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(Pareri d’un senatore, d’un filologo, d’una signora, d’un ingegnere industriale e d’un bello spirito).
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Per parole nuove intendo principalmente quelle che noi prendiamo a prestito da lingue straniere per designare nuove cose (come istituzioni, invenzioni, usanze), per le quali non abbiamo nella nostra lingua parole proprie, perchè son cose che non ebbero origine, ma furono introdotte da paesi stranieri nel nostro. Come di altre parole e locuzioni si domanda: – È errore? Non è errore? – di queste si suol domandare: – Si può o non si può dire? O che parola italiana vi si potrebbe sostituire? – A questo riguardo, invece di stenderti un lungo elenco di vocaboli, e di ripeterti (chè altro non potrei fare) le discussioni che si fecero e si fanno sulla convenienza d’accettarne alcuni e di rifiutarne altri, e sui vocaboli italiani che potrebbero far le veci dei rifiutati, credo più opportuno il riferirti certi [258] pareri che mi furon dati intorno all’argomento da persone di dottrina e di buon senso, alcuni molti anni fa, altri di recente; dai quali tu potrai dedurre una norma generale da seguire, parlando e scrivendo.
un senatore.
– Come ho da fare, signor Senatore? – domandai a un dotto toscano, scrittore elegantissimo (ahimè! son più di trent’anni, e il valentuomo è morto da un pezzo). – Come si può conciliare la necessità d’usar le parole nuove col dovere di non offendere la purità della lingua?
Rivedo il buon sorriso arguto con cui mi rispose: – La purità della lingua? Ma nessuna lingua è pura, e non deve, nè può essere. Non potrebbe esser pura che la lingua d’un popolo, il quale non avesse commercio nè di cose nè d’idee con alcun altro popolo, non solo, ma che, non mutando in nulla mai nè le idee nè le cose proprie, ossia, non pensando e non progredendo, non avesse mai bisogno di variare e d’arricchire il proprio linguaggio; che sarebbe perciò un linguaggio morto, e morto il popolo stesso. Nessuna lingua è ricca abbastanza da poter designare in termini che già possegga tutti gli oggetti e i concetti nuovi che porta con sè il progresso universale di ogni forma del lavoro umano: deve quindi ogni lingua accettare e produrre continuamente nuovi termini. La maggior parte di questi, a chi vorrebbe la lingua immobile, paiono voci impure, che la deturpino e la snaturino. Ma le cause [259] dell’alterazione della lingua essendo inevitabili e necessarie, è così illogico e impossibile il respingere le nuove parole per amor della purità linguistica, come sarebbe il respingere le cose e le idee per conservare immutato il modo di vivere e di pensare della propria nazione. Sono i barbarismi superflui e le parole nostre storpiate o usate in senso improprio e i traslati e i costrutti ripugnanti all’indole della lingua nazionale, quelli che la offendono e la imbastardiscono: non le parole straniere di cui non si può fare di meno. Si può dire che macchiassero la purità della lingua i primi italiani che nominavano coi termini ora in uso tutte le nuove armi inventate dopo la scoperta della polvere? E quelli che chiamavano coi loro nomi d’origine tutti i concetti e le istituzioni che ci vennero dalla rivoluzione francese, e che fra noi hanno conservato quei nomi, non più discussi ora, e quasi neppur più riconosciuti come stranieri? E quelli che usavano per i primi le parole telegrafo, piroscafo, dagherrotipo, fotografia, e cento altre simili? Non si dia dunque pensiero per questo riguardo, perchè non offenderà la purità della lingua usando le parole nuove, e necessarie, più che non ne offenda l’armonia pronunziando o scrivendo i nomi di personaggi storici o d’amici suoi francesi, inglesi o tedeschi, che le occorra di rammentare nei suoi discorsi o nei suoi scritti.
un filologo.
