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