Questi esordì bruscamente: – Anche lei! Ma non c’è che il nostro paese dove la letteratura abbia tanto tempo da perdere. Che bisogno ha [260] di pareri in una quistione di semplicissimo buon senso? Sulle parole straniere assolutamente necessarie per designar nuove cose, non c’è da discutere: bisogna usarle; e non è nemmeno il caso di dire: bisogna: s’usano, le usan tutti, e la quistione è risolta. Il dubbio può cadere su tutte quelle voci e locuzioni nuove che servono ad esprimere nuovi aspetti di cose, nuove relazioni fra di esse, modificazioni nuove d’idee e di sentimenti, nuovi ordini di idee, principalmente in politica, in arte, in filosofia; e intendo la filosofia che è materia delle conversazioni comuni. In questo campo, come ha detto un maestro, ci sono in ogni lingua, in qualunque momento considerata, parole e frasi straniere messe in prova, delle quali alcune rimarranno, altre saranno sostituite da altre, che l’uso formerà e farà prevalere alle prime; parole nazionali di cui si va mutando il significato; processi di differenziazione, per dirla coi matematici, che si vanno compiendo, ma che non sono interamente compiuti. Ora, rispetto all’uso di questo materiale mobile della lingua, ciascuna nazione fa come una moltitudine in cammino; nella quale c’è chi si spinge alla testa della colonna, chi rimane alla coda e chi si tiene nel mezzo. Lei, come scrittore, non ha da andare nè tra i primi nè tra gli ultimi; ma deve camminare fra gli uni e gli altri. Il criterio della scelta lo ha da ricavare dall’uso. Delle parole nuove usi quelle che s’usano generalmente e che generalmente sono capite. Fra due parole che s’usino, una straniera e una italiana, con non determinata prevalenza di questa o di quella, ma tutt’e due egualmente intese dai più, si tenga [261] all’italiana. E in tutti i casi in cui la parola italiana, che alcuni vorrebbero sostituire all’esotica, non è capìta dai più, non c’è da tentennare: poichè si parla e si scrive per farsi capire dai più, usi l’esotica, e non si dia altro pensiero. Fuor di questa norma, che anche un ragazzo troverebbe da sè, non si fanno che vanissime ciance.
una signora.
Era una signora toscana, coltissima, che avrebbe potuto presedere un’Accademia, e non aveva ombra di pedanteria. – Io non le posso dire – rispose – che quello che lei certamente pensa. Si ricorda i versi del Giusti a proposito della parola diligenza?
Il cambio delle
voci
Fra gente e gente, come l’ombra al corpo,
Tien dietro al cambio delle cose umane;
Nè straniero vocabolo corrompe
L’intrinseca virtù d’una favella
Quando lo stile riman paesano.
Se lei parla e scrive in buon italiano, una lingua tutta italiana di sostanza, d’impasto e di colore, nessuno dirà che parla o che scrive male per il fatto che a quando a quando usi una parola non italiana per dire una cosa che nella nostra lingua non ha ancora la parola che la esprima. So bene che ad alcune delle parole straniere già divulgate c’è chi propone di sostituire altre parole nostre, e che, se queste calzano, e se hanno da prevalere, ciò che è desiderabile, bisogna pure che qualcuno le cominci a usare. Ma in questo io m’attengo a una regola che mi è suggerita da un sentimento più forte di quello [262] della lingua. Delle parole italiane che si vorrebbero sostituire alle straniere ce n’è che si posson dire senza che ne scapiti la naturalezza del discorso, e quelle le dico. Ce n’è altre che non si possono dire senza far maravigliare e sorridere chi ascolta e senza passar per saccenti che si voglia in materia di lingua dettar la legge, e queste non le dico e non le scrivo, perchè preferisco usare un barbarismo al far ridere e all’esser tacciata di saputella. Così non voglio e non posso dire teletta invece di toeletta, nè posa invece di consolle, nè rinfresco invece di buffé, e con buona pace del nostro buon B., dirò cupè, finchè lui od altri non abbiano trovato in luogo di quella parola qualcosa di più spiccio di scompartimento anteriore della diligenza, che quando è detto per non dire la parola barbara, è ridicolo. Questa è la mia regola riguardo alle parole nuove: parlare e scrivere italiano quanto più puramente si può, senza far ridere; perchè nell’uso delle parole ciascuno ha un suo sentimento proprio della convenienza, al quale nessun’autorità linguistica può comandare. Ma già dev’esser pure l’opinione sua, com’è di quasi tutti, e lei non m’ha interrogata che perchè gliela confermassi; e se le avessi espresso un’opinione contraria, non ne avrebbe tenuto nessun conto. Stia dunque col Giusti. L’importante è che lo stile rimanga paesano.
un ingegnere industriale.
Sono ameni i puristi sine labe che non vogliono le parole nuove. È perchè non vivono nel nuovo mondo. Se ci vivessero, se sapessero il [263] numero enorme di nuove parole che hanno portato con sè e rese necessarie i progressi delle industrie minerarie e metallurgiche, il telegrafo, il telefono, l’elettricità, le macchine tessili, la stampa, e cento altre cose; se toccassero con mano che non passa quasi giorno senza che si scopra o s’inventi qualche nuovo strumento, o procedimento, o particolare di congegno o di tecnica, che non può aver altro nome fuor di quello che gli dà chi lo inventa, si sdarebbero dall’impresa per disperati. Per ogni dieci o cento parole che occorrono, e che son prese da una lingua straniera o coniate alla meglio fra noi dalla gente che n’ha bisogno, essi ne propongono una, che dicono italiana, o meno barbara. Ma a che pro? Chi la mette in corso? E quale scrittore ha mai fabbricato nuove parole, che sian diventate d’uso comune? D’uno dei più fecondi e popolari scrittori francesi del settecento, si dice che n’abbia coniate di suo e mandate in giro due sole; delle quali una è morta. E, infatti, l’azione d’uno scrittore, per quanto autorevole, non è che pochissima cosa, per non dire nulla affatto, rispetto all’azione collettiva del popolo, che di certe parole nuove ha bisogno subito, e le piglia dove sono e come le trova, o se le fabbrica da sè, nel modo che gli comoda e gli garba. Conosco una sola nuova parola italiana che in quest’ultimi anni sia stata coniata da un pubblicista, e abbia avuto una certa fortuna: ed è tramvia, che entrò nei regolamenti e nelle leggi. Ma moltissimi che scrivono tramvia, dicono parlando tranvai, e tranvai o tram si dice dalla grande maggioranza in Toscana e altrove; e anche di quelli che usano [264] la parola ufficiale, chi la fa femminile e chi maschile, e chi pronunzia tramvia e chi tranvia, poichè il suono amv non è della lingua italiana; e non è ancor certo che a tramvia debba restar la vittoria. Dunque? Io lascerei gridare i linguisti, e farei il comodo mio, come tutti fanno, senza il loro permesso, e come s’è sempre fatto da per tutto, da che mondo è mondo e le lingue vanno da sè, come i fiumi.
Quello che mi fa dispetto, in quest’affare delle parole nuove, di cui mi son molto occupato per pura curiosità, è l’ipocrisia dei pedanti: è che molti di loro condannano certe parole senza dire quali altre vi si hanno da sostituire, e qualche volta riconoscendo che non ce n’è altre; o ne propongono tre o quattro, che equivale a non proporne alcuna, perchè è un sostituire a una questione un’altra quistione; e che, in ogni caso, combattendo una parola in uso e proponendone un’altra, sono certi certissimi di fare un buco nell’acqua; ciò che vuol dire che seccano la gente sapendo di non ottenere altro effetto che quello di seccare. Mi fa anche più dispetto il vedere che molte delle parole nuove ch’essi non registrano o bollano di barbarismi nei dizionari e nelle dissertazioni o dispute filologiche, o cancellano con tanto di frego nei componimenti dei loro discepoli, le usano poi essi stessi a tutto pasto, parlando, perchè non possono farne di meno, perchè non si farebbero capire o si farebbero canzonare usando quelle che ci vogliono sostituire. Per esempio, io giocherei tutti [265] e due gli occhi che di tutti quanti i proscrittori del barbarismo consommé o consumé non ce n’è uno che abbia mai detto, non ci sarà mai uno che dirà in nessun luogo, in nessun caso, a nessun cameriere o cuoco o albergatore o serva d’Italia: – Mi dia un consumato o un brodo ristretto. – E l’esempio val per cento. O che razza di gioco a partita doppia è codesto? Se quelle parole le dicono, perchè non le scrivono? Se non osano di scriverle, perchè le dicono? Sono bene costretti a scriverne e a lasciarne scrivere tante altre che ai loro padri fecero orrore. Ma la lingua s’altera! Ma sono secoli che si va alterando; ma tutto s’altera col tempo: i costumi, le idee, la vita, il mondo: non s’ha da alterare la lingua? Ma la vanno alterando essi medesimi, che usano molte parole non usate dalla generazione antecedente, che ne usano da vecchi molte altre, che non usavano da giovani. Dicevano essi da ragazzi le parole: patinaggio, scatingring, fonografo, cinematografo, sport, automobile, motocicletta? E bisogna ben che le dicano ora per forza. Io vorrei che con la macchina maravigliosa del romanziere Wells ci potessimo trasportare tutti quanti nel venticinquesimo secolo, per veder che faccia farebbero a leggere il vocabolario della Crusca del 2400! E allora, a che serve questo dire e non scrivere, prescriver con la penna e accettar con la bocca, e pensar d’arrestare una moltitudine che corre agguantando Tizio e Caio per il colletto?
[266]
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Ma tu mi dirai che non t’ho riferito che giudizi anonimi. Ebbene, consultiamo insieme uno scrittore grande e purissimo. Ecco quello che ti direbbe Giacomo Leopardi, condensando in un breve discorso quanto è scritto sparsamente nei sette volumi dei Pensieri postumi.
– Conservare la purità della lingua è un sogno, un’immaginazione, un’ipotesi astratta, un’idea non mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso d’una nazione che, sia riguardo alla letteratura e alla dottrina, sia riguardo alla vita, non abbia ricevuto e non riceva nulla da nessuna nazione straniera. Le cose vivendo sempre, e modificandosi sempre continuamente e moltiplicandosi le conosciute, e non potendo una lingua esser mai perfettamente fornita del necessario fin ch’ella non esprime perfettamente e convenientemente tutte le cose e tutte le possibili modificazioni delle cose di questo mondo, ne segue la necessità ch’ella s’accresca sempre di nuovi modi; i quali è ben naturale che a noi italiani vengano in gran parte di fuori, perchè la vita ci viene in gran parte d’altronde. Molte di queste parole e modi nuovi sono comuni a tutte le lingue colte d’Europa, e però sono europeismi, non barbarismi, perchè non è barbaro quello che è proprio di tutto il mondo civile e proprio per ragione appunto della civiltà, com’è l’uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d’Europa. E d’altra parte l’esempio dei nostri classici (quasi tutti) che hanno arricchito la [267] nostra lingua con derivar vocaboli e modi dal latino, dal greco, dallo spagnuolo o donde che sia, e li hanno resi italiani di fatto, ci ammonisce che la lingua italiana è capacissima d’appropriarsi voci e maniere d’altre lingue. E non solo può, ma lo deve fare, perchè quanto più la nostra lingua è diligente nel non voler perdere (cosa ottima), tanto più per necessaria conseguenza dev’essere industriosa nel guadagnare, per non somigliarsi al pazzo avaro che per amor del danaro non mette a frutto il danaro, ma si contenta di non perderlo e di guardarlo senza pericoli. Voler respingere le parole nuove è voler mettere l’Italia fuori del mondo.
Tutte sentenze d’oro, come dice il Giusti. Ma poichè potresti esser tentato d’abusarne, seguendo l’esempio dei molti barbari che dalle lingue straniere pigliano a prestito una parola ogni dieci, ti presento come antidoto un mio amico di gioventù; la cui immagine mi salta sempre davanti quando nel parlare italiano sto per dire una parola o una frase francese, non perchè manchi alla mia lingua il modo corrispondente, ma per iscansare la fatica di cercarlo.
Ho l’onore di presentarti il visconte La Nuance.
[268]
La famiglia dei visconti La Nuance è antica e numerosissima.
Il giovine italiano, al quale avevamo posto quel soprannome, era nobile veramente (del che non si boriava punto); ma povero come noi, figliuolo d’un esattore, e impiegato egli stesso, non ricordo in che amministrazione dello Stato. Essendo cresciuto in Savoia, dove suo padre era stato parecchi anni, aveva imparato il francese prima e meglio dell’italiano, e quella era rimasta la sua lingua preferita, e diventata il suo vanto, la sua gloria, il vero titolo di nobiltà, del quale egli andava superbo; affermando, naturalmente, ch’era la più bella d’ogni lingua antica e moderna, superiore senza confronto e per ogni rispetto alla nostra. Quindi le continue discussioni e battaglie che seguivano fra lui e gli amici, e le infinite canzonature che gli piovevano addosso; delle quali non si risentiva mai, poichè a un’ostinazione invincibile in quella sua idea, in quella soltanto, egli accoppiava una bonarietà inalterabile, che gli faceva tollerare anche gli scherzi più mordenti.
[269]
Ci stizziva in particolar modo il suo continuo interpolare nel discorso italiano vocaboli e frasi francesi, come se la nostra fosse una mezza lingua, che non bastasse ad esprimere perfettamente nessun pensiero; e non men di questo la ostentazione ch’egli faceva di quell’italiano infranciosato, quasi compiacendosi di non avere della lingua propria che un’infarinatura, quanto gli occorreva appunto per i suoi ristretti bisogni di impiegato. E usava nella più parte dei casi il modo francese anche sapendo il modo italiano, poichè in ogni parola o frase di quella lingua egli sentiva o diceva di sentire una sfumatura di significato (una nuance, diceva sempre) che nella nostra lingua non si poteva rendere. Era quasi sempre un’immaginazione sua; ma non c’era verso di sconficcargliela dal capo. Citava un modo francese, e diceva in aria di sfida: – Sentiamo, come direste in italiano? – Noi gli citavamo un modo nostro che, per consenso di tutti, significava per l’appunto lo stesso. Ed egli no, s’incapava a negare. – Ci s’avvicina – rispondeva –; ma è un’altra nuance; no, ce n’est pas ça tout à fait. – No, far riscontro non voleva dire precisamente faire pendant, averne un ramo non significava tal quale être toqué, dire di uno roba da chiodi o ira di Dio non era propriamente lo stesso che pis que pendre. – Un’altra nuance, un’altra nuance, qualche cosa di sopraffino, l’idea d’un’idea, un nonnulla, ch’egli non sapeva dire, ma che sentiva. E quando poi si faceva la prova inversa, aveva la faccia fresca di tradurre disinvolto in dégagé, traccheggiarsi in se dandiner e vattelapesca in que sais-je! Noi gli coprivamo la voce con una [270] urlata, ed egli rispondeva urlando: – Traducete in italiano il Marivaux, se vi riesce! Traducete il Labiche! – E tu traduci il Berni, traduci il Giusti, traduci il Parini! – Fiato sprecato.
Aveva anche il coraggio di sostenere che il francese è più musicale dell’italiano. – Troppe vocali, troppe vocali – diceva. – Si parla sempre con la bocca spalancata. Per esempio, il famoso verso di Dante, nel racconto di Francesca.... – e squarciando le a con una bocca da entrarci una rapa, declamava: – Aaamor che aaa nullo aaamato aaamar perdonaaa! Ma c’è da slogarsi le mascelle! – E noi gli citavamo bellissimi versi francesi che avevano non meno a che il verso dantesco; ma non serviva, perchè l’a francese, per lui, era un’altra a, di suono più discreto dell’italiana. Nei versi francesi sentiva armonie misteriose che al nostro grosso orecchio sfuggivano. – Per esempio, quel celebre verso del La Fontaine, che Victor Hugo giudicò ammirabile:
Six forts chevaux tiraient un coche;
che maravigliosa, inimitabile armonia imitativa! – Di versi italiani, maravigliosi per armonia imitativa, gliene citavamo a decine. – Ma non così fini – ribatteva – non così fini! – Andava fino a dire che era ben più dolce l’au revoir che l’a rivederci, benchè nel saluto francese ci siano come nel nostro due erre; le quali, per giunta, egli arrotava in tal modo, che, a sentirlo, pareva d’esser salutati da una sega arrugginita. – Au rrrevoirrr! Ma non sentite che dolcezza? – E allora gli davamo del barbaro, dell’italiano rinnegato, del traditore della [271] patria; al che egli rispondeva invariabilmente: – Des bêtises! des bêtises! – guardandoci con un sorriso compassionevole, come gente di una razza primitiva, parlanti ancora una lingua rudimentale.
Di scrittori italiani parlava il meno possibile, e ci aveva le sue buone ragioni.
Quando gli chiedevamo un giudizio sopra un nostro grande scrittore antico o moderno, egli riconosceva con parole vaghe i meriti che noi ammiravamo in lui; ma soggiungeva sempre che gli pareva lourd, sans souplesse, sans finesse. La finezza era nel suo concetto la grande superiorità della lingua francese sulla nostra, e affermava che soltanto in francese si poteva parlare con una signora con delicatezza aristocratica, senza mai stonare, senza urtar mai le convenienze e il buon gusto. Gli domandavamo se credeva davvero che il marchese Gino Capponi e il barone Ricasoli, allora viventi, non sapessero sostenere una conversazione con una patrizia fiorentina senz’urtare il buon gusto e le convenienze. Egli aveva l’audacia di risponderci che non li aveva mai sentiti. Lo investivamo qualche volta fieramente. – Come puoi giudicare della finezza della lingua italiana tu, ostrogoto lacerator d’orecchi, che dici tutto il lungo del cammino, una ragazza non si può più gentile, e giuocare un ruolo, e venir di desinare? – Perchè erano di questo conio i francesismi che egli schiantava. E allora ribatteva trionfalmente; – Ah! Ah! Voi v’importate! È segno che non avete delle buone ragioni, che vi sentite battuti, battuti a piatta cucitura, ridotti a.... Come direste in italiano aux abois? – O vile Gallo, agli estremi! [272] – rispondevamo noi. E lui, col suo solito sorriso di commiserazione: – È un’altra nuance; non c’è il senso comico; è un’altra nuance tutt’affatto.
Non disperavamo di persuaderlo, non di meno. Alle volte lo pigliavamo con le buone, ragionando; gli parlavamo della grande ricchezza della lingua italiana, di cui una gran parte non è nei dizionari; della sua mirabile facoltà di adattarsi a tutti i toni, agli stili più diversi, e alla traduzione d’ogni lingua, serbando il colore dell’originale, senza snaturare l’indole propria; della grande quantità e varietà di “tipi e di conii ch’ella possiede per poter formare voci e modi d’uno stesso genere di significazione„, delle innumerevoli desinenze frequentative, diminutive e disprezzative dei suoi verbi, e dell’elasticità e capacità e mutabilità stupenda del suo periodo; e cercavamo di dimostrargli che, nel più dei casi, quando una parola francese non si può tradurre in una italiana dello stesso valore, questo deriva dal fatto che la francese è usata in vari significati, per ciascuno dei quali noi abbiamo una parola propria; e via discorrendo. Ma era come dire al muro. Egli rispondeva che noi facevamo della letteratura, ch’egli intendeva parlare della lingua di conversazione, e ribatteva il suo chiodo, che soltanto in francese si poteva conversare con grazia e con spirito, e che al confronto del francese l’italiano era lourd, poco pieghevole, privo di nuances, una lingua d’accademici e di professori. E noi in coro, come sempre: – Bugiardo rinnegato! – Gallaccio odioso! – Va’ fuori d’Italia! – Che il diavolo t’importi! – Smettila, o t’assommiamo [273] a calotte! – E lui, col suo eterno sorriso: – È inutile. Non mi farete demordere dalla mia opinione.
Ma quello che agli amici non era mai riuscito d’ottenere parve che l’ottenesse il Governo, trasferendolo improvvisamente da Torino, con suo grande rammarico, in non so quale città del Veneto; poichè, forse per lasciarci una buona memoria di sè, per tutto il tempo che rimase ancora fra noi, non solo non mise più sul tappeto e non accettò più nessuna discussione sulle due lingue, ma anche parlò meno francescamente del solito, smettendo, se non altro, d’ostentare certi francesismi per provocazione. Credemmo d’aver operato noi il miracolo, e ce ne rallegrammo. Il giorno della partenza lo accompagnammo tutti alla stazione. Era malinconico. Quando ci abbracciò, prima di salire nel vagone, si commosse. – Ricordatevi di me – ci disse –, scrivetemi. E dimenticate i nostri battibecchi per la lingua. – Ci strinse ancora la mano dallo sportello, dicendoci con le lacrime agli occhi: – Addio! Addio! A rivederci! – E quel suo salutarci, contro il suo solito, in italiano, ci parve il segno più certo del ravvedimento, e noi pure salutammo con affetto l’amico, ridiventato italiano. Oppresso dalla commozione, si ritirò in fondo al vagone prima del fischio della partenza.
Ma appena il treno si mosse, si rilanciò al finestrino, e con voce più commossa di prima, agitando il fazzoletto, gridò con diciotto erre: – Au revoir! Au revoir! Au revoir!
– Trrraître! – gli rispose uno degli amici.
Ma forse egli non ci aveva tradito di proposito: [274] soltanto, nell’impeto della commozione, gli era uscito irresistibilmente dal cuore il saluto che all’orecchio suo sonava più dolce.
E così, nonostante l’ultimo ravvedimento, egli rimase per sempre nella nostra memoria il visconte La Nuance, tipo perfetto e amenissimo dell’italiano con la cresta e coi bargigli.
